Vigny-sur-Seine si presenta tra due chiuse, tra le sue due collinette spoglie di verde, un paese che si trasforma in periferia. Parigi sta per acchiapparlo.

Perde un giardino al mese. La pubblicità, fin dall’entrata, gli fa dei baffi di colore come un balletto russo La figlia del messo comunale sa fare i cocktails. Non c’è che il tram che ci tiene a diventare un pezzo da museo, non se ne andrà senza rivoluzione. La gente è inquieta, i bambini non hanno già più lo stesso accento dei genitori. Si prova come un imbarazzo a pensare d’essere ancora della Seine-et-Oise. Il miracolo sta per compiersi. L’ultimo gnocco di giardino è scomparso con l’arrivo di Laval agli affari e le donne di servizio hanno aumentato le tariffe di venti centesimi all’ora dopo le vacanze. Si segnala un bookmaker. L’impiegata delle poste compera dei romanzi sui pederasti e se ne immagina di ancora più realistici. Il prete dice parolacce tutte le volte che gli pare e dà consigli di Borsa a quelli che fanno i giudiziosi. La Senna ha ammazzato i suoi pesci e si americanizza tra una doppia fila di scolmatori-trattori-rimorchiatori che le fanno sull’orlo delle rive una tremenda rastrelliera di schifezze e ferraglie. Tre speculatori immobiliari sono appena finiti in prigione. Ci si organizza.

Questa trasformazione fondiaria locale non sfugge a Baryton. Rimpiange amaramente di non aver saputo comperare ancora degli altri terreni nella vallata vicina vent’anni prima, quando ancora ti pregavano di portarli via a quattro soldi al metro quadro, come una torta un po’ andata. La bella vita di una volta. Fortuna che il suo Istituto psicoterapico si difendeva ancora egregiamente. Però con qualche difficoltà. Le famiglie incontentabili non la finivano di reclamare, esigere da lui ancora e sempre nuovi sistemi di cura, più elettrici, più misteriosi, più tutto... I macchinari più recenti soprattutto, gli apparecchi più impressionanti e sùbito per giunta, a rischio d’esser superati dai concorrenti, bisognava darsi da fare... Da quelle case similari infrattate nei vicini boschi d’alto fusto di Asnières, Passy, Montretout, a caccia anche loro di tutti i balenghi di lusso.

S’affrettava Baryton, guidato da Parapine, ad allinearsi alle mode, alle migliori condizioni naturalmente, sconti, occasioni, saldi, senza mai smettere, a colpi di nuovi aggeggi elettrici, pneumatici, idraulici, di sembrare così sempre meglio equipaggiati per correr dietro alle fisime dei cari pensionanti cavillosi e privilegiati. Ci soffriva d’esser obbligato agli apparati inutili... d’esser costretto a guadagnarsi il favore degli stessi matti...

“Quando aprii l’Istituto mi confidò lui un giorno, dando la libera uscita ai suoi segreti, era giusto prima dell’Esposizione, Ferdinand, quella grande... Non eravamo, non formavamo noialtri alienisti, che un numero assai ristretto di praticanti e molto meno curiosi e depravati di oggi, la prego di credere!... Nessuno cercava ancora tra noi, d’essere matto come il cliente... Non era ancora arrivata la moda di delirare col pretesto di guarire meglio, moda oscena badi bene, come quasi tutto quello che ci viene dall’estero...

“Ai tempi dei miei esordi dunque i medici francesi, Ferdinand, si rispettavano ancora! Non si credevano obbligati di dover dare i numeri insieme ai loro malati... Solo per mettersi al passo indubbiamente!... Che ne so? Per fargli piacere! Dove ci porterà tutto questo?... Glielo chiedo... A forza d’essere più astuti, più morbosi, più perversi dei perseguitati peggio in arnese dei nostri istituti, di avvoltolarci in una sorta di nuovo orgoglio abietto in tutte le assurdità che ci vengono presentate, dove andremo a finire?... è in grado di rassicurarmi lei Ferdinand, sulle sorti della nostra ragione?... E perfino del semplice buon senso?... Di questo passo che cosa ce ne resta di buon senso? Niente! C’è da prevedere! Assolutamente niente! Posso predirglielo... è evidente...

“Per cominciare Ferdinand ogni cosa non riesce forse a equivalersi in presenza d’una intelligenza realmente moderna? Niente più bianco! Nemmeno niente più nero! Tutto si sfilaccia!... è il nuovo genere! è la moda! Perché a questo punto non diventare folli anche noi?... Immediatamente! Per cominciare! E vantarcene per giunta! Proclamare il gran casino spirituale! Farci réclame con la nostra demenza! Chi può fermarci? Glielo chiedo Ferdinand! Qualche estremo e superfluo scrupolo umano?... O forse qualche insulsa timidezza? Eh?... Senta, mi càpita Ferdinand, quando sento certi nostri confratelli, e di quelli badi, tra più stimati, più ricercati dalla clientela e dalle accademie, di chiedermi dove ci stanno portando!... Una cosa infernale davvero! Questi forsennati mi sconcertano, mi angosciano, mi fanno diventare un diavolo e soprattutto mi fanno ribrezzo! Solo a sentirli fare le loro relazioni durante uno di quei congressi moderni sui risultati delle loro ricerche riservate, sono preso da una strizza blu Ferdinand! Perdo la ragione solo ad ascoltarli... Ossessi, viziosi capziosi e retorici, questi beniamini della nuova psichiatria, a colpi di analisi supercoscienti ci gettano negli abissi... Semplicemente negli abissi! Un bel giorno, se voi non reagite, Ferdinand, voi giovani, saremo tagliati fuori, mi sente bene, tagliati fuori! A forza di stirarci, di sublimarci, di tormentarci il senno, dalla parte opposta dell’intelligenza, il lato infernale, proprio quello, la parte da cui non si torna!... D’altronde si direbbe già che ci stanno rinchiusi questi superfurbi nella gabbia dei dannati, a forza di masturbarsi il comprendonio giorno e notte!

“Dico proprio giorno e notte perché lei sa Ferdinand che non la smettono nemmeno la notte di fornicare con se stessi quanto son lunghi i sogni quei maiali!... è tutto dire!... E io te lo scandaglio! E io te lo dilato il comprendonio! E io te lo tirannizzo!... E non resta, intorno a loro, che un guazzabuglio schifoso di detriti organici, una marmellata di sintomi di deliri in macedonia che gli trasudano e schizzano dappertutto... Ne abbiamo le mani piene di quel che resta dello spirito, siamo tutti invischiati, grotteschi, sprezzanti, puzzolenti. Va tutto a catafascio Ferdinand, tutto crolla, glielo predico io, il vecchio Baryton, e non ci vorrà mica molto!... E lei lo vedrà quello, lei, Ferdinand, lo squagliamento generale! Perché lei è ancora giovane! Lo vedrà!... Ah! le garantisco io un bel programmino! Finirete tutti dal vicino! Hop! Con un bel tocco di delirio in più! Uno di troppo! E vrrum! Dritto dai matti! Finalmente! Sarete liberati come dite voi! Vi ha troppo tentato da tanto di quel tempo! Quanto a temerarietà non ci sarà niente da dire! Ma quando ci sarete coi pazzi tesorini! vi assicuro che ci resterete!

“Se lo metta bene in testa Ferdinand, quel che è l’inizio della fine d’ogni cosa è la mancanza di misura! Il modo che è cominciato il grande sbandamento, son piazzato bene io per potervelo raccontare... Con le fantasie sulla misura è cominciata! Con gli eccessi venuti da fuori! Niente più misura! Niente più forza! Era scritto! Allora al diavolo tutti quanti? Perché no? Tutti? Intesi! Nemmeno ci andiamo d’altra parte, ci corriamo! è un vero precipitarsi! L’ho visto io lo spirito Ferdinand, cedere a poco a poco il suo equilibrio e poi dissolversi nella grande impresa delle ambizioni apocalittiche! Cominciò verso il 1900... è una data! A partire da quell’epoca, non è stato altro nel mondo in generale e nella psichiatria in particolare che una corsa frenetica a chi diventava più perverso, più sboccato, più originale, più schifoso, più creativo, come loro dicono, del compagnuccio!... Una bella insalata! Si faceva a chi ci consegnava più in fretta al mostro, alla bestia senza cuore e senza ritegno!... Ci papperà tutti la bestia, Ferdinand, è evidente e va bene così!... La bestia? Una grossa testa che cammina come vuole!... Le sue guerre e le sue bave divampano già verso di noi e da ogni parte!... Eccoci qui in pieno diluvio! Semplicemente! Ah ci annoiavamo a quel che pare con il conscio! Non si annoieranno più! Hanno cominciato a incularsi, per cambiare... E allora di colpo si sono messi a provare “impressioni” e “intuizioni”... Come le donne!...

“D’altra parte è necessario al punto in cui siamo, farci tanti scrupoli con qualche ingannevole parola di logica?... Certo che no! Sarebbe piuttosto una specie di inciampo la logica in presenza di dotti psicologi smisuratamente acuti come quelli che il nostro tempo va plasmando, veri progressisti... Non mi faccia dire con questo Ferdinand che disprezzo le donne! Certo no! Lei lo sa bene! Ma non mi piacciono le loro impressioni! Sono una bestia coi testicoli io Ferdinand e quando mi impossesso di un fatto faccio fatica a mollarlo... L’altro giorno, senta, me n’è capitata una bella in proposito ...M’han chiesto di vedere uno scrittore... Dava fuori di matto lo scrittore... Sa cosa gridava da più d’un mese? “Si svuota!... Si svuota!...” Così sbraitava, per tutta la casa! Lui, c’era arrivato... Si poteva dirlo... Gli aveva dato di volta il cervello... Ma è che per l’appunto faceva ancora tutta la fatica del mondo a svuotare... Una vecchia strozzatura lo avvelenava di urina, gli chiudeva la vescica... Non la finivo più di mettergli la sonda, di tirargli fuori goccia dopo goccia... La famiglia insisteva che quello gli veniva malgrado tutto dal suo genio. Avevo un bel cercare di spiegargli alla famiglia che era piuttosto la vescica che aveva di malato il loro scrittore, non mollavano... Per loro, era stato travolto da un attacco del suo genio, tutto lì... Alla fine ho dovuto dichiararmi d’accordo con loro. Lei lo sa vero che cos’è una famiglia? Impossibile fargli capire a una famiglia che un uomo, parente o no, dopo tutto non è altro che marciume in sospeso... Si rifiuterebbero di pagare per del marciume in sospeso.”

Da più di vent’anni Baryton non finiva di dargli soddisfazione, nelle loro vanità puntigliose, alle famiglie. Gli rendevano la vita dura le famiglie. Paziente ed equilibrato come l’ho conosciuto, si portava tuttavia addosso un vecchio residuo di odio irrancidito per le famiglie... Quando vivevo accanto a lui, era esasperato e di nascosto cercava ostinatamente di liberarsi, di sottrarsi una buona volta per tutte alla tirannia delle famiglie, in un modo o in un altro... Ciascuno di noi ha delle buone ragioni per evadere dalle sue miserie private e ognuno per riuscirci prende a prestito dalle circostanze qualche scappatoia ingegnosa. Felici quelli che il bordello gli basta!

Parapine, per quel che lo riguardava sembrava felice d’aver scelto la via del silenzio. Baryton lui, lo capii solo più tardi, si domandava in coscienza se sarebbe mai riuscito a sbarazzarsi delle famiglie, della loro soggezione, delle mille bassezze ripugnanti della psichiatria alimentare, della sua professione insomma. Aveva talmente voglia di cose nuove e diverse, che nel suo intimo era pronto per la fuga e l’evasione, da cui senza dubbio le tirate critiche... Il suo egoismo moriva sotto la routine. Non poteva più sublimare niente, voleva soltanto andarsene, trasportare altrove il suo corpo. Non era musicista manco un po’ Baryton, aveva bisogno di rovesciare tutto come un orso, per finirla.

Si liberò lui che si credeva ragionevole con uno scandalo assolutamente deplorevole. Cercherò di raccontare più tardi, con comodo, in che modo andarono le cose.

Quanto a me, per il momento, il mestiere di suo assistente mi sembrava del tutto accettabile.

Le pratiche del trattamento per niente faticose, anche se evidentemente, ogni tanto mi prendevano dei piccoli malesseri quando per esempio avevo conversato troppo a lungo con i pensionanti, allora mi travolgeva una specie di vertigine come se loro m’avessero portato lontano dai miei territori abituali i pensionanti, con loro, senza averne l’aria, tra una frase normale e l’altra, con parole ingenue, fin nel bel mezzo del loro delirio. Mi chiedevo per un breve istante come uscirne e se per caso non ero rinchiuso una volta per tutte nella loro follia, senza accorgermene.

Mi tenevo sull’orlo pericoloso dei folli, ai loro margini per così dire, a forza d’esser gentile con loro, per carattere. Non scuffiavo ma tutto il tempo mi sentivo in pericolo come se loro m’avessero attirato subdolamente nei quartieri della loro città sconosciuta. Una città con strade che diventavano sempre più cedevoli via via che avanzavi tra le loro case bavose, dalle finestre sgangherate e mal chiuse, su quei rumori equivoci. Le porte, il suolo che non stanno fermi... Eppure ti prende la voglia d’andare un po’ più in là per sapere se avrai comunque la forza di ritrovare la ragione, tra le macerie. Cambia presto in vizio la ragione, come il buonumore o il sonno nei nevrastenici. Puoi pensare solo alla tua ragione. Rien ne va plus. Basta scherzi.

Tutto andava dunque avanti così tra un dubbio e l’altro quando arrivammo alla data del 4 maggio. Data importante ‘sto 4 maggio. Mi sentivo per caso così bene quel giorno che era quasi un miracolo. Pulsazioni a 78. Come dopo un buon pranzo. Quand’ecco che tutto si mette a girare. Mi abbranco. Va tutto in cattivo sangue. La gente si mette ad avere delle strane facce. Mi sembrano diventati rasposi come limoni e più malevoli ancora di prima. A forza di arrampicarmi troppo alto di sicuro, con troppa imprudenza in cima alla salute, ero ricaduto davanti allo specchio, per guardarmi invecchiare, appassionatamente.

Non conti più il disgusto, la stanchezza quando quei giorni schifosi arrivano a sommarsi tra naso e occhi, solo lì ce n’è per molti anni e molte persone. È proprio troppo per un uomo solo.

Tutto considerato, improvvisamente avrei preferito per un istante tornare al Tarapout. Soprattutto perché Parapine aveva smesso di parlarmi, anche a me. Ma dal lato Tarapout ero bruciato. È duro avere solo il padrone per tutto conforto spirituale e materiale, soprattutto quando è un alienista e tu non sei più molto sicuro della tua testa. Bisogna tener duro. Dir niente. Non ci restava che metterci a parlare di donne insieme; era un argomento che andava bene, grazie al quale potevo ancora sperare di divertirlo ogni tanto. In proposito, lui mi accordava il credito che si dà agli esperti, una piccola competenza sconcia.

Non andava male che Baryton mi considerasse nel mio insieme con un po’ di disprezzo. Un padrone si sente sempre un po’ tranquillizzato dall’infamia dei suoi dipendenti. Lo schiavo dev’essere a ogni costo un po’ o anche molto spregevole. Un insieme di piccole, croniche tare morali e fisiche giustifica il destino che lo soverchia. La terra gira meglio così perché ognuno si trova al posto che si merita.

L’essere di cui ci si serve dev’essere basso, piatto, votato alla degradazione, è una cosa che dà sollievo, tanto più che ci pagava proprio male Baryton. In questi casi d’avarizia acuta gli imprenditori restano un po’ sospettosi e inquieti. Fallito, depravato, traviato, devoto, tutto si spiegava, si giustificava e armonizzava insomma. Non gli sarebbe spiaciuto a Baryton che io fossi anche un po’ ricercato dalla polizia. È questo che fa la dedizione.

Avevo d’altronde rinunciato, da un bel pezzo, a ogni specie d’amor proprio. Un sentimento che mi era sempre sembrato troppo al di sopra della mia condizione, mille volte troppo dispendioso per le mie risorse. Mi ritrovavo benissimo d’averlo sacrificato una volta per tutte.

Adesso mi bastava mantenermi in un equilibrio sopportabile, alimentare e fisico. Del resto non mi importava davvero niente. Ma facevo comunque molta fatica a superare certe notti, soprattutto quando il ricordo di quello che era capitato a Tolosa veniva a risvegliarmi per ore intere.

Mi immaginavo allora, non riuscivo a farne a meno, ogni specie di sviluppi drammatici al ruzzolone della vecchia Henrouille nella sua fossa delle mummie e la paura mi saliva dagli intestini, mi brancava il cuore e se lo teneva, a battere, fino a farmi schizzare tutt’intero fuori dal letto per misurare la stanza su e giù in un senso e nell’altro fino in fondo all’ombra e al mattino. Durante quelle crisi, disperavo di ritrovare quel tanto di distacco da potermi mai riaddormentare. Non credete mai a prima vista all’infelicità degli uomini. Chiedetegli se riescono ancora a dormire... Se sì, va tutto bene. Basta quello.

Non mi sarebbe più capitato a me di dormire profondamente. Avevo perso come l’abitudine di quell’abbandono, quello che bisogna proprio avere, davvero incommensurabile per addormentarsi completamente in mezzo agli uomini. Mi ci sarebbe voluta almeno una malattia, una febbre, una catastrofe precisa perché potessi ritrovarla un po’ questa indifferenza e neutralizzare l’inquietudine che avevo e ritrovare la stolida e divina tranquillità. I soli giorni sopportabili di cui posso ricordarmi nel corso di tanti anni furono i pochi giorni d’una influenza con febbre alta.

Baryton non mi faceva mai domande sulla mia salute. D’altra parte evitava anche di occuparsi della sua. “La scienza e la vita formano dei misti disastrosi, Ferdinand! Eviti sempre di stare a curarsi mi creda... Se uno si mette a interrogare il proprio corpo apre una breccia... Comincia l’inquietudine, l’ossessione...” Queste erano le sue massime biologiche semplicistiche e predilette. Faceva insomma il furbo. “Quel che si sa mi basta!” diceva spesso lui ancora. Solo per impressionarmi.

Non mi parlava mai di soldi ma era per pensarci più a lungo, più a fondo.

I guai di Robinson con la famiglia Henrouille me li tenevo, ancora abbastanza indecifrabili, sulla coscienza e spesso cercavo di raccontarglieli a pezzi e bocconi a Baryton. Ma quello non gli interessava per niente. Preferiva le mie storie d’Africa, soprattutto quelle in cui entravano i colleghi che avevo incontrato un po’ dappertutto, la pratica medica di ‘sti colleghi così poco normali, pratiche strane o sospette.

Ogni tanto, all’Istituto, entravamo in allarme per via della sua figlioletta, Aimée. Improvvisamente, all’ora di pranzo, non la si trovava più né in giardino né in camera sua. Quanto a me, mi aspettavo sempre di trovarla una bella sera, fatta a pezzi dietro un boschetto. Con i nostri matti che passeggiavano dappertutto, poteva capitarle il peggio. Lei d’altronde era sfuggita per un pelo allo stupro, già un sacco di volte. E allora erano urli, docce, spiegazioni a non finire. Avevi un bel proibirle di passare in certi viali troppo isolati, lei ci ritornava ‘sta bambina, irresistibilmente, negli angolini. Suo padre non mancava ogni volta di sculacciarla sonoramente. Ci si poteva far nulla. Credo che a lei piaceva l’insieme.

Incrociando, sorpassando i matti per i corridoi, noi, del personale, dovevamo restare sempre un po’ sulle nostre. Gli alienati hanno il delitto facile ancora più degli uomini normali. Così era diventata una specie di abitudine piazzarci, per incrociarli, con la schiena al muro, sempre pronti ad accoglierli con un calcione nel basso ventre, al primo gesto. Quelli ti spiano, passano. Follia a parte, ci siamo capiti benissimo.

Baryton deplorava che nessuno di noi sapesse giocare agli scacchi. Fui costretto a mettermi a imparare il gioco solo per fargli piacere.

Durante la giornata, si distingueva per un’attività tormentosa e impercettibile Baryton, che rendeva molto faticosa la vita attorno a lui. Una nuova ideuzza del genere bassamente pratico gli zampillava ogni mattina. Sostituire la carta a rotoli dei gabinetti con della carta a fogli pieghevoli ci costrinse a ponzare un’intera settimana, che sprecammo in soluzioni contraddittorie. Alla fine, si decise che avremmo aspettato il mese dei saldi per fare un giro nei negozi. Dopo quello arrivò un’altra seccatura inutile, quella dei gilet di flanella... Bisognava portarli sotto?... O sopra la camicia?... E il modo di impiegare il solfato di sodio?... Parapine si sottraeva con un silenzio ostinato a queste dispute sotto-intellettuali.

Spinto dalla noia avevo finito per raccontare a Baryton molte più avventure di quanto tutti i miei viaggi avessero mai comportato, ero sfinito! E alla fine toccò a lui occupare per intero la conversazione vacante unicamente con le sue affermazioni e le sue impercettibili reticenze. Non se ne usciva. Era con lo sfinimento che mi aveva preso. E non avevo mica, io, come Parapine, un’indifferenza sovrana per difendermi. Bisognava al contrario che gli rispondessi mio malgrado. Non poteva fare a meno di strologare all’infinito, sui meriti comparati del cacao e del caffè con panna... M’intontiva di scemenze.

Si ricominciava sempre a proposito di tutto e di niente, di varici, della corrente faradica ottimale, del trattamento delle celluliti nella regione del gomito... Ero arrivato a sproloquiare seguendo a puntino le sue indicazioni e inclinazioni, a proposito di tutto e di niente, come un vero specialista. Mi accompagnava, mi precedeva in questa passeggiata smisuratamente balorda, Baryton, mi saturò di conversazione per l’eternità. Parapine se la gongolava nel suo intimo, a sentirci sfilare in mezzo ai nostri cavilli per tutta la durata delle tagliatelle schizzando il bordeaux del padrone per tutta la tovaglia.

Ma pace alla memoria di Baryton, ‘sto stronzo! Son riuscito comunque a farlo sparire. Questo ha richiesto un bel po’ di genio!

Tra le clienti che mi erano affidate in custodia speciale le più caciarone mi davano uno stremizio tremendo. Le loro docce di qui... Le loro sonde di là... I loro vizietti, sevizie; e le loro grandi aperture da tenere sempre pulite... Una delle giovani pensionanti mi procurava spesso i richiami del padrone. Distruggeva il giardino strappando fiori, era la sua fissa e a me piacevano per niente i richiami del padrone...

“La fidanzata” la chiamavano, un’argentina, un fisico proprio niente male, ma in testa, una sola idea, quella di sposare il padre. Allora si faceva a uno a uno tutti i fiori dei cespugli per appuntarli nel gran velo bianco che portava giorno e notte, dappertutto. Un caso di cui la famiglia, religiosa fino al fanatismo, aveva una vergogna tremenda. La nascondevano al mondo la figlia e l’idea con lei. Secondo Baryton, era vittima delle dissennatezze d’una educazione troppo tirata, troppo severa, d’una morale totale che le era, per così dire, scoppiata in testa.

Al tramonto, facevamo rientrare tutta la nostra gente dopo aver fatto lunghi appelli, e passavamo ancora per le camere soprattutto per impedire agli eccitati di toccarsi con troppa frenesia prima di dormire. Il sabato sera era molto importante frenarli e farci molta attenzione, perché la domenica quando vengono i parenti, è brutto per la casa quando li trovano masturbati a morte, i pensionati.

Tutto quello mi ricordava la storia di Bébert e dello sciroppo. A Vigny ne davo moltissimo di quello sciroppo. Avevo tenuto la formula. Avevo finito per crederci.

La portinaia dell’asilo teneva un piccolo commercio di caramelle, con il marito, un vero marcantonio, al quale facevamo ricorso di quando in quando, se c’era da menare.

Così andavano le cose e i mesi, abbastanza tranquillamente insomma, e non ci sarebbe stato troppo da lamentarsi se Baryton non avesse improvvisamente concepito un’altra delle sue famose idee.

Da tempo, senza dubbio, si chiedeva se alle volte non poteva utilizzarmi di più e meglio per lo stesso prezzo. Allora aveva finito per arrivarci.

Un giorno dopo pranzo l’ha tirata fuori l’idea. Prima ci ha fatto servire un’insalatiera tutta piena del mio dessert favorito, fragole con la panna. Questo m’è sembrato sùbito sospetto. In effetti, avevo appena finito di papparmi l’ultima fragola che lui m’attaccava d’autorità.

“Ferdinand, mi fece lui a ‘sto modo, mi son chiesto se acconsentirebbe a dare qualche lezione d’inglese a mia figlia Aimée... Che ne dice?... So che lei ha un ottimo accento... E nell’inglese nevvero, l’accento è essenziale!... E poi d’altronde sia detto senza piaggeria lei, Ferdinand, è la cortesia in persona.

- Ma certo, signor Baryton”, gli ho risposto io, preso alla sprovvista.

E si stabilì, senza perder tempo, che avrei dato ad Aimée, sin dalla mattina dopo, la prima lezione d’inglese. E altre seguirono, così via, per settimane...

È a partire da quelle lezioni d’inglese che entrammo tutti in un periodo assolutamente torbido, equivoco, durante il quale gli avvenimenti si susseguirono ad un ritmo che non era più per niente quello della vita normale.

Baryton volle assistere alle lezioni, a tutte le lezioni che davo a sua figlia. A dispetto di tutta la mia sollecitudine inquieta, la povera piccola Aimée ci beccava poco con l’inglese, proprio per niente a dirla tutta. In fondo non ci teneva molto la povera Aimée a sapere quel che tutte quelle parole nuove volevano dire. Si chiedeva anche cosa volevamo tutti quanti insistendo, perfidi, a quel modo, che lei se ne stampasse realmente in testa il significato. Non piangeva, ma ci mancava un pelo. Avrebbe preferito Aimée che la si lasciasse sbrogliare cortesemente col po’ di francese che sapeva già e le cui difficoltà e semplicità le bastavano ampiamente per occupare tutta la sua vita.

Ma suo padre, lui, ci sentiva per niente da quell’orecchio. “Bisogna che tu diventi una ragazza moderna mia piccola Aimée! l’incitava lui, instancabilmente, tanto per consolarla... Ho molto patito, io, tuo padre, di non sapere abbastanza l’inglese da cavarmela come bisognava con la clientela straniera... Va’! Non piangere stellina mia!... Ascolta piuttosto piuttosto il signor Bardamu che ha tanta pazienza, che è così gentile e quando saprai fare a tua volta i the con la lingua come lui ti fa vedere, ti compero te lo prometto, una bella bicicletta tutta ni-che-la-ta...”

Ma lei non aveva voglia di fare the e nemmeno gli enough, Aimée, per niente... è il padrone che li faceva al suo posto i the e i rough e poi ancora molti altri progressi, a dispetto del suo accento di Bordeaux e della sua mania della logica così fastidiosa con l’inglese. Per un mese, due mesi a ‘sto modo. Via via che si sviluppava nel padre la passione d’imparare l’inglese, Aimée aveva sempre meno occasioni di lottare con le vocali. Baryton mi occupava per intero. Mi requisiva perfino, non mi mollava più, mi ciucciava tutto il mio inglese. Poiché le nostre camere erano vicine, potevo sentirlo fin dal mattino, mentre si vestiva, trasformare già la sua vita intima in inglese. The coffee is black... The garden is green... How are you today Bardamu. urlava attraverso la parete. Si appassionò in fretta a tutte le forme più ellittiche della lingua.

Con quella perversione ci doveva portare molto lontano... Non appena ebbe preso contatto con la grande letteratura, ci fu impossibile fermarci... Dopo otto mesi di progressi tanto anormali, era quasi arrivato a ricostituirsi interamente sul piano anglosassone. Così riuscì in pari tempo a venirmi completamente a noia, due volte di sèguito.

Pian piano eravamo arrivati a lasciare la piccola Aimée quasi fuori delle nostre conversazioni, quindi sempre più tranquilla. Se ne ritornò, placida, tra le sue nuvole, senza chiedere il resto. Non imparava l’inglese ecco tutto! Tutto per Baryton!

Tornò l’inverno. Venne Natale. Nelle agenzie ci reclamizzavano dei biglietti di andata e ritorno a tariffa ridotta per l’Inghilterra... Passando per i boulevard con Parapine, accompagnandolo al cinema, ero io che li avevo notati quegli annunci... Ero perfino entrato in una per informarmi sui prezzi.

E poi a tavola, in mezzo ad altre cose, ne avevo fatto cenno a Baryton. In un primo momento non hanno avuto l’aria di interessarlo le mie informazioni. Ha lasciato cadere la cosa. Mi credevo proprio che fosse del tutto dimenticata quando una sera è lui stesso che si è messo a riparlarmene per pregarmi di portargli alla prima occasione i pieghevoli pubblicitari.

Tra una seduta letteraria e l’altra giocavamo spesso al biliardo giapponese e anche “a tappo” in una delle stanze d’isolamento, ben dotate di solide inferriate, situate proprio sopra la guardiola della portinaia.

Baryton era bravo nei giochi di destrezza. Parapine lo sfidava regolarmente per l’aperitivo e perdeva altrettanto regolarmente. Passavamo in quella saletta giochi improvvisata delle intere serate, soprattutto in inverno, quando pioveva, per non sciupargli i suoi grandi saloni al padrone. Qualche volta piazzavamo un agitato in osservazione in quella stessa saletta dei giochi, ma era abbastanza raro.

Mentre gareggiavano al “tappo”, Parapine e il padrone sul tappeto o sull’impiantito, mi divertivo, se così posso esprimermi, a cercare di provare le stesse sensazioni d’un prigioniero nella sua cella. Mi mancava come sensazione. Con la forza di volontà si può arrivare a sentire dell’amicizia per le rare persone che passano per le strade di periferia. Alla fine delle giornate ci si impietosisce sul po’ di movimento che i tram creano riportando da Parigi gli impiegati, in docili mucchi. Alla prima svolta dopo il droghiere la confusione è già finita. Vanno a rovesciarsi lentamente nella notte. Si ha appena il tempo di contarli. Ma Baryton mi lasciava fantasticare raramente a mio piacere. In piena partita di “tappo” se ne usciva fuori con delle domande

How do you say ‘impossibile’ in english, Ferdinand?...”

Insomma non ne aveva mai basta di fare progressi. Era teso con tutta la sua stupidità verso la perfezione. Non voleva nemmeno sentir parlare di pressappoco o di concessioni. Per fortuna, una certa crisi me ne liberò. Ecco l’essenziale.

Via via che andavamo avanti nella lettura della Storia d’Inghilterra lo vidi perdere un po’ della sua sicurezza e poi alla fine il suo miglior ottimismo. Quando abbordammo i poeti elisabettiani grandi cambiamenti impalpabili sopravvennero nel suo spirito e nella sua persona. Feci dapprima qualche fatica a convincermi ma fui costretto, alla fine, come tutti, ad accettarlo per quello che era diventato, Baryton, deplorevole a dire il vero. La sua attenzione puntuale e in altri tempi assai severa adesso fluttuava trascinata verso digressioni favolose, interminabili. E a poco a poco toccò a lui restarsene per ore intere, nella sua stessa casa, là, davanti a noi, a sognare, già lontano... Anche se mi aveva grandemente e decisamente stancato provavo tuttavia qualche rimorso a vederlo disgregarsi a quel modo Baryton. Mi credevo un po’ responsabile di quel disfacimento... Il suo scompiglio spirituale non m’era completamente estraneo... A tal punto che gli proposi un giorno d’interrompere per qualche tempo il corso dei nostri esercizi letterari col pretesto che un intermezzo ci avrebbe fatto bene e il tempo libero e l’occasione di rinfrescare le nostre risorse documentarie... Non si bevve affatto questa pretestuosa furbata e mi oppose all’istante un diniego certo ancora benevolo ma assolutamente categorico... Intendeva, lui, proseguire con me senza indugio la scoperta dell’Inghilterra dello spirito... Così come l’aveva cominciata... Non avevo niente da replicare... Mi inchinai. Temeva perfino di non avere abbastanza tempo da vivere ancora per arrivare fino in fondo... Dovetti insomma e malgrado già presentissi il peggio, continuare con lui bene o male quella peregrinazione accademica e desolata.

In verità Baryton non era più assolutamente se stesso. Intorno a noi, persone e cose, stravaganti e più lente, perdevano già la loro importanza e persino i colori che gli avevamo conosciuto prendevano una dolcezza sognante del tutto equivoca...

Dava prova, Baryton, solo d’un interesse occasionale e sempre più distratto per i dettagli amministrativi della casa, che pure era opera sua, e l’aveva per più di trent’anni letteralmente appassionato. Si fidava totalmente di Parapine per affrontare le faccende dei servizi amministrativi. Il crescente smarrimento delle sue convinzioni, che lui per decenza cercava ancora di nascondere in pubblico, divenne presto assolutamente evidente ai nostri occhi, inconfutabile, fisico.

Gustave Mandamour, l’agente di polizia che conoscevamo a Vigny per averlo utilizzato qualche volta nei lavori grossi della casa e che era proprio l’essere meno perspicace che mi fosse dato incontrare tra tanti altri dello stesso genere, m ha chiesto un bel giorno, verso quell’epoca, se il padrone alle volte non avesse ricevuto delle cattive notizie... Feci del mio meglio per rassicurarlo ma senza metterci troppa convinzione...

Tutti questi pettegolezzi non interessavano più Baryton. Intendeva soltanto non essere più disturbato per alcun motivo... Proprio all’inizio dei nostri studi avevamo sfogliato un po’ troppo in fretta, dietro sua richiesta, la grande Storia d’Inghilterra del Macaulay, opera fondamentale in sedici volumi. Riprendemmo, su suo ordine, questa solenne lettura e ciò in condizioni morali assolutamente inquietanti. Capitolo dopo capitolo.

Baryton mi sembrava sempre più maleficamente contaminato dalla meditazione. Quando arrivammo a quel passaggio, il più irresistibile, in cui Monmouth il Pretendente è appena sbarcato su una costa non precisata del Kent... Al momento in cui la sua avventura si mette a girare a vuoto... In cui Monmouth il Pretendente non sa più bene quali sono le sue pretese... Cosa vuol fare. Quel che è venuto a fare... In cui comincia a dirsi che vorrebbe proprio andarsene, ma non sa più né dove né come andarsene. Quando la disfatta sale verso di lui... Nel pallore del mattino... Quando il mare si porta via le sue ultime navi... Quando Monmouth si mette a pensare per la prima volta... Nemmeno Baryton riusciva più, per quello che lo riguardava, cose microscopiche, a superare le sue stesse decisioni... Leggeva e rileggeva quel passaggio e se lo ripeteva ancora a bassa voce... Prostrato, richiudeva il libro e veniva a stendersi accanto a noi.

A lungo, riprendeva, occhi socchiusi, l’intero testo, a memoria, e poi col suo miglior accento inglese tra tutti quelli di Bordeaux che gli avevo dato da scegliere. Ce lo recitava ancora...

Nell’avventura di Monmouth, quando tutto il ridicolo miserando della nostra natura puerile e tragica si sbottona per così dire davanti all’Eternità si sentiva a sua volta preso dalla vertigine Baryton e poiché solo un filo lo legava ancora al nostro normale destino mollò la rampa... Da quel momento, lo posso ben dire, non fu più dei nostri... Non poteva più...

Alla fine di quella stessa sera, mi chiese di andarlo a raggiungere nel suo ufficio di direttore... Certo, mi aspettavo al punto in cui eravamo, che mi mettesse a parte di qualche suprema decisione, il mio licenziamento immediato per esempio... Ebbene proprio per niente! La decisione su cui s’era fermato m’era al contrario totalmente favorevole! Ora mi capitava così di rado d’essere sorpreso da un destino propizio che non riuscii a fare a meno di versare qualche lacrima... Baryton volle interpretare questa testimonianza del mio turbamento come dispiacere e dovette mettersi a sua volta a consolarmi...

“Arriverà fino al punto di dubitare della mia parola, Ferdinand, se le garantisco che mi ci è voluto molto di più e molto meglio del coraggio per risolvermi a lasciare questa casa?... Io, e lei conosce le mie abitudini così sedentarie, io che son già quasi vecchio insomma, con una intera carriera che fu soltanto una lunga verifica, tenacissima, scrupolosissima di tante di quelle malizie indolenti o svelte?... Come posso essere io arrivato, è incredibile, nello spazio di qualche mese appena ad abiurare tutto?... E invece eccomi qui corpo e anima in questo stato di distacco, di nobiltà... Ferdinand! Hurrah! Come dite voi in inglese! Il mio passato non conta davvero più nulla! Io sto per rinascere Ferdinand! Né più né meno! Parto! Oh le sue lacrime, soccorrevole amico, non saprebbero attenuare il disgusto definitivo che sento per tutto quello che mi trattenne qui per tanti e tanti anni senza sale!... è troppo! Basta Ferdinand! Parto le dico! Fuggo! Evado! Certo mi dilanio! Lo so! Perdo sangue! Lo vedo! Ebbene Ferdinand, tuttavia per niente al mondo! Ferdinand, niente! Lei mi farà tornare sui miei passi! Mi capisce?... Anche se mi fossi lasciato cadere un occhio lì, in qualche parte di questo fango, non tornerei a raccattarlo! Allora! è tutto dire! Dubita adesso della mia sincerità?”

Non dubitavo assolutamente più. Era proprio capace di tutto Baryton. Credo d’altronde che sarebbe stato fatale per la sua ragione che mi mettessi a contraddirlo nello stato in cui s’era messo. Gli lasciai un attimo di tregua e poi comunque cercai ancora un po’ di smuoverlo, mi arrischiai in un ultimo tentativo di ricondurlo a noi... Con gli effetti d una argomentazione leggermente trasposta... educatamente laterale...

“Abbandoni pure, Ferdinand, di grazia, la speranza di vedermi tornare sulla mia decisione! Essa è irrevocabile le dico! Se lei non me ne riparla più, mi farà un gran piacere! Alla mia età, nevvero, le vocazioni diventano assolutamente rare... è un fatto... Ma sono irrimediabili...”

Tali furono le sue proprie parole, quasi le ultime che pronunciò. Le riporto.

“Forse, caro signor Baryton, osai tuttavia interromperlo ancora, forse questa specie di vacanze che lei si dispone a prendere costituirà in definitiva solo un episodio un po’ romanzesco, una diversione opportuna, un felice intermezzo nel corso certo un po’ austero della sua carriera! Forse dopo aver gustato un’altra vita... Più gratificante, meno banalmente metodica di quella che conduciamo qui, forse lei tornerà a noi, semplicemente, contento del suo viaggio, sazio di imprevisti?... Lei allora riprenderà con assoluta naturalezza il suo posto alla nostra testa... Fiero dei suoi recenti acquisti... Rinnovato insomma, e senza dubbio ormai del tutto indulgente e consenziente rispetto alla monotonia quotidiana della nostra laboriosa routine... Invecchiato finalmente! Sempre che lei mi autorizzi ad esprimermi così signor Baryton?

- Che adulatore questo Ferdinand!... Trova ancora il modo di toccarmi nella mia fierezza mascolina, sensibile, esigente perfino, lo scopro a dispetto di tante stanchezze e prove passate... No, Ferdinand! Tutta l’ingegnosità che lei dispiega non riuscirebbe a rendere in un momento favorevole tutto quel che rimane al fondo della nostra stessa volontà, incredibilmente ostile e doloroso. D’altronde Ferdinand, il tempo di esitare, di tornare sui miei passi non c’è più! Io sono, lo confesso, lo proclamo, Ferdinand: svuotato! Inebetito! Vinto! Da quarant’anni di ingegnose bassezze!... è già incommensurabilmente troppo!... Quel che voglio tentare? Lo vuol sapere?... A lei posso dirlo, a lei, amico supremo, lei che ha voluto prendere una parte disinteressata, ammirevole, alle sofferenze d’un vegliardo allo sbando... Io voglio, Ferdinand, cercare di perdermi l’anima come uno può perdere il suo cane rognoso, il suo cane puzzolente, lontano, il compagno che ti fa ribrezzo, prima di morire... Finalmente solo... Tranquillo... se stesso...

- Ma caro signor Baryton, questa violenta disperazione di cui lei mi rivela improvvisamente le esigenze inderogabili non m’era mai balenata, ne sono sbalordito, in alcun momento nei suoi discorsi! Al contrario le sue osservazioni quotidiane mi sembrano ancora oggi perfettamente pertinenti... Tutte le sue iniziative sempre felici e produttive... I suoi interventi medici assolutamente ragionevoli e metodici... Cercherei invano nel corso dei suoi gesti quotidiani uno di questi segni di abbattimento, di sfacelo... In verità, non osservo niente di simile...”

Ma per la prima volta da quando lo conoscevo Baryton non provava alcun piacere nel prendersi i miei complimenti. Mi dissuadeva perfino cortesemente dal proseguire la conversazione su quel tono elogiativo.

“No, mio caro Ferdinand, le assicuro... Queste manifestazioni estreme della sua amicizia giungono certo ad addolcire e in modo insperato gli ultimi istanti della mia permanenza qui, eppure tutta la sua sollecitudine non saprebbe rendermi anche soltanto tollerabile il ricordo d’un passato che mi angoscia e di cui questi luoghi trasudano... Voglio a qualsiasi prezzo mi intenda bene e a qualsiasi condizione andarmene via...

- Ma questa stessa casa, signor Baryton, che cosa ne facciamo a questo punto? Ci ha pensato?

- Sì, certo, ci ho pensato Ferdinand... Lei ne assumerà la direzione per tutto il tempo che durerà la mia assenza ecco tutto!... Non ha sempre avuto ottimi rapporti con la nostra clientela?... La sua direzione sarà dunque ben accolta... Andrà tutto bene, vedrà, Ferdinand... Parapine, lui, visto che non può soffrire la conversazione, si occuperà dei macchinari, degli apparecchi e del laboratorio... Quello lo conosce!... Così tutto è sistemato per bene... D’altronde ho smesso di credere alle presenze indispensabili... Anche da quel lato lì, vede, amico mio, sono molto cambiato.

Difatti, era irriconoscibile.

“Ma lei non teme, signor Baryton, che la sua partenza sia commentata in modo del tutto malevolo dai nostri concorrenti dei dintorni?... Di Passy per esempio? Di Montretout?... Di Gargan-Livry? Tutto quello che ci circonda... Che ci spia... Da quei colleghi mai stanchi di cattiverie... Che significato attribuiranno al suo nobile e volontario esilio?... Come lo definiranno? Scappata? Che altro ancora? Sbandata? Disfatta? Fallimento? Chissà?...”

Quell’eventualità l’aveva indubbiamente indotto a lunghe e penose riflessioni. Se ne turbava ancora, lì, davanti a me, impallidiva a pensarci...

Aimée, la figlia, la nostra innocente, andava incontro in tutto questo a una sorte assai dura. Lui l’affidò in custodia a una delle sue zie, una sconosciuta a dire il vero, in provincia. Così, sistemati per bene tutti gli affari privati, non ci restava altro, a Parapine e a me, che fare del nostro meglio per gestire tutti i suoi interessi e i suoi beni. Alla voga dunque la barca senza capitano!

Ero in grado di permettermi, dopo quelle confidenze mi sembrò, di chiedere al padrone da quale parte contava di lanciarsi verso le regioni della sua avventura...

“L’Inghilterra! Ferdinand”, mi rispose lui, senza esitare.

Tutto quello che ci capitava in così poco tempo, mi sembrava certo molto difficile da digerire, ma dovemmo comunque adattarci rapidamente a quel nuovo destino.

Sin dal giorno dopo, l’aiutammo, Parapine ed io, a farsi una valigia. Il passaporto con tutte le sue paginette e i visti lo stupiva un po’. Non ne aveva mai posseduto uno prima di passaporto. Già che c’era, avrebbe gradito averne qualcun altro di ricambio. Riuscimmo a convincerlo che non era possibile.

All’ultimo momento inciampò nel problema dei colletti duri o molli che doveva portarsi in viaggio e quanti per ogni tipo? Questo problema ci occupò, irrisolto, sino all’ora del treno. Saltammo tutti e tre sull’ultimo tram per Parigi. Baryton si portava dietro solo una valigetta, poiché intendeva restare ovunque andasse e in ogni circostanza, mobile e leggero.

Sulla banchina la nobile altezza delle predelle dei treni internazionali l’impressionò. Esitava a inerpicarsi su quei gradini maestosi. Si raccoglieva davanti al vagone come sulla soglia d’un monumento. L’aiutammo un po’. Avendo preso la seconda, ci fece in proposito un’ultima osservazione, comparativa, pratica e sorridente. “Le prime non sono meglio” fece lui.

Gli tendemmo la mano. L’ora era giunta. Fischiarono la partenza che sopravvenne con un grande scossone, una catastrofe di ferraglia, al minuto esatto. I nostri addii ne uscirono parecchio brutalizzati. “Arrivederci, figli miei!” ebbe appena il tempo di dirci e la sua mano s’è staccata, strappata alle nostre...

Si agitava laggiù nel fumo, la mano, proiettata nel rumore, già sulla notte, attraverso i binari, sempre più lontana, bianca...

 

Viaggio al termine della notte
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