CRONACA DELLE EMOZIONI
“… Ci siamo andati allegramente, ci siamo andati scherzando…”
“Il cognome che ho dichiarato non è il mio, è quello di mia nonna. Ho paura… naturalmente… Tutti si aspettano degli eroi, ma io non sono un’eroina. Non ero pronta a quello che è successo. In prigione pensavo solo alla mamma, al fatto che è malata di cuore. Che cosa le sarebbe successo? Magari avremmo potuto vincere e finire nei libri di storia… Ma le lacrime dei nostri cari? Le loro sofferenze? Le idee hanno una forza terribile, è una forza immateriale, non la si può misurare. Non si tratta di peso, è una materia diversa… Qualcosa diventa più importante di tua madre. Devi scegliere. E non sei pronta… Adesso so che cosa vuol dire entrare nella tua camera dopo che gli agenti del KGB hanno frugato tra le tue cose, tra i tuoi libri… dopo che hanno letto il tuo diario… (Resta in silenzio.) Mentre mi preparavo a incontrarla, oggi, mi ha chiamato mia madre; le ho detto che dovevo vedere una scrittrice famosa e lei si è messa a piangere: ‘Non parlare. Non raccontare niente.’ Molte persone sconosciute mi sostengono, ma i miei cari, i miei famigliari no. Eppure mi amano…
Prima del meeting… Ci siamo riuniti la sera nel nostro pensionato e abbiamo parlato. Della vita, e anche di chi sarebbe andato al meeting e di chi non ci sarebbe andato… Vuole che le racconti cosa è venuto fuori? Più o meno questo…”
“Ci vai?”
“No, non ci vado. Possono espellerti dall’istituto e spedirti sotto le armi. Non voglio correre con un mitra in mano.”
“Se mi cacciano, mio padre mi obbligherà subito a sposarmi.”
“Basta parole, è ora di fare qualcosa. Se tutti hanno paura…”
“Vuoi che diventi una specie di Che Guevara? (è il mio ex boy-friend a dirlo, poi parlerò anche di lui).”
“Una boccata di libertà…”
“Ci vado perché sono stufo di vivere sotto la dittatura. Ci trattano come una mandria senza cervello.”
“Non sono un eroe. Voglio studiare, leggere i miei libri.”
“Una definizione di sovok: cattivo come un cane e muto come un pesce.”
“Sono una rotellina insignificante dell’ingranaggio, non conto niente. Non vado nemmeno a votare.”
“Sono un rivoluzionario… ci vado… La rivoluzione è uno sballo!”
“Quali sono i tuoi ideali rivoluzionari? È il capitalismo il nuovo sole dell’avvenire? Viva la rivoluzione latino-americana!”
“A sedici anni condannavo i miei genitori che avevano sempre paura di qualcosa perché mio padre doveva pensare alla propria carriera. Pensavo che fossero degli stupidi, mentre noi eravamo diversi. Saremmo scesi in strada! Avremmo parlato! Adesso sono come loro, un conformista. Un vero conformista. Secondo la teoria di Darwin a sopravvivere non sono i più forti, ma i più capaci di adattarsi all’ambiente in cui vivono. Sono i mediocri che sopravvivono e continuano la razza.”
“Andarci è da idioti, ma non andarci è ancora peggio.”
“Ma chi vi ha detto, stupidi caproni, che la rivoluzione è il progresso? Io sono per l’evoluzione.”
“Per me rossi o bianchi… non me ne frega niente!”
“Sono un rivoluzionario…”
“Non servirà a niente! Arriveranno le camionette con a bordo i ragazzi dalla testa rasata e ti prenderai qualche manganellata in testa, tutto qui! Il potere deve avere il pugno di ferro.”
“Che vada a farsi fottere, il compagno Mauser. Non ho promesso a nessuno di essere un rivoluzionario. Voglio finire l’istituto e cominciare il mio business.”
“Ti è scoppiato il cervello!”
“La paura è una malattia.”
“Ci siamo andati allegramente, ci siamo andati scherzando. Molti ridevano, cantavano canzoni. Eravamo tutti molto fieri l’uno dell’altro. L’umore era decisamente alto. Qualcuno portava un cartello, qualcun altro una chitarra. Gli amici ci chiamavano sui cellulari e ci dicevano quello che scrivevano in internet. Eravamo informati… Così abbiamo saputo che tutti i cortili del centro erano pieni di mezzi militari con soldati e milizia. L’esercito si era concentrato appena fuori città… Un po’ ci credevamo e un po’ no, il nostro stato d’animo era altalenante, ma non avevamo nessuna paura. La paura all’improvviso era scomparsa. Innanzitutto c’era tanta di quella gente! Decine di migliaia! Gente di tutti i tipi. Non eravamo mai stati così in tanti. Non ricordo di aver mai visto così tanta gente… E in secondo luogo, eravamo a casa nostra. In fin dei conti, è la nostra città. Il nostro paese. I nostri diritti sono sanciti dalla nostra Costituzione: libertà di riunione, di partecipare a manifestazioni, dimostrazioni, marce… Libertà di parola… Ci sono delle leggi! La prima generazione non vittima della paura. Non picchiata. Non fucilata. E se ci mettono dentro per quindici giorni? E che sarà mai? Avrai qualcosa da scrivere sul tuo blog. Ma il potere non deve pensare che siamo una specie di gregge che segue ciecamente il pastore! Che al posto del cervello abbiamo un televisore… Per ogni evenienza avevo preso con me una tazza perché sapevo che in cella c’è solo una tazza ogni dieci persone. E nello zaino avevo messo anche un maglione caldo e due mele. Camminavamo e ci fotografavamo l’un l’altro per ricordare quel giorno. C’erano in giro delle maschere natalizie, quelle con le buffe orecchie da coniglio che si illuminano… Vengono dalla Cina. Mancavano pochi giorni a Natale… Cadeva la neve… Era così bello! Di ubriachi non ne ho visto nemmeno uno. Se qualcuno aveva una lattina di birra, subito gliela prendevano e la svuotavano. Abbiamo visto un uomo sul tetto di una casa: ‘Un cecchino! Un cecchino!’ Tutti allegri, lo abbiamo salutato: ‘Vieni con noi! Salta giù!’ Era tutto così divertente… Prima avevo sempre considerato la politica con una certa apatia, non avrei mai pensato che potesse suscitare delle emozioni e che io potessi provarle. Soltanto ascoltando la musica avevo sperimentato qualcosa del genere. La musica per me è tutto, è qualcosa di insostituibile. Era terribilmente interessante. Vicino a me c’era una donna… Perché non le ho chiesto come si chiamava? Avrebbe potuto scrivere di lei. Ero occupata da altre cose: intorno era tutto così allegro, così nuovo per me. Quella donna camminava con suo figlio, un ragazzo che dimostrava più o meno dodici anni. Un bambino. Un colonnello della milizia l’ha vista e ha cominciato a insultarla al megafono, gridandole che non era una buona madre. Che era una pazza. E tutti si sono messi ad applaudire lei e suo figlio. In modo spontaneo, non c’era stato nessun passaparola. È così importante… è importante sapere queste cose… perché ci vergogniamo sempre. In Ucraina c’è stata Majdan, in Georgia la rivoluzione delle rose… E noi per tutti siamo quasi patetici: Minsk, la capitale del comunismo, l’ultima dittatura d’Europa. Adesso provo una sensazione diversa: siamo scesi nelle strade. Non abbiamo avuto paura. È importante, è la cosa più importante…
E adesso siamo qui: noi e loro. Un popolo da una parte e uno dall’altra. Fa una strana impressione… Da una parte ritratti e cartelli, dall’altra scudi e manganelli. E ragazzi robusti. Davvero belli. È possibile che comincino a picchiarci? A picchiarmi? Hanno la mia età, tra loro potrebbero esserci dei miei amici, magari dei miei corteggiatori. Di sicuro ci sono dei ragazzi del mio paese, saranno sicuramente qui. Da noi in molti sono venuti a Minsk per entrare nell’esercito: Kol’ka Latuška, Alik Kaznačeev… Ragazzi a posto. Ragazzi come noi, solo con le spalline. E adesso ci attaccheranno? Non posso crederci, non è possibile… Abbiamo riso insieme, qualche volta abbiamo anche flirtato. Cerchiamo di fare un po’ di propaganda: ‘Davvero, ragazzi, volete attaccare il vostro popolo?’ Continua a nevicare. E a un certo punto… come si sente nelle parate… si è sentito un ordine militare: ‘Disperdete la folla! Mantenete le righe!’ Il cervello non è riuscito a registrare subito che era vero… perché non era possibile… ‘Disperdete la folla…’ C’è stato un attimo di silenzio. E subito il rombo degli scudi, un rombo ritmato… Avanzavano… avanzavano in riga, battendo con i manganelli sugli scudi, come fanno i cacciatori quando inseguono la preda. La selvaggina. Continuavano ad avanzare. Non avevo mai visto una tale quantità di soldati, solo alla televisione. Poi l’ho saputo dai ragazzi del mio paese, come li istruiscono: ‘L’errore che non dovete mai fare è vedere nei dimostranti delle persone.’ Li addestrano come cani. (Tace.) Urla… pianti… grida: ‘Picchiano! Picchiano!’ E li ho visti anch’io, picchiavano davvero. Sa, lo facevano con gusto… Con piacere. Mi è rimasto impresso: picchiavano con piacere… come se fosse un’esercitazione… La voce di una ragazza: ‘Cosa fai, bastardo!’ Un grido acutissimo che si è subito interrotto. Mi ha fatto così paura che per un istante ho chiuso gli occhi. Ho una giacca bianca, un berretto bianco. Sono lì, tutta vestita di bianco.”
“Faccia nella neve, puttana!”
“Un cellulare della milizia… un veicolo mitico. L’ho visto lì per la prima volta. È un furgone speciale per il trasporto degli arrestati. Tutto rivestito di acciaio. ‘Faccia nella neve, puttana! Un movimento e sei morta!’ Sono sdraiata sull’asfalto… Non sono l’unica a essere sdraiata qui, ci sono tutti i nostri… ho la testa vuota… nessun pensiero. Unica sensazione reale: il freddo. A calci e manganellate ci fanno alzare e ci spingono nel cellulare. I più colpiti sono i ragazzi, mirano al perineo… ‘Picchialo sui coglioni, sui coglioni!’ ‘Rompigli le ossa!’ ‘Falli neri!’ Ti pestano e intanto fanno anche della filosofia: ‘La vostra fottuta rivoluzione è finita!’ ‘Per quanti dollari hai venduto la tua Patria, stronzo?’ Il cellulare – due metri per cinque – è progettato per contenere venti persone, come mi hanno spiegato in seguito, ma lì ci hanno spinti dentro in più di cinquanta. Forza, asmatici e malati di cuore! ‘Non guardate dal finestrino! Giù la testa!’ Insulti di ogni tipo… Per colpa nostra, ‘idioti e dementi venduti agli americani’ oggi non sono riusciti a vedere la partita di calcio. Sono stati tutto il giorno chiusi nelle camionette. Sotto la tela cerata. Costretti a pisciare nei sacchetti di plastica o nei preservativi. Quando sono saltati fuori erano affamati e incattiviti. Può darsi che non siano nemmeno persone cattive, ma oggi fanno la parte del carnefice. Ragazzi in apparenza normali. Piccoli ingranaggi di un sistema… Pestare o non pestare non dipende da loro, ma poi sono loro che picchiano… Prima ti pestano, e poi pensano, o magari non pensano nemmeno. (Tace.) Viaggiamo a lungo, prima avanti, poi torniamo indietro. Dove andiamo? Mistero assoluto. Quando hanno aperto le porte, qualcuno gliel’ha chiesto e la risposta è stata: ‘A Kuropaty’ (dove ci sono le fosse comuni delle vittime delle repressioni staliniane). Ne fanno, di questi giochetti sadici. Ci hanno portato in giro per la città perché tutte le prigioni erano strapiene. Abbiamo passato la notte in quel cellulare. Fuori c’erano venti gradi sotto zero e noi eravamo in quella scatola di metallo. (Tace.) Dovrei odiarli. Ma non voglio odiare nessuno. Non sono pronta a farlo.
Durante la notte i soldati di guardia sono cambiati più volte. Non ricordo i loro visi, in uniforme sono tutti uguali. Ma uno… Lo riconoscerei anche adesso se lo incontrassi per la strada, lo riconoscerei dagli occhi. Né giovane, né vecchio, un tipo come tanti, senza niente di particolare. Cosa faceva? Spalancava le porte del furgone e le teneva aperte a lungo, gli piaceva vederci tremare dal freddo. Avevamo tutti delle giacchettine misere, stivali da quattro soldi, pellicce sintetiche. Ci guardava e sorrideva. Non glielo aveva ordinato nessuno, lo faceva di sua iniziativa. Mentre un altro soldato mi ha passato uno Snickers: ‘Tieni. Ma perché sei finita in quella piazza?’ Dicono che per capire bisogna leggere Solženicyn. Quando ero a scuola ho preso in biblioteca Arcipelago Gulag, ma allora non mi è piaciuto. Un libro lungo e noioso. Ne ho lette cinquanta pagine e l’ho lasciato lì… Parlava di cose di tanto tempo fa, come la guerra di Troia. Stalin mi sembrava un argomento esaurito. A me e ai miei amici non interessava granché…
La prima cosa che ti succede in prigione… Rovesciano su un tavolo tutto quello che c’è nella tua borsa. Che cosa provi? È come si ti denudassero… E ti denudano anche in senso letterale: ‘Togliere la biancheria intima. Divaricare le gambe fino alla larghezza delle spalle. Accosciarsi.’ Cosa pensavano di trovare nel mio ano? Ci trattavano come dei detenuti. ‘Faccia al muro! Testa bassa!’ Continuavano a ordinarci di guardare per terra. Non potevano sopportare che li guardassimo negli occhi: ‘Faccia al muro! Ho detto faccia al muro!’ E sempre in riga… Anche in bagno ci hanno portati in fila: ‘Ordinarsi in colonna uno dietro l’altro.’ Per sopportare tutto questo, ho eretto una barriera: di qua – noi, di là – loro. L’interrogatorio, il giudice istruttore, le deposizioni… All’interrogatorio: ‘Devi scrivere: «Riconosco pienamente la mia colpa.» «Quale colpa?» «Non far finta di non capire! Hai partecipato a disordini di massa…» «Era un’azione di protesta pacifica.»’ Comincia la pressione: ti espelleranno dall’istituto, licenzieranno tua madre dalla scuola. Come può fare l’insegnante, se ha una figlia come te? La mamma! Ho pensato a lei tutto il tempo… Loro l’hanno capito e ogni volta hanno iniziato l’interrogatorio dicendomi che la mamma piangeva o che era all’ospedale… E ancora: ‘Fai i nomi… Chi c’era con te? Chi dava i volantini? Firma… Parla…’ Mi promettevano che nessuno lo avrebbe saputo e che mi avrebbero mandata subito a casa. A me la scelta. ‘Non firmo niente.’ Di notte però piangevo. La mamma era all’ospedale… (Resta in silenzio.) È facile tradire per amore della mamma… Non so se avrei resistito per un altro mese. Mi prendevano in giro: ‘Allora, Zoja Kosmodem’janskaja?’ Ragazzi giovani, allegri. (Tace.) È questo che mi spaventa… andiamo negli stessi negozi, ci sediamo negli stessi caffè, prendiamo la stessa metropolitana. Siamo insieme dappertutto. Nella vita normale non c’è una frontiera netta tra ‘noi’ e ‘loro’. Come facciamo a riconoscerli? (Resta ancora in silenzio.) Prima vivevo in un mondo buono, adesso quel mondo non c’è più e non ci sarà mai più.
Un mese intero in cella… Per tutto questo tempo non mi sono mai vista allo specchio. Ne avevo uno da borsetta, ma dopo l’ispezione era sparito. Era scomparso anche il borsellino con i soldi. Avevo sempre voglia di bere. Una sete terribile. Ci davano da bere solo durante i pasti, e per il resto: ‘Bevete dal cesso.’ Ridevano. Loro bevevano della Fanta. Mi sembrava che non sarei mai più riuscita a dissetarmi, avevo deciso che appena libera avrei riempito il frigorifero di acqua minerale. Puzzavamo tutti… non c’era modo di lavarsi… Qualcuno aveva una boccetta di profumo, ce la passavamo e la annusavamo un po’ a turno. E da qualche parte, là fuori, i nostri amici scrivevano appunti, studiavano in biblioteca, superavano gli esami. Mi venivano in mente un sacco di sciocchezze… Il vestito nuovo, che non avevo ancora messo nemmeno una volta… (Si mette a ridere.) Ho scoperto la gioia che possono dare le cose più piccole, come un po’ di zucchero e un pezzetto di sapone. In una cella per cinque persone, di trentadue metri quadri, eravamo in diciassette. Bisognava imparare a vivere in due metri quadri. La notte era il momento più brutto, non si riusciva a respirare. Non dormivamo molto. Parlavamo. I primi giorni di politica, poi soltanto d’amore.”
“… Non posso pensare che lo facciano volontariamente…” (conversazioni in cella)
“… È sempre la stessa storia… Che si ripete ciclicamente. Il popolo è un gregge. Un gregge di antilopi. E il potere è la leonessa. La leonessa sceglie nel gregge la sua vittima e la uccide. Le altre continuano a brucare l’erba e guardano con la coda dell’occhio cosa fa la leonessa. Quando quella sceglie la nuova vittima da divorare, sospirano tutte sollevate: ‘Non è toccata a me! Anche questa volta non è toccata a me! Si può continuare a vivere!’”
“… Mi piaceva la rivoluzione, al museo… Ho una visione romantica della vita. Giocavo alle fiabe. Nessuno mi ha invitato al meeting, ci sono venuta da sola. Mi interessava vedere come avviene una rivoluzione. Mi sono presa le manganellate in testa e nelle reni per questo. In piazza sono scesi i giovani, è stata la ‘rivoluzione dei figli’. L’hanno chiamata così, è così che dicono adesso. Mentre i genitori sono rimasti a casa. Sono rimasti in cucina a parlare di noi. A preoccuparsi. Loro avevano paura, noi invece non avevamo ricordi sovietici. I comunisti li avevamo incontrati solo nei libri, non avevamo paura. A Minsk vivono due milioni di persone, in quanti siamo scesi in piazza? Trentamila… Quelli che ci guardavano dalle finestre erano molti di più: ci seguivano dai loro balconi, ci suonavano dalle macchine, ci incoraggiavano: forza, ragazzi! Forza! E quelli che se ne stavano davanti al televisore con la loro lattina di birra erano ancora di più. Tutto qui… Finché in piazza ci siamo solo noi, romantici intellettuali, non è la rivoluzione.”
“… Pensate che tutto si regga sulla paura? Sulla milizia e il manganello? Vi sbagliate. Il carnefice e la vittima possono trovare un accordo. È un’eredità dei tempi del comunismo. Esiste un consenso silenzioso. Un patto. Un grande accordo. La gente capisce tutto, ma sta zitta. In cambio vuole ricevere uno stipendio decente, avere la possibilità di comperarsi una Audi, sia pure di seconda mano, andare in vacanza in Turchia. Prova a parlare con loro di democrazia, di diritti umani… È cinese, per loro! Quelli che hanno vissuto l’epoca sovietica, attaccano subito con i ricordi: ‘I nostri figli pensavano che le banane crescessero a Mosca, e guarda oggi… ci sono cento tipi di salame! A cosa ci serve la libertà?’ Molti tornerebbero volentieri all’Unione Sovietica, ma senza rinunciare ai salami.”
“…Ci sono capitata per caso… Mi sono ritrovata in piazza per accompagnare i miei amici, volevamo passeggiare un po’ tra cartelli e palloncini. A dire la verità… c’era un ragazzo che mi piaceva. In realtà sono uno spettatore senza particolari opinioni. La politica non mi interessa più. E di questa lotta tra il bene e il male ne ho piene le scatole…”
“… Ci hanno spinti in una baracca. Siamo stati in piedi tutta la notte con la faccia la muro. Al mattino: ‘In ginocchio!’ Ci siamo inginocchiati. ‘In piedi! Mani in alto!’ Prima le mani sopra la testa, poi cento flessioni sulle ginocchia. Poi in piedi su una gamba sola… Perché l’hanno fatto? A che scopo? Gliel’abbiamo chiesto, ma non ci hanno risposto. Li hanno autorizzati… Si sono sentiti potenti… Qualche ragazza aveva la nausea, qualcuna è svenuta. La prima volta che mi hanno interrogata ho riso in faccia al giudice istruttore, finché non mi ha detto: ‘Adesso, bambina, ti scopo bene in tutti i buchi e poi ti metto in una cella di delinquenti comuni.’ Non ho letto Solženicyn, e nemmeno l’inquirente, credo. Ma sapevamo tutto lo stesso…”
“… Il mio giudice istruttore era un uomo colto, aveva frequentato la stessa università che ho frequentato io. Abbiamo scoperto di amare gli stessi libri: Akunin,1 Umberto Eco… ‘Ma da dove sei saltata fuori? Io mi occupo di casi di corruzione e mi piace moltissimo! Con loro è tutto semplice. Mentre con voi…’ Questa cosa la fa malvolentieri, si vergogna, ma la fa. E ce ne sono centinaia, come lui: funzionari, inquirenti, giudici. C’è chi mena le mani, chi scrive falsità sui giornali, chi si occupa degli arresti, chi emette le condanne. Ci vuole così poco per rimettere in moto la macchina staliniana.”
“… Nella nostra famiglia conserviamo un vecchio quaderno comune. Il nonno ci ha scritto la storia della sua vita per i figli e i nipoti. Ha raccontato quello che ha sofferto ai tempi di Stalin. Era stato arrestato e torturato. Gli mettevano la maschera antigas e chiudevano l’ossigeno. Oppure lo spogliavano e gli piantavano nell’ano una sbarra di ferro o la maniglia di una porta… Facevo la decima classe quando la mamma mi ha dato quel quaderno: ‘Adesso sei grande, devi sapere queste cose.’ Ma io non avevo capito perché fosse necessario…”
“… Se torneranno i lager, non si farà fatica a trovare dei nuovi guardiani. Sai quanti se ne troveranno! C’è un momento che ricordo molto bene… Lo guardo negli occhi: è un ragazzo normale, ma ha la schiuma alla bocca. Si muovevano come in sogno, o in trance. Picchiavano con tutta la forza che avevano. Un uomo è caduto, l’hanno coperto con uno scudo e ci hanno ballato sopra. Armadi alti due metri… Del peso di ottanta o cento chili ciascuno, li nutrono finché non raggiungono la stazza giusta… Gli OMON e gli agenti dei servizi speciali sono una razza a parte… come gli opričniki2 di Ivan il Terribile… Non posso pensare che lo facciano volontariamente, mi rifiuto assolutamente di pensarlo. Assolutamente… Devono mangiare anche loro. Quel ragazzo… Ha visto solo la scuola e l’esercito, ma prende più di un docente universitario. Poi… andrà come sempre… senza dubbio… Diranno che hanno eseguito gli ordini, che non sapevano niente, che loro non c’entrano niente. Già oggi trovano migliaia di giustificazioni: ‘E chi manterrà la mia famiglia?’, ‘Ho prestato giuramento’, ‘Non avrei potuto abbandonare la fila nemmeno se avessi voluto.’ È un’operazione che si può fare con tutti. O almeno, con molti…”
“… Ho solo vent’anni. Come vivrò adesso? Ho l’impressione che anche quando sarò fuori, avrò paura di alzare gli occhi…”
“… Da voi c’è la rivoluzione, ma da noi c’è il potere sovietico.”
“Ci hanno liberati di notte. Giornalisti e amici aspettavano davanti al carcere, e invece ci hanno caricati sul cellulare e scaricati fuori città, tutti in punti diversi. Me, mi hanno lasciata dalle parti di Šabany. C’era un cantiere con una montagna di pietre. Ho avuto davvero paura. Sono rimasta lì frastornata per un po’ e poi ho iniziato a camminare verso delle luci che vedevo in lontananza. Non avevo soldi, il telefono era scarico già da diversi giorni. Nel borsellino avevo solo una ricevuta, avevano rilasciato a tutti una ricevuta perché potessimo pagare il nostro soggiorno in prigione. Era più o meno l’importo di un mese della mia borsa di studio… Davvero non so… Io e la mamma ce la facciamo a malapena a tirare avanti. Mio padre è morto quando ero in sesta, avevo dodici anni. Il mio patrigno lo stipendio se lo beve alla grande. È un alcolizzato. Lo odio, ha rovinato la vita, a me e alla mamma. Io cerco in tutti i modi di guadagnare qualcosa: metto i volantini pubblicitari nelle caselle, d’estate vado a vendere la frutta o i gelati. Camminavo pensando a tutte queste cose… Ogni tanto incontravo dei cani… persone non se ne vedevano… Quando un taxi di passaggio si è fermato vicino a me, mi sono sentita davvero felice. Gli ho dato l’indirizzo del pensionato dove vivo, ma ho aggiunto: ‘Non ho soldi.’ Il taxista non so perché ha subito indovinato: ‘A-ah, una «decabrista» (ci hanno arrestati in dicembre). Sali. Ne ho già raccolta e portata a casa un’altra. Ma perché vi hanno rilasciato di notte?’ Durante il tragitto mi ha fatto un po’ di predica: ‘Sono sciocchezze queste! Tutte sciocchezze! Nel Novantuno studiavo a Mosca e andavo anch’io alle manifestazioni. Eravamo molti più di voi. Abbiamo vinto. Pensavamo che ognuno di noi avrebbe aperto la sua azienda e sarebbe diventato ricco. E com’è andata? Con i comunisti sarei stato un ingegnere, adesso faccio l’autista… Abbiamo cacciato dei bastardi e ne sono arrivati degli altri. Neri, grigi, arancioni: sono tutti uguali. Da noi il potere li rovina tutti. Io sono realista. Credo soltanto in me e nella mia famiglia. Quando gli idioti di turno fanno la loro rivoluzione, io faccio gli straordinari. Questo mese devo comperare le giacche alle mie bambine, il prossimo gli stivali a mia moglie… Sei una bella ragazza. Trovati un fidanzato e sposati, è meglio.’ Siamo arrivati in città. Musica. Risate. Coppiette abbracciate. La città continuava la sua vita come se noi non fossimo mai esistiti.
Desideravo molto parlare con il mio ragazzo di quello che era successo. Non vedevo l’ora di incontrarlo. Eravamo insieme già da tre anni. Avevamo cominciato a fare progetti per il futuro. (Tace.) Mi aveva promesso che avrebbe partecipato al meeting, ma non era venuto. Mi aspettavo delle spiegazioni. Ed eccolo, era arrivato. Era accorso. Le ragazze ci hanno lasciati in camera da soli. A quanto pareva, di spiegazioni non se ne parlava proprio! Ero io la ‘scema’, il ‘fenomeno’, la ‘rivoluzionaria ingenua’: lui mi aveva avvertita, non me lo ricordavo? Mi aveva insegnato che non è razionale preoccuparsi delle cose su cui non abbiamo potere. C’è chi sceglie di vivere per gli altri, ma non era una posizione che facesse per lui, non voleva morire sulle barricate. Non aveva quel tipo di vocazione. Il suo obiettivo era la carriera. Voleva molti soldi. Una casa con la piscina. Bisogna vivere e godersela… Oggi ci sono tante di quelle possibilità… c’è solo l’imbarazzo della scelta… Puoi andartene in giro per il mondo, magari con quelle supercrociere da sballo, ma costano care, puoi comprarti un palazzo, ma anche quello costa caro, puoi ordinare al ristorante la zuppa di tartaruga… Solo che per tutto bisogna pagare. Soldi! Soldi! Come ci diceva il nostro professore di fisica: ‘Cari studenti! Ricordatevi che i soldi risolvono tutto, anche le equazioni differenziali.’ La dura verità della vita. (Resta in silenzio.) E gli ideali? Non hanno più nessun senso, allora? Forse lei può spiegarmelo… Ha scritto dei libri… (Tace.) C’è stata un’assemblea generale e mi hanno espulso dall’istituto. Hanno votato tutti a favore, tranne il mio vecchio professore, il mio preferito. Lo hanno portato via dall’istituto in ambulanza quel giorno stesso. Le mie compagne sono venute a consolarmi in pensionato, quando non le vedeva nessuno: ‘Non prendertela, il rettore ha minacciato di cacciarci, se…’ Delle vere eroine!
Ho comprato il biglietto per tornare a casa. Quando sono a Minsk ho nostalgia del mio paese. A dire la verità non so di quale paese ho nostalgia, probabilmente di quello della mia infanzia. Del paese in cui il papà mi portava con sé quando andava a prendere dagli alveari i favi carichi di miele. Prima li affumicava, perché le api volassero via e non ci pungessero… Da piccola ero proprio buffa… pensavo che le api fossero degli uccellini… (Tace.) Non so se amo il mio paese di oggi… Vivono come hanno sempre vissuto, anno dopo anno. Zappano il loro orticello di patate, le raccolgono in ginocchio. Distillano il samogon. La sera non ne trovi uno sobrio, bevono tutti, tutti i giorni. Votano per Lukašenko e rimpiangono l’Unione Sovietica. L’invincibile esercito sovietico. In autobus vicino a me era seduto un nostro vicino. Ubriaco. Parlava di politica: ‘Quegli stronzi di democratici, gli spaccherei la faccia a tutti. Ne avete prese troppo poche… Parola d’onore, bisognava fucilarli. Non avrei avuto un attimo di esitazione. È l’America che li paga… Hillary Clinton… Ma noi siamo un popolo forte. Abbiamo superato la perestrojka, supereremo anche la rivoluzione. Uno di quelli che le cose le sa mi ha detto che questa rivoluzione l’hanno organizzata gli ebrei.’ Tutto l’autobus lo sosteneva: ‘Non è mai andata così male come adesso… Apri la televisione e vedi solo bombe e fucilate.’
Eccomi a casa. Apro la porta. La mamma è seduta in cucina e pulisce i tuberi delle dalie che in cantina col gelo sono marciti, sono molto delicati… Non sopportano il gelo. Mi metto ad aiutarla. Come quando ero bambina. ‘Cosa succede nella capitale?’ è la prima domanda della mamma. ‘In televisione hanno fatto vedere un’infinità di gente, gridavano tutti contro il governo. Dio santo! Che paura! Qui abbiamo avuto paura che scoppiasse una guerra: sai che qualcuno ha i figli nell’esercito, qualcun altro li ha a Minsk a studiare e magari erano in piazza, al meeting. Sui giornali scrivono che sono tutti dei terroristi e dei banditi. E da noi credono a quello che trovano scritto sui giornali. Da voi c’è la rivoluzione, ma da noi c’è il potere sovietico.’ In casa si spande il profumo della valeriana.
Ho appreso le novità locali… Da Jurka Šved, un imprenditore agricolo, è arrivata una macchina di notte e due in borghese l’hanno portato via, come è successo nel Trentasette al nonno. Hanno messo sottosopra tutta la casa e hanno portato via il computer. Hanno licenziato l’infermiera, Anja N.: era andata a Minsk alla manifestazione e si era anche iscritta a un partito dell’opposizione. Ha un bambino piccolo. Il marito si è preso una sbronza e l’ha picchiata: ‘Rivoluzionaria!’ Mentre le madri dei ragazzi che sono nell’esercito, si vantano dei premi che hanno ricevuto questo mese i loro figli. Dei regali con cui sono arrivati a casa. (Resta in silenzio.) Hanno diviso il nostro popolo in due… Sono andata al nostro club la sera del ballo e nessuno mi ha invitato a ballare. Perché sono una terrorista… avevano paura di me…”
“… Si può trasformare in rosso…”
Ci siamo riviste per caso un anno dopo, sul treno MoscaMinsk. Nello scompartimento dormivano tutti e abbiamo potuto parlare.
“Studio a Mosca. Vado ai meeting con i miei amici. È figo! Mi piacciono le facce delle persone che vedo in piazza. Mi ricordano le facce che avevamo noi, quando siamo scesi in piazza a Minsk. Non riconoscevo la mia città, non riconoscevo la gente. Erano persone diverse. Ho nostalgia di casa, ho molta nostalgia.
Quando sono sul treno per la Bielorussia, non riesco assolutamente a dormire. Rimango in un dormiveglia confuso… a volte credo di essere in prigione, a volte nel pensionato dell’istituto… Mi ritorna tutto in mente… Voci di uomini, voci di donne…”
“… ci hanno fatte stendere sul pavimento e ci hanno tirato su le gambe fino alla testa…”
“… mi hanno messo un foglio di carta sui reni perché non rimanessero tracce e mi hanno picchiato con una bottiglia di plastica piena d’acqua…”
“… mi mettevano in testa una maschera antigas o un sacchetto di plastica. E poi… si capisce, dopo un paio di minuti perdevo conoscenza… E a casa ha moglie e figli. E magari è anche un bravo marito. Un bravo padre…”
“… Picchiano, picchiano, picchiano… con gli stivali, con le scarpe, con gli scarponi…”
“… Pensi che gli insegnino solo a lanciarsi col paracadute o a calarsi dall’elicottero attaccati a una fune? Li addestrano sugli stessi testi che usavano ai tempi di Stalin…”
“… A scuola ci hanno detto: ‘Leggete Bunin, Tolstoj, sono i libri che ci salvano…’ Vorrei chiedere a qualcuno: perché questi libri non si trasmettono da una generazione all’altra, e invece la maniglia nell’ano e il sacchetto di plastica in testa sì?”
“… Se gli raddoppiassero lo stipendio, o glielo triplicassero… temo che si metterebbero a sparare…”
“… Nell’esercito ho capito di amare le armi. Sono figlio di docenti universitari, sono cresciuto in mezzo ai libri e vorrei possedere una pistola. Che bella cosa è una pistola! Secolo dopo secolo l’hanno adattata sempre meglio alla presa. Già stringerla è un piacere. Mi piacerebbe averne una, pulirla, ingrassarla… Amo quell’odore.”
“… Cosa pensi, ci sarà la rivoluzione?”
“… Arancione è il colore del piscio dei cani sulla neve. Ma si può anche trasformare in rosso…”
“… Andiamo avanti…”