Dopo una sosta, siamo rimontati a cavallo, qualche settimana più tardi, e siamo ripartiti verso il nord. Il freddo se ne venne con noi anche lui. Il cannone non ci lasciava più. Tuttavia, non ci si incontrava più con i tedeschi s non per caso, ora un ussaro o un gruppo di fucilieri, di qui, di là, in giallo e verde, dei bei colori. Sembrava che li cercassimo, ma ce ne andavamo più lontano quando li si scorgeva. A ogni incontro, due o tre cavalieri ci restavano, ora dei nostri, ora dei loro. E i loro cavalli liberati, staffe impazzite e sonanti, galoppavano a vuoto e si precipitavano giù verso di noi da molto lontano con le loro selle dagli arcioni bizzarri, e il cuoio fresco come quello dei portafogli a Capodanno. Erano i nostri cavalli che andavano a raggiungere, sùbito amici. Una bella fortuna! Non siamo certo noi che avremmo potuto fare altrettanto!

Un mattino tornando dalla ricognizione, il tenente Sainte-Engence invitava gli altri ufficiali a constatare che lui non gli raccontava balle. “Ne ho infilzati due!” assicurava in giro, e mostrava al tempo stesso la sciabola dove, era vero, il sangue rappreso colmava la piccola scanalatura, fatta apposta per quello.

“È stato straordinario! Bravo, Sainte-Engence!... L’aveste visto, signori! Che assalto!” rincarava la dose il capitano Ortolan.

Era nello squadrone di Ortolan che era successo.

“Ho perso niente della faccenda! Ero mica lontano! Un colpo di punta al collo in avanti e a destra!... Toc! Il primo cade!... Altra punta in pieno petto!... A sinistra! Traversare! Una vera parata da concorso, signori!... Ancora bravo, Sainte-Engence! Due lancieri! A un chilometro da qui! I due tizi sono ancora lì! In piena azione! La guerra è finita per loro, eh, Sainte-Engence?... Che bella accoppiata! Han dovuto svuotarsi come conigli!”

Il tenente Sainte-Engence, il cui cavallo aveva galoppato a lungo, accoglieva omaggi e complimenti dei compagni con modestia. Adesso che Ortolan s’era fatto garante dell’impresa, era rassicurato e si defilava, portava la bestia ad asciugare facendola girare lentamente attorno allo squadrone riunito come se si fosse trattato del dopocorsa di una prova di siepi.

“Dovremmo mandar sùbito laggiù un’altra ricognizione e dalla stessa parte! Sùbito! si dava da fare il capitano Ortolan tutto eccitato. Quei due balenghi son venuti a perdersi di qui, ma ce ne devono essere degli altri dietro... Ecco, voi, brigadiere Bardamu, andateci un po’ con i vostri quattro uomini!”.

È proprio a me che si rivolgeva il capitano.

“E quando vi tireranno addosso, eh be’ cercate di scovarli e di venirmi sùbito a dire dove sono! Devono essere dei Brandeburghesi!...”

Quelli in servizio permanente raccontavano che in caserma, in tempo di pace, compariva quasi mai il capitano Ortolan. Invece, adesso, in guerra, ricuperava forte. A dire il vero, era infaticabile. Il suo slancio, anche fra tanti altri sconsiderati, diventava di giorno in giorno più notevole. Raccontavano anche che sniffasse cocaina. Pallido e con le occhiaie, sempre in tremito sulle fragili membra, appena metteva piede a terra, prima barcollava e poi si riprendeva e misurava a grandi passi i campi alla ricerca d’una impresa eroica. Ci avrebbe mandato a prendere il fuoco alla bocca dei cannoni di fronte. Collaborava con la morte Si poteva giurare che quella aveva un contratto col capitano Ortolan.

La prima parte della sua vita (m’ero informato) se l’era passata nei concorsi ippici a rompersi le ossa, parecchie volte l’anno. Le gambe, a furia di rompersele e di non farle più servire per camminare, avevano perso i polpacci. Avanzava soltanto, Ortolan, a passi nervosi e aguzzi come su dei bastoni. A terra, sotto la palandrana smisurata, curvo sotto la pioggia, lo si sarebbe preso per il fantasma del culo d’un cavallo da corsa.

Notiamo che all’inizio della mostruosa impresa, cioè nel mese d’agosto, e anche fino a settembre, certe ore, giornate intere talvolta, dei tratti di strada e degli angoli di bosco rimanevano favorevoli ai condannati... Ci si poteva lasciar cullare nell’illusione d’essere quasi tranquilli, e sgranocchiare per esempio una scatola di conserva col suo pane, fino in fondo, senza troppo tormentarsi col presentimento che sarebbe stata l’ultima. Ma a partire da ottobre fu proprio finita con le piccole tregue, la grandine divenne sempre più fitta, più densa, meglio impastata, farcita di granate e pallottole. Presto saremmo stati in piena tempesta e quel che cercavamo di non vedere sarebbe apparso in pieno davanti a noi e non avremmo visto che lei: la nostra morte.

La notte, di cui avevamo avuto così paura i primi tempi, diventava al confronto quasi dolce. Finivamo per aspettarla, per desiderarla la notte. Era meno facile tirarci addosso di notte che di giorno. E non c’era più che questa differenza che contava.

È difficile arrivare all’essenziale, anche in quel che riguarda la guerra, la fantasia resiste a lungo.

I gatti quando il fuoco li minaccia troppo sotto finiscono comunque per andarsi a buttare nell’acqua.

Ci ritagliavamo nella notte qua e là dei quarti d’ora che assomigliavano molto al tempo adorabile della pace, a quei tempi diventati incredibili, dove tutto era benevolo, dove niente in fondo arrivava mai al dunque, dove si realizzavano tante altre cose, tutte diventate adesso straordinariamente, meravigliosamente gradevoli. Un velluto vivente, quel tempo di pace...

Ma presto le notti, anche quelle, a loro volta, furono braccate senza pietà. Quasi sempre la notte bisognava far lavorare ancora la stanchezza, patire un piccolo supplemento, solo per mangiare, per trovare una piccola razione di sonno nel buio. Arrivava alle linee degli avamposti, il mangiare, vergognosamente strisciante e greve, in lunghi cortei zoppicanti di carriole precarie, gonfie di carni, di prigionieri, di feriti, d’avena, di riso, di gendarmi e anche di bibendum, il vino in barilotti, che ricordano così tanto la goduria, traballanti e panciuti.

A piedi, i ritardatari dietro i fornelli e il pane e i prigionieri, dei nostri, e anche dei loro, in manette, condannati a questo, a quello, mescolati, attaccati per i polsi alla staffa dei gendarmi, alcuni da fucilare domani, non più tristi degli altri. Mangiavano anche quelli la loro razione di questo tonno così difficile da digerire (non ne avrebbero avuto il tempo), aspettando che il convoglio riparta, sul ciglio della strada - e lo stesso ultimo pane con un civile incatenato con loro, che dicevano che era una spia, e lui non ne sapeva nulla. Noi nemmeno.

La tortura del reggimento continuava poi in versione notturna, a tentoni nelle stradine gibbose del villaggio senza luce e senza volto, piegati sotto sacchi più pesanti di uomini, da un fienile sconosciuto a un altro, strapazzati, minacciati, dall’uno all’altro, stravolti, senza speranza proprio di finire altrimenti che nella minaccia, il colaticcio e il disgusto d’essere stati torturati, ingannati a sangue da un’orda di pazzi viziosi diventati improvvisamente incapaci d’altro, fin che c’erano, che non fosse uccidere e farsi sbudellare senza sapere perché.

Pancia a terra fra due letamai, a furia di bestemmie, a furia di calci in culo, ci si ritrovava ben presto rimessi in piedi dalle gradaglie e risbattuti ancora una volta verso altri incarichi del convoglio, ancora.

Il villaggio trasudava mangiare e pattuglie nella notte gonfia di grasso, di patate, d’avena, di zucchero, che bisognava portare a spalle e buttar lì, a caso in mezzo alle squadre. Portava di tutto il convoglio, tranne la fuga.

Stremata, la corvé si buttava giù attorno alla carretta e allora arrivava il furiere col suo fanale sopra quelle larve. Sta scimmia a doppio mento che doveva scovare gli abbeveratoi nel caos quale che fosse. Da bere ai cavalli! Ma se ne ho visti, io, quattro uomini, sedere compreso, ronfarci dentro nell’acqua, morti di sonno, fino al collo.

Dopo l’abbeverata bisognava ancora ritrovarla la cascina e la stradina da dove eravamo venuti, e dove credevamo proprio d’averla lasciata, la squadra. Se non si trovava nulla, eravamo liberi d’accasciarci una volta di più lungo un muro, per un’ora sola, se ce ne restava ancora una per ronfare. In ‘sto mestiere d’essere ammazzati, bisogna mica fare i difficili, bisogna fare finta che la vita continua, questa e la cosa dura, ‘sta menzogna.

E ripartivano per le retrovie, i furgoni. Fuggendo l’alba, il convoglio riprendeva la strada, stridendo con tutte le sue ruote ritorte, se ne andava con il mio augurio di venire sorpreso, fatto a pezzi, bruciato infine quella giornata stessa, come si vede nelle stampe militari, saccheggiato il convoglio, per sempre, con tutto l’equipaggio di gorilla gendarmi, di ferri di cavallo e di raffermati con le lanterne e tutto quel che conteneva di corvé e anche di lenticchie e altre farine che non si potevano mai far cuocere, e che non lo rivedessimo mai più. Perché crepare per crepare di fatica o d altro, il modo più doloroso resta quello di arrivarci trasportando dei sacchi per riempirci la notte.

Il giorno che li avessero saccagnati fino alle balestre quegli schifosi là, almeno non ci avrebbero più rotto le palle, pensavo io, e anche se non fosse stato che per una notte tutta intera, avremmo almeno dormito una volta tutti interi corpo e anima.

‘Sti rifornimenti, un incubo in più, piccolo mostro tormentoso nel grosso della guerra. Bruti davanti, di fianco e dietro. Ce ne avevano messi dappertutto. Condannati a morte differiti non uscivamo più dall’enorme voglia di ronfare, e tutto diventava sofferenza oltre a quella, il tempo e la fatica di mangiare. Un tratto di ruscello, uno gnocco di muro per di là che credevamo d’aver riconosciuto... Ci si aiutava con gli odori per ritrovare la cascina della squadra, ridiventati cani nella notte di guerra dei villaggi abbandonati. Quel che guida ancora meglio, è l’odore della merda.

Il marasca del vettovagliamento, guardiano degli odi del reggimento, per il momento padrone del mondo. Chi parla dell’avvenire è un cialtrone, è l’adesso che conta. Invocare i posteri, è parlare ai vermi. Nella notte del villaggio in guerra, il maresciallo custodiva gli animali umani per i grandi mattatoi che avevano aperto. Lui è re, il maresciallo! Re della Morte! Maresciallo Cretelle! Sissignore! C’è niente che ha più potere. Di così potente come lui non c’è che il maresciallo degli altri, là in faccia.

Ci restava niente nel villaggio, di vivo, tranne gatti spaventati. Il mobilio fracassato anzitutto, andava a far fuoco per le cucine, seggiole, poltrone, buffet, dai più leggeri ai più pesanti. E tutto quello che si poteva caricare in spalla, se lo portavano con loro, i miei camerati. Pettini, piccole lampade, tazze, piccole cose futili, e perfino corone da sposa, ci passava di tutto. Come ci fosse stato ancora da vivere per degli anni. Rubavano per distrarsi, per darsi l’aria di averne ancora per molto. Le voglie di sempre.

Il cannone per loro era solo un rumore. È per questo che le guerre possono durare. Anche quelli che la fanno, che ci sono dentro, non se la immaginano mica. Una pallottola in pancia, avrebbero continuato a tirar su vecchie scarpe per via, perché potevano “ancora servire”. Come il montone che, sul fianco, in un prato, agonizza e bruca ancora. La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra.

Ero mica tanto savio da parte mia, ma comunque diventato così pratico nel frattempo da essere definitivamente vigliacco. A séguito di questa decisione davo indubbiamente l’impressione di una grande calma. Fatto è che così com’ero ispiravo una fiducia paradossale al nostro capitano, Ortolan appunto, che per quella notte decise di affidarmi una delicata missione. Si trattava, mi spiegò in confidenza, di andarmene al trotto prima di giorno a Noirceur-sur-la-Lys, paese di tessitori, situato a quattordici chilometri dal villaggio in cui eravamo accampati. Dovevo assicurarmi sul posto stesso della presenza del nemico. In proposito, dal mattino, quelli che erano già stati mandati continuavano a contraddirsi. Il generale des Entrayes era impaziente. In occasione di questa ricognizione, mi si concesse di scegliere un cavallo tra i meno purulenti del plotone. Da molto tempo, non ero rimasto solo. Mi sembrò di colpo di partire per un viaggio. Ma la liberazione era fittizia.

Appena mi misi in strada, per la fatica, riuscii a immaginarmi male, per quanto facessi, il mio stesso ammazzamento, con abbastanza precisione e dettagli. Avanzavo di albero in albero, col mio rumore di ferraglia. La mia bella sciabola, per il bordello che faceva, valeva un pianoforte. Forse ero da compiangere, ma in ogni caso ero sicuramente grottesco.

A cosa pensava dunque il generale des Entrayes spedendomi a quel modo nel silenzio, tutto vestito di cembali? Mica a me di sicuro.

Gli Aztechi sventravano abitualmente a quel che raccontano, nei loro templi del sole, ottantamila fedeli a settimana, per offrirli al Dio delle nuvole, che gli mandasse la pioggia. Ci sono cose che uno stenta a crederle prima di andare in guerra. Ma quando uno c’è, tutto si spiega, e gli Aztechi e il loro disprezzo per il corpo altrui, è lo stesso che doveva avere per le mie povere trippe il nostro generale Céladon des Entrayes, sopra nominato, diventato grazie alle promozioni una sorta di dio fatto e finito, anche lui, una specie di piccolo sole spaventosamente esigente.

Mi restava solo una piccola speranza, quella d’esser fatto prigioniero. Debole speranza, un filo. Un filo nella notte, perché le circostanze si prestavano per niente alle gentilezze dei preamboli. Un colpo di fucile ti arriva più in fretta di una scappellata in quei momenti. D’altronde, cosa potrei dirgli a ‘sto militare ostile per principio, venuto apposta per assassinarmi dall’altro capo dell’Europa? Se esitasse un secondo (che mi basterebbe) cosa gli direi?... Chi sarebbe in realtà, per cominciare? Un commesso di negozio? Un professionista richiamato? Un becchino forse? Da civile? Un cuoco?... I cavalli hanno una bella fortuna, loro, perché se subiscono la guerra, come noi, gli si chiede mica di sottoscriverla, d’aver l’aria di crederci. Sventurati ma liberi cavalli! L’entusiasmo ahimè, ce l’abbiamo solo noi, ‘sta troia!

Vedevo molto bene la strada in questo momento e poi posati sui bordi, sul fango del suolo, i grandi cubi e volumi delle case, coi muri imbiancati di luna, come grossi ineguali pezzi di ghiaccio, tutto silenzio, in blocchi pallidi. Sarebbe qui la fine di tutto? Quanto ci passerei di tempo in questa solitudine prima che m’avessero fatto il servizio? Prima di finirla? E in quale fossato? Lungo quale di ‘sti muri? Mi finiranno forse? Con una coltellata? Qualche volta strappavano le mani, gli occhi e il resto... Raccontavano un sacco di cose a ‘sto proposito, e niente divertenti! Chi sa?... Un passo di cavallo... Ancora un altro... basterebbero? ‘Ste bestie trottano come due uomini in scarpe di ferro legate insieme, con uno strano passo ginnico tutto slegato.

Il mio cuore al caldo, questo coniglio, dietro la gabbietta delle costole, agitato, rannicchiato, ottuso.

Quando uno si getta d’un tratto dall’alto della Tour Eiffel deve sentire delle cose del genere. Vorrebbe aggrapparsi allo spazio.

Conservò la sua minaccia segreta per me, il villaggio, ma tuttavia non per intero. Al centro d’una piazza, un minuscolo getto d acqua faceva glu-glu solo per me.

Avevo tutto, solo per me, quella sera. Ero finalmente proprietario della luna, del villaggio, di una paura tremenda. Stavo per rimettermi al trotto. Noirceur-sur-la-Lys doveva essere ancora a un’ora di strada almeno, quando ho scorto un chiarore ben mascherato sopra una porta. Mi son diretto sparato su quel chiarore ed è così che mi sono scoperto una sorta di audacia, da disertore, è vero, ma insospettata. Il chiarore scomparve sùbito, ma l’avevo proprio visto. Ho picchiato. Insistevo, picchiavo ancora, chiamavo ad alta voce, mezzo in tedesco mezzo in francese, di volta in volta, ad ogni buon conto, gli sconosciuti rinchiusi nel fondo di quell’ombra.

La porta finì per schiudersi, un battente.

“Chi siete?” fece una voce. Ero salvo.

“Sono un dragone...

- Francese?” La donna che parlava, potevo vederla.

“Sì, francese...

- È che di qui ne son passati tanti di dragoni tedeschi... Parlavano francese anche quei là...

- Sì, ma io, sono francese per davvero...

- Ah!

Aveva l’aria di dubitarne.

- Dove sono adesso? ho chiesto.

- Sono ripartiti verso Noirceur verso le otto...”

E mi mostrava il nord con il dito

Una ragazza, uno scialle, un grembiule bianco, sono anche usciti dall’ombra, adesso, fino alla soglia della porta...

“Cos’è che vi han fatto, gli ho chiesto, i tedeschi?

- Hanno bruciato una casa vicino al municipio e poi qui hanno ammazzato il mio fratellino con un colpo di lancia nella pancia... Giocava sul Pont Rouge e li guardava passare... Ecco! me lo mostrò... è là...”

Non piangeva. Riaccese la candela di cui avevo sorpreso il chiarore. E ho scorto in fondo - era vero - il cadaverino disteso sul materasso, vestito alla marinara; e il collo e la testa lividi quanto il chiarore della candela, spuntavano da un grosso colletto blu, quadrato. Era raggomitolato su se stesso, braccia e gambe e schiena ricurve, il bambino. Il colpo di lancia gli aveva fatto come un asse di morte in mezzo al ventre. La madre, lei, piangeva forte, accanto, in ginocchio, il padre anche. E poi, si misero a gemere ancora tutti insieme. Ma io avevo molta sete.

“Avete mica una bottiglia di vino da vendermi? gli chiesi io.

- Bisogna rivolgersi alla madre... Lei forse sa se ce ne sono ancora... I tedeschi ce ne hanno prese così tante...”

E allora, si misero a discutere insieme la mia richiesta, a bassa voce.

“Ce n’è più! tornò ad annunciarmi la ragazza, i tedeschi han preso tutto... E dire che gliene abbiamo date da noi stessi e molte...

- Ah sì, allora, quanto ne han bevuto! osservò la madre, che aveva smesso di piangere, di colpo. Gli piace, a loro...

- E più di cento bottiglie, sicuro, aggiunse il padre, sempre in ginocchio, lui...

- Non ce n’è più neanche una? insistetti io, sperando ancora, dalla gran sete che avevo, e soprattutto di vino bianco, bello secco, quello che ti sveglia un po’. Lo pago proprio...

- Ce n’è solo di quello molto buono. Fa cinque franchi la bottiglia... acconsentì allora la madre.

- Bene!” E ho tirato fuori dalla tasca i miei cinque franchi, una grossa moneta.

“Va’ a cercarne una!” ordinò lei dolcemente alla sorella.

La sorella prese la candela e tirò su un litro dal nascondiglio un istante dopo.

Ero servito, non mi restava che andare.

“Torneranno? ho chiesto, di nuovo inquieto.

- Forse, fecero insieme, ma allora bruceranno tutto... L’hanno promesso andandosene...

- Vado un po’ a vedere.

- Siete proprio un prode... è di là” mi faceva segno il padre, in direzione di Noirceur-sur-la-Lys...

Uscì perfino sulla strada per vedermi partire. Madre e figlia spaventate restarono vicino al cadaverino, a vegliare.

“Torna dentro! gli facevano loro da dentro. Torna dentro Joseph, cos’hai da fare in strada, te...

- Siete proprio un prode” mi disse ancora il padre e mi strinse la mano.

Ho ripreso al trotto la strada del Nord.

“Ditegli mica che siamo ancora lì, almeno” La figlia era uscita per gridarmelo.

“Lo vedranno bene, domani, ho risposto, se siete lì” Ero niente contento di avergli dato i miei cento soldi. C’erano ‘sti cento soldi tra noi. Bastano per odiare, cento soldi, e desiderare che crepino tutti. Niente amore da buttar via al mondo, finché ci saranno cento soldi.

“Domani!” ripetevano quelli, esitanti.

Domani, anche per loro, era lontano, non aveva molto senso un domani così. In fondo si trattava di vivere un’ora di più per tutti noi, e una sola ora in un mondo in cui tutto s’è ridotto ad assassinio è già un fenomeno.

Non fu più molto lunga. Trottavo d’albero in albero e mi aspettavo d’essere interrogato o fucilato da un momento all’altro. E poi niente.

Dovevano essere all’incirca le due di notte, non molto di più, quando sono arrivato sulla cima di una collina, al passo. Da lì ho scorto tutto d’un colpo di sotto file e poi ancora file di becchi a gas accesi, e poi in primo piano, una stazione tutta illuminata con i vagoni, il buffet, da cui tuttavia non saliva rumore alcuno... Niente. Strade, corsi, riverberi, e ancora altre parallele di luce, quartieri interi, e poi il resto intorno, più ancora che nero, vuoto, avido, intorno alla città, tutta distesa, offerta davanti a me, come se l’avessero perduta, la città, tutta illuminata e sparsa nel bel mezzo della notte. Ho messo piede a terra e mi son seduto su un poggetto per guardare un momento ‘sta roba.

Continuavo a non capire se i tedeschi erano entrati a Noirceur, ma poiché sapevo che in quei casi loro d’abitudine dan fuoco a tutto, se erano entrati e non avevano sùbito incendiato la città, era proprio perché avevano idee e progetti fuori dell’ordinario.

Cannoni nemmeno, era losca.

Il mio cavallo voleva sdraiarsi anche lui. Tirava per la briglia e mi son dovuto voltare. Quando sono tornato a guardare dalla parte della città, qualcosa aveva cambiato aspetto nel tumulo davanti a me, non gran che, certo, ma comunque abbastanza perché chiamassi. “Ehi là! Chi va là?...” ‘Sto cambiamento di come era messa l’ombra aveva luogo pochi passi più in là... Doveva esserci qualcuno...

“Cosa stai a gridare! ha risposto una voce d’uomo grave e rauca, una voce che aveva l’aria di essere molto francese.

- Sei nella merda anche te?” mi domanda pure. Potevo vederlo, adesso. Un fantaccino, era, con la visiera d’ordinanza tutta rotta. Dopo anni e anni, mi ricordo ancora benissimo il momento, la figuretta che esce dall’erba, come facevano le sagome dei soldati al tirassegno di una volta, alle fiere.

Ci siamo accostati. Avevo la rivoltella in mano. Avrei tirato senza sapere perché, poco ci manca.

“Senti, ecco che mi chiede, li hai visti, te?

- No, ma son venuto qui per vederli.

- Sei del 145o dragoni, te?

- Sì, e tu?

- Sono un riservista, io...

- Ah!” ho fatto. Mi stupiva, un riservista. Era il primo riservista che incontravo in guerra. Eravamo sempre stati con quelli in servizio permanente, noi. Non gli vedevo la faccia, ma la voce era già diversa dalle nostre, come più triste, dunque più qualificata delle nostre. Per quello, non potevo fare a meno di avere un po’ di fiducia in lui. Era già qualcosa.

“Ne ho basta io, ripeteva, vado a farmi cuccare dai crucchi...”

Nascondeva niente.

“Cos’è che vuoi fare?”

All’improvviso mi interessava più di tutto, il progetto, com’è che faceva, lui, per riuscire a farsi cuccare?

“So mica ancora...

- Com’è che hai sempre fatto per squagliartela?... E niente facile farsi cuccare!

- Me ne sbatto, mi faccio prendere.

- Hai paura?

- Ho paura e poi la trovo da coglioni, ‘sta faccenda, se vuoi sapere quel che penso, me ne sbatto dei tedeschi, io, mi hanno fatto niente...

- Sta’ zitto, gli faccio, che forse son lì ad ascoltarci...”

Avevo come una voglia di essere gentile con i tedeschi. Avrei proprio voluto che mi spiegasse, quello lì, fin che c’era, il riservista, perché non avevo il coraggio, io, di far la guerra, come tutti gli altri... Ma lui non spiegava niente, ripeteva soltanto che ne aveva le palle piene.

Mi raccontò del fuggifuggi del suo reggimento, il giorno prima, all’alba, a causa dei nostri cacciatori a piedi, che per errore avevano aperto il fuoco sulla sua compagnia, attraverso i campi. Non se li aspettavano a quell’ora lì. Erano arrivati tre ore in anticipo sull’orario previsto. Allora i cacciatori, stanchi, sorpresi, li avevano crivellati. Conoscevo la musica, me l’avevano suonata.

“Io, pensa un po’, se non ne ho profittato! ecco che ti aggiunge. “Robinson, mi son detto! - mi chiamo Robinson!... Robinson Léon! - Adesso o mai più che te la devi battere”, che mi son detto!... Mica vero? Allora ho preso lungo un boschetto e poi lì, pensa te, ti incontro il capitano... Era appoggiato a un albero, tutto ammaccato, il capoccia!... Che se ne stava dietro a crepare... Teneva le braghe a due mani, e sputava... Gettava sangue dappertutto girando gli occhi... C’era nessuno con lui. Era fottuto secco... “Mamma! mamma!”, piangiucchiava mentre stava a crepare e a pisciar sangue a ‘sto modo...

““Basta lì! gli faccio. Mamma! Sai come se ne sbatte!”... Così, di’ un po’, di passata!... Sul muso!... Pensa il piacere che gli ha fatto, al fetente!... Eh, vecchio!... Succede mica spesso, eh, che gli puoi dire quello che pensi, al capitano... Bisogna profittare. È raro!... E per squagliarmela più in fretta, ho lasciato cadere armi e bagagli... In uno stagno di anatre che c’era lì di fianco... Figùrati che io, come mi vedi, non ci ho voglia d’ammazzar nessuno, ho mica imparato... Già non mi piacevano le storie di risse, già in tempo di pace... Me ne andavo... Allora capisci?... Da civile, ho cercato di andare in fabbrica regolarmente... Ero anche un po’ incisore, ma non mi piaceva, per il litigare, preferivo vendere giornali la sera e in un quartiere tranquillo dove mi conoscevano, intorno alla Banca di Francia... Place des Victoires se vuoi saperlo... Rue des Petits-Champs... Era il mio giro... Superavo mai la rue du Louvre e il Palais-Royal, te lo vedi... Facevo al mattino le commissioni per i commercianti... Una consegna il pomeriggio ogni tanto, m’arrangiavo insomma... Un po’ da manovale... Ma non voglio armi io!... Se i tedeschi ti vedono con le armi, eh? Sei fatto! Mentre quando sei in costume fantasia, come me adesso... Niente in mano... Niente in tasca... Capiscono che non faranno molta fatica a farti prigioniero, capisci? Sanno con chi hanno a che fare... Se potessimo arrivare nudi dai tedeschi, questo sarebbe ancora meglio... Come un cavallo! Allora non potrebbero sapere di che esercito sei!...

- È vero!”

Mi rendevo conto che l’età è qualcosa, per le idee. Rende pratici.

“È là che sono, eh?” Guardavamo fissi e facevamo insieme la stima delle nostre speranze e cercavamo il nostro futuro come nelle carte, nel gran piano luminoso che ci offriva la città silenziosa.

“Andiamo?”

Si trattava di passare la linea della ferrovia, anzitutto. Se c’erano delle sentinelle, ci avrebbero avvistati. Forse no. Bisognava vedere. Passare sopra o sotto il tunnel.

“Bisogna che ci sbrighiamo, ha aggiunto ‘sto Robinson. È di notte che bisogna farlo, il giorno, niente amici, lavorano tutti per la platea, il giorno, sai, anche in guerra è una fiera... Ti porti dietro il ronzino?”

Mi son preso il ronzino. Era prudente per filarsela più in fretta se ci avessero accolto male. Siamo arrivati al passaggio a livello, le grandi braccia rosse e bianche levate in aria. Ne avevo mai visto di sbarre con quella forma lì. Non ce n’erano di quel tipo nei dintorni di Parigi.

“Ti credi che son già entrati in città, tu?

- Sicuro! ha detto lui... Sempre avanti!...”

Adesso eravamo obbligati ad essere più prodi dei prodi per colpa del cavallo che ci camminava tranquillamente dietro, come se ci spingesse col suo rumore, non si sentiva che lui. Toc! e toc! con i ferri. Ci dava in pieno nell’eco, come se niente fosse.

‘Sto Robinson contava dunque sulla notte per farci uscire di là?... Andavamo al passo tutti e due in mezzo alla strada vuota, senza trucchi per niente, sempre al passo in cadenza, come alle esercitazioni.

Aveva ragione, Robinson, il giorno non aveva pietà, dalla terra al cielo. Così come ce ne andavamo per la via dovevamo aver l’aria proprio inoffensiva tutti e due, begli ingenui proprio, come se rientrassimo da un permesso.

“Hai sentito dire che il 1o Ussari è stato fatto tutto prigioniero?... A Lilla?... Sono entrati così, han detto, sapevano niente, eh! il colonnello davanti... Per la strada principale amico mio! Li han chiusi... Da davanti... Da dietro... Tedeschi dappertutto!... Alle finestre!... Dappertutto... Era fatta... Come topi li han fatti su!... Come topi! Te dimmi che pacchia!

- Ah! fetenti!...

- Ma di’ un po’! Ma di’ un po’!...” Non riuscivamo a farci una ragione, noialtri, di ‘sta bellissima cattura, così pulita, così definitiva... Ci perdevamo le bave. I negozi avevano tutte le persiane chiuse, le villette anche, con i loro giardinetti davanti, tutti ben tenuti. Ma dopo la Posta abbiamo visto che uno dei villini, un po’ più bianco degli altri, brillava di tutte le sue luci a tutte le finestre, al primo come all’ammezzato. Siamo andati a suonare alla porta. Il cavallo sempre dietro. Ci ha aperto un uomo tozzo e barbuto. “Sono il Sindaco di Noirceur - ecco che ti annuncia sùbito, senza che glielo avessimo chiesto - e aspetto i tedeschi!” E se ne è uscito al chiar di luna per riconoscerci, il Sindaco. Quando si è accorto che non eravamo dei tedeschi, noi, ma solo dei francesi, non è stato più così solenne, ma solo cordiale. E poi anche imbarazzato. Evidente che non ci aspettava, che gli andavamo di traverso alle decisioni che aveva dovuto prendere, alle risoluzioni belle ferme. I tedeschi dovevano entrare a Noirceur quella notte lì, lui era stato avvertito e aveva sistemato tutto con la Prefettura, il colonnello di qua, l’ambulanza di là, ecc...’ E se entravano adesso? Con noi che eravamo lì? Avrebbero fatto delle storie di sicuro! Creava delle complicazioni... Questo non l’ha detto chiaro, ma si vedeva bene quel che pensava.

Allora si è messo a parlarci dell’interesse generale, nella notte, là, nel silenzio in cui ci eravamo perduti. Solo per l’interesse generale... I beni materiali della comunità... Il patrimonio artistico di Noirceur, affidato alla sua responsabilità, sacro incarico, se ce n’era uno... La chiesa del XV secolo in particolare... E se bruciavano la chiesa del XV secolo? Come quella di Condé-sur-Yser! Eh?... Per un semplice cattivo umore... Per la rabbia di trovarci lì... Ci fece toccare tutte le responsabilità cui andavamo incontro... Reclute incoscienti che eravamo!... I tedeschi non amano le città losche dove si aggirano militari nemici. Lo sanno tutti.

Mentre lui ci parlava così a mezza voce, sua moglie e le figlie, due bionde cicciotte e appetitose, approvavano decise, una parola qua e là... Ci respingevano, insomma. Tra di noi, ondeggiavano i valori sentimentali e archeologici, improvvisamente assai vivi, dal momento che nella notte di Noirceur non c’era più nessuno che poteva contestarli... Patriottici, morali, sospinti dalle parole, fantasmi che lui cercava di afferrare, il Sindaco, ma che si dissolvevano sùbito vinti dalla nostra paura e dal nostro proprio egoismo e anche dalla verità pura e semplice.

Si dannava in sforzi commoventi, il Sindaco di Noirceur, ardente nel persuaderci che il nostro Dovere era proprio svignarcela sùbito e andare a tutti i diavoli, meno brutale certo ma nel suo genere deciso come il nostro comandante Pinçon.

Di sicuro, non c’era che da opporre recisamente a tutti ‘sti potenti il nostro piccolo desiderio di tutti e due, non morire e non bruciare. Era poco, tanto più che certe cose non si possono dichiarare durante una guerra. Ce ne siamo ritornati in altre strade vuote. Davvero tutti quelli che avevo incontrato quella notte mi avevano rivelato la loro anima.

“Proprio una fortuna! osservò Robinson mentre ce ne andavamo. Vedi te, se solo fossi stato un tedesco, te, bravo ragazzo come che sei, mi avresti fatto prigioniero e sarebbe stata una gran buona cosa da fare. È così dura sbarazzarsi di se stessi in guerra!

- E tu, gli ho fatto io, se tu fossi stato un tedesco, mi avresti mica fatto prigioniero anche tu? Magari avresti avuto la loro medaglia militare! Si deve chiamare con una strana parola tedesca la loro medaglia militare, eh?”

Poiché si continuava a non trovare nessuno sul nostro cammino che ci volesse come prigionieri, abbiamo finito per andarci a sedere sulla panca di una piazzetta e ci siamo mangiati la scatola di tonno che Robinson Léon portava a passeggio e riscaldava dal mattino. Molto lontano, si sentiva il cannone adesso, ma davvero molto lontano. Se avessero potuto starsene ciascuno dalla sua parte, i nemici, e lasciarci là tranquilli!

Dopo di che, abbiamo preso per un viale; e lungo le chiatte mezzo scaricate, nell’acqua, a lunghi getti, abbiamo orinato. Portavamo sempre il cavallo per la briglia, dietro di noi, come un grosso cane, ma vicino al ponte, nella casa del Pastore, a una sola stanza, su un materasso, c’era steso ancora un morto, tutto solo, un francese, comandante dei cacciatori a cavallo che assomigliava proprio un po’ al Robinson, come testa.

“Dimmi te quant’è brutto! mi fece notare Robinson. Mi piaccion mica a me i morti...

- La cosa curiosa, gli risposi io, è che ti assomiglia un po’. Ha un naso lungo come il tuo e tu sei mica molto più giovane di lui...

- Quel che vedi, è per la stanchezza, per forza che ci rassomiglia un po’ tutti, ma mi avessi visto prima... Quando facevo bicicletta tutte le domeniche!... Ero bel ragazzo! Ci avevo dei polpacci, caro te! Sport, sai! E ‘sta roba ti sviluppa anche le cosce...”

Siamo usciti fuori, il fiammifero che avevamo acceso per guardare s’era spento.

“Guarda, è troppo tardi, guarda!...”

Una lunga riga grigia e verde sottolineava già di lontano il filo del poggio, al limite della città, nella notte; il Giorno! Uno in più! Uno in meno! Bisognava cercare di passarci attraverso a quello come attraverso gli altri, diventati delle specie di cerchi sempre più stretti, i giorni, e tutti pieni di traiettorie e scoppi di mitraglia.

“Te ne torni di qui, te, di’, la notte prossima?” mi domandò mentre se ne andava.

- Non c’è nessuna notte prossima, vecchio mio!... Ti credi dunque un generale!

- Penso più a niente, io, ha fatto lui, per finirla... A niente, capisci!... Penso più che a crepare... Basta così... Mi dico che un giorno guadagnato, è sempre un giorno in più!

- Hai ragione... Arrivederci, vecchio, e buona fortuna!...

- Buona fortuna anche a te! Chissà che ci rivediamo!”

Siam tornati ciascuno nella sua guerra. E poi ne sono capitate di cose e cose, che non è facile raccontare adesso, perché quelli di oggi non le capirebbero già più. -

 

Viaggio al termine della notte
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