DAL RACCONTO DELLA VICINA MARINA TICHONOVNA ISAJČIK
“Forestieri, cosa venite a cercare? Vanno e vengono, non se ne può più. Non si muore tanto per fare qualcosa, un motivo c’è sempre. La morte sa fornirti l’occasione.
Un uomo è bruciato nel suo orticello in mezzo ai cetrioli… Si è versato dell’acetone sulla testa e ha acceso un fiammifero. Io ero davanti al televisore acceso e a un tratto ho sentito gridare. Una voce di vecchio… Una voce conosciuta… sembrava quella di Saška, e poi un’altra voce, questa di un giovane. Stava passando di lì, c’è un istituto tecnico nelle vicinanze, e ha visto un uomo che stava bruciando. Be’, d’istinto si è precipitato a spegnere le fiamme. Si è anche bruciacchiato. Quando sono arrivata anch’io di corsa, Saška era giù disteso per terra, gemeva… la testa tutta gialla… Forestieri, voi non siete di qui… Perché vi interessate delle disgrazie altrui?
Anche voi siete attratti dallo spettacolo della morte. Come tutti. Ahi, ahi! Insomma… insomma… Nel nostro villaggio, dove vivevo con i genitori c’era un vecchio al quale piaceva vedere morire la gente. Le donne lo svergognavano, gli indicavano la porta della chata: ‘Fuori di qua, vecchio diavolo!’, ma lui niente. È vissuto a lungo. Magari era proprio un diavolo! Cosa c’è da guardare? Dall’altra parte? E se non c’è niente? Sei morto ed è finita, ti seppelliscono. Ma se sei vivo, anche con tutte le tue disgrazie puoi andare a spasso godendoti il venticello, e l’orticello. Ma quando lo spirito è volato fuori, l’uomo non c’è più, c’è la terra. Lo spirito è lo spirito e tutto il resto è terra. Nient’altro che terra. C’è chi muore nella culla e chi vive fino ai capelli bianchi. Le persone felici non hanno voglia di morire e neanche quelle… quelle che si sentono amate, neanche loro ne hanno voglia… Vorrebbero una dilazione. Ma ci sono poi, queste persone felici? Alla radio, ricordo di aver sentito dire che dopo la guerra saremmo stati tutti felici e anche Chruščëv l’ha promesso… che presto ci sarebbe stato il comunismo. L’ha giurato anche Gorbačëv, e come parlava bene… Sciolto. Adesso a promettere che andrà meglio è El’cin, e ha minacciato in caso contrario di andare a distendersi sulle rotaie… L’ho aspettata e aspettata una vita migliore. L’ho aspettata quand’ero bambina… e quando sono cresciuta… Adesso sono oramai vecchia… Per farla breve, mi hanno ingannata tutti, la vita è diventata ancora peggiore. Aspetta e sopporta, aspetta e pazienta… Mio marito è morto. È uscito in strada ed è caduto per terra come un sasso – gli si era fermato il cuore. Non c’è un metro che possa misurare, o una stadera che possa pesare tutto quello che abbiamo dovuto sopportare. Ma sono ancora qui e vivo. Vivo. I figli se ne sono andati: il figlio a Novosibirsk e la figlia non si è mossa da Riga, dove vive con la sua famiglia: che è come dire, ormai, all’estero. In un altro paese. Da quelle parti non parlano neanche più il russo.
Tengo una piccola icona nell’angolo e un cagnolino, per avere qualcuno con cui parlare. Nella stufa un tizzoncino così fioco che non si vede neanche al buio, ma io resisto. E co-o-ome… Meno male che Dio ci ha dato il cane e il gatto… e l’albero e gli uccellini… Ci ha dato tutto questo per rallegrarci e far sì che la vita non ci sembrasse troppo lunga. E che ci venisse a noia. C’è una cosa che non mi stanco mai di guardare ed è come imbiondisce il frumento. Ho talmente patito la fame per tutta la vita che più di ogni altra cosa mi è sempre piaciuto guardare maturare il frumento, le spighe che ondeggiano. Per me, questo è come per voi un quadro al museo… Però neanche adesso faccio i salti mortali per avere del pane bianco, trovo più buono quello nero con un po’ di sale, per berci del tè zuccherato. Aspetta-sopporta… e aspetta-pazienta… Da noi c’è un solo rimedio per tutte le sofferenze ed è la pazienza. E la vita ti passa in questo modo. E anche Saška… il nostro Porfir’ič… Ha sopportato, ha sopportato e poi ne ha avuto abbastanza. E davvero, quanto può resistere un essere umano? È il corpo a riposare sottoterra, ma all’anima sarà ancora chiesto di rispondere. (Asciuga le lacrime.) Ecco come siamo messi! Finché si è quaggiù piangiamo… e quando si va via, piangiamo lo stesso…
La gente ha ricominciato a credere in Dio, visto che non c’è altra speranza. Quando andavamo a scuola ci insegnavano invece che Lenin è Dio, e Karl Marx – è Dio anche lui… Utilizzavano le chiese per immagazzinarci il grano, e le barbabietole. Almeno fino a quando è cominciata la guerra. Quando è cominciata… Stalin ha riaperto le chiese perché si pregasse per la vittoria delle armi russe e si è rivolto al popolo: ‘Fratelli e sorelle… amici miei…’ Ma prima di allora, chi eravamo? Dei nemici del popolo… kulaki e manutengoli dei kulaki…1 Nel nostro paese tutte le famiglie un po’ solide erano state dekulakizzate, se possedevi due cavalli e due vacche eri già un kulak. Li avevano deportati in Siberia e scaricati laggiù in mezzo alla foresta, nella tajga disabitata, senza niente… Le donne soffocavano i bambini per non farli morire d’inedia. Oh, quel grande dolore… e quelle lacrime, più delle gocce d’acqua sulla terra. E adesso Stalin ci diceva: ‘Fratelli e sorelle…’ Gli abbiamo creduto. L’abbiamo perdonato. E abbiamo vinto Hitler! Era venuto tutto corazzato… blindato… E l’abbiamo sconfitto lo stesso! Ma adesso chi sono io? Noi, chi siamo? Siamo un elettorato… Io guardo la televisione e non salto un notiziario… Ora come ora siamo un elettorato. Quello che ci si aspetta da noi è che andiamo a votare come si deve e basta! Una volta non potevo andare all’ufficio elettorale perché ammalata e sono venuti loro da me, in macchina. Con una cassettina rossa. Ah, quel giorno pensano a noi… Proprio così!
Moriamo come siamo vissuti… Io adesso vado in chiesa e porto la crocetta al collo, ma la felicità non è arrivata, proprio come prima. Forse non sono capace di chiederla. E ormai è troppo tardi per le preghiere. Vorrei solo morire… E ritrovarmi nel regno dei cieli, sono stufa di questa vita. Come Saška… Che adesso è al cimitero, riposa… (Si fa il segno della croce.) L’hanno sepolto con la musica, le lacrime. Piangevano tutti. La gente piange sempre molto quel giorno. Piange e si dispiace: ‘ah se solo avessi immaginato!’, piange e compiange se stessa. Ma è il caso? Chi ci può sentire, dopo morto? Di lui restava: due stanzette in una baracca, un orto, un paio di ‘diplomi rossi’ e la medaglia ‘Vincitore dell’emulazione socialista’.2 Anch’io ho quella medaglietta nel comò. Sono stata pure stachanovista e deputata. Magari non tutti i giorni c’era da mangiare, ma di diplomi ne davano sempre. E ci fotografavano pure. In questa baracca siamo tre famiglie. All’inizio pensavamo di starci un anno o due, ma poi ci siamo rimasti tutta la vita. Trent’anni… e qui moriremo… Eravamo in una lista d’attesa per l’assegnazione di un appartamento, qualcuno da venti o trent’anni. Poi è saltato fuori Gajdar e tutto allegro ci ha detto: andate e comprate. Con quali mezzi? Coi fichi secchi? I nostri soldi si sono volatilizzati… una riforma… un’altra. Ci hanno derubato di ogni cosa! Una nazione come la nostra buttata nel gabinetto! Ogni famiglia ha due piccoli vani, una piccola rimessa e un fazzoletto di terra… Abbiamo tutti le stesse cose. E quanto abbiamo sgobbato! Da diventare ricchi! Per tutto il tempo abbiamo creduto a chi ci diceva che la vita sarebbe diventata migliore. Erano tutte menzogne! Una colossale impostura! E la vita che abbiamo fatto… meglio non ricordarla… Soffrivamo, sopportavamo, lavoravamo stringendo i denti. Quella di adesso poi non è neanche più vita, si contano solo i giorni tutti uguali.
Saška e io venivamo da uno stesso villaggio… Qui, dalle parti di Brest. Qualche volta la sera ci sedevamo sulla panca davanti a casa e tiravamo fuori i nostri ricordi. E di cos’altro potevamo parlare? Era una brava persona. Non beveva, nel senso che non era un ubriacone… no-o-o!… anche se viveva solo. E cosa vuole che faccia un uomo solo? Beve un goccio… dorme un po’… beve un altro goccio… Passeggio per la corte, cammino e mi dico: la vita terrena non è la fine di tutto. La morte apre all’anima ben altri spazi… Dove sarà lui adesso? All’ultimo momento ha pensato ai suoi vicini. Non li ha dimenticati. La baracca è vecchia, costruita subito dopo la guerra, i tronchi sono secchi e si sarebbero infiammati come una miccia. In un attimo! Sarebbe bruciato tutto fino all’erba… fino alla sabbia… Aveva scritto un biglietto ai figli: ‘Crescete bene i miei nipoti. Addio’ e l’aveva lasciato bene in vista. Poi era andato nell’orto… tra le sue verdure…
Ahi-ahi! Insomma… insomma… È arrivata l’ambulanza, l’hanno sistemato sulla barella, ma lui istintivamente voleva tirarsi su e andarci con le sue gambe. ‘Ma cosa hai combinato, Saška?’ – gli ho detto mentre lo accompagnavo alla macchina – ‘Sono stanco di vivere. Telefona a mio figlio, che venga all’ospedale.’ Riusciva ancora a parlare… La giacca era tutta carbonizzata ma la spalla che si vedeva era bianca, intatta. Aveva lasciato cinquemila rubli… Un tempo era una grossa somma! Li aveva prelevati dal libretto di risparmio e li aveva messi sul tavolo vicino al biglietto. Le economie di tutta una vita. Prima della perestrojka con quei soldi si poteva comprare un’automobile, una ‘Volga’. La più cara! Ma adesso? Bastavano per un paio di scarpe nuove e la corona. Ecco! Giaceva sulla barella e diventava nero… Diventava nero sotto i miei occhi.
Gli operatori sanitari si sono portati via anche quel ragazzo che l’aveva soccorso, tirando giù dalle corde su cui erano stese le mie lenzuola bagnate (avevo fatto il bucato) e gettandogliele addosso. Un ragazzo da fuori, uno studente, stava passando quando ha visto: un uomo che brucia! Sta seduto in mezzo all’orto, la testa bassa e brucia. Manda fumo. In silenzio! Ce l’ha poi raccontato proprio con queste parole: ‘Bruciava in silenzio.’ Stava bruciando vivo… La mattina dopo il figlio ha bussato all’uscio: ‘Papà è morto.’ L’ho rivisto nella bara… Nero… tutto nero… Aveva la testa bruciata e anche le mani… Quelle mani d’oro! Sapeva fare qualsiasi cosa. Lavori di falegnameria, di muratura. Qui ognuno ha un suo ricordo: un tavolo, delle mensole… una piccola scansia… Delle volte restava su fino a notte, se chiudo gli occhi me lo vedo davanti, in piedi nella corte, a piallare. Amava il legno. Lo riconosceva dall’odore dei trucioli. Ogni albero ha il suo odore, diceva, l’odore più deciso è quello del pino. ‘Il pino sa di buon tè, e l’acero ha un odore allegro.’ Ha lavorato fino all’ultimo giorno. Ha ragione il proverbio: un ferro tra le mani, il pane sotto i denti. Oggi con la pensione non ci vivi proprio. Anch’io mi sono trovata qualcosa per arrotondare: curo i bambini degli altri. Mi pagano quattro soldi e mi vanno in zucchero e salame cotto ‘del dottore’. Ma con la sola pensione? Se ci compri il pane e il latte, devi rinunciare alle scarpette estive. Non ci arrivi. Un tempo i vecchi se ne restavano seduti senza preoccupazioni sulla panca nella corte. A spettegolare. E invece adesso… C’è chi va in città a raccattare bottiglie vuote per farsi rimborsare i vuoti, chi se ne sta davanti alle chiese a chiedere l’elemosina… chi alle fermate degli autobus commercia in sigarette o semi di girasole. O in buoni per la vodka. Nel nostro negozio un uomo è morto calpestato nella corsia degli alcolici. Adesso la vodka vale più di quel… come si chiama… di quel loro dollaro americano. Con la vodka da noi si può comprare qualsiasi cosa. Perfino far venire in casa un idraulico o un elettricista. Senza vodka, non c’è verso che si scomodi. Insomma… insomma… La mia vita è andata. C’è una cosa che non è comunque in vendita, ed è il tempo che hai da vivere. Piangi o non piangi tutte le lacrime che hai, ma Dio non t’aggiungerà un’ora. Funziona così.
Saška invece non ne poteva proprio più di vivere. Si rifiutava. Ha restituito il suo biglietto a Dio…3 Ahi, Di-i-io mi-i-io! Adesso c’è un andirivieni di quelli della milizia. Chiedono questo e quello… (Tende l’orecchio.) E-e-ecco… Lo sente il fischio del treno?… È il Brest-Mosca. Posso fare a meno dell’orologio. Mi alzo quando il treno di Varsavia si annuncia col suo grido, alle sei, e poi è la volta di quello da Minsk, e il primo da Mosca… A seconda se è mattina o notte, hanno voci diverse. Qualche volta sto ad ascoltarle l’intera notte. Con la vecchiaia il sonno se ne vola via… Con chi parlerò adesso… Tutta sola sulla panchina davanti a casa?… Io ho cercato di rincuorarlo: ‘Trovati una buona donna, Saška, e sposala.’ – ‘La mia piccola Liza tornerà. Io l’aspetto.’ Non l’avevo più vista la sua Lizka da quando l’aveva piantato in asso sette anni prima. Si era messa con un ufficiale o qualcosa del genere. Era giovane… molto più giovane di lui. Lui l’amava molto. E adesso lei picchiava la testa contro la bara: ‘Saška, sono stata io a spezzarti la vita.’ Ahi-ahi! Insomma… L’amore non è un pelo superfluo, che te lo strappi e via. E non è neanche una cosa che solo a benedirla riesce sempre a legare due persone per la vita. E cosa c’è da piangere? dico io. Chi ti può sentire da sotto terra?… (Tace.) Ah, Signore! Fino ai quarant’anni si può fare tutto, e anche peccare. Ma dopo i quaranta bisogna pentirsi. E allora Dio ci perdona.
(Ride.) Ma scrivi proprio tutto? Va bene, scrivi-scrivi. Te ne posso raccontare di cose… Solo di guai, a gerle… (Ha alzato gli occhi al cielo.) E-e-ecco… Ci sono le rondini… Caldo in arrivo. A dire il vero, un giorno è venuto a trovarmi un giornalista… Mi ha fatto un sacco di domande sulla guerra… Purché non ce ne sia un’altra, sono pronta a dar via le mie ultime cose. Non c’è niente di più spaventoso della guerra! Eravamo lì immobili, sotto la minaccia delle mitragliatrici tedesche spianate, a guardare le nostre case bruciare crepitando. E anche gli orti. Ahi! Ahi! Con Saška ricordavamo tutti i giorni il tempo di guerra… Suo padre era sparito senza traccia, e il fratello era morto nei partigiani… A Brest avevano ammassato i prigionieri sovietici – una moltitudine! Li spingevano lungo le strade come bestiame, li chiudevano nei recinti e quelli che morivano venivano lasciati per terra come immondizia. Poi per tutta un’estate, Saška aveva cercato suo padre laggiù. Lo accompagnava la madre… Quando si metteva a raccontare, non riusciva più a fermarsi. Cercavano tra i morti, cercavano tra i vivi. Nessuno temeva più la morte, era diventata per tutti una presenza familiare. Prima della guerra cantavamo: ‘Dalla tajga ai britannici mari / l’Armata Rossa non conosce eguali…’ E con quale fierezza cantavamo! Con la primavera, quando il ghiaccio si è sciolto e ha cominciato a smuoversi… Tutto il fiume dietro al paese si è riempito di cadaveri, nudi, anneriti, solo le fibbie delle cinture brillavano. E sulle cinture le stellette rosse. Non c’è mare senz’acqua e non c’è guerra senza un mare di sangue. Dio dà la vita, ma in guerra chiunque può prendersela… (Piange.) Vado avanti e indietro per la corte senza qualcosa da fare e a un tratto ho l’impressione che Saška sia alle mie spalle. E di sentirne addirittura la voce. Mi volto e non c’è nessuno. Insomma… insomma… Cos’hai combinato, Saška?! Perché scegliere un tale supplizio! Hai pensato che a bruciare sulla terra, poi la scampavi nell’aldilà, in cielo? Hai già sofferto abbastanza quaggiù. Le nostre lacrime verranno pur prese in considerazione… Chissà come lo accoglieranno dall’altra parte? Gli storpi si trascinano per terra, i paralitici giacciono nel loro letto, i muti si guardano attorno. Non tocca a noi decidere… non a nostro arbitrio… (Si fa il segno della croce.)
Campassi cent’anni non dimenticherò mai la guerra… I tedeschi sono entrati in paese… Giovani, allegri. E che baccano! Sono arrivati con degli autocarri imponenti e certe motociclette a tre ruote che non avevo mai visto. Be’, allora non ne avevo viste neanche a due ruote… Al nostro kolchoz gli autocarri erano bassetti con delle sponde di legno e la portata di 15 quintali. Ma questi! Grandi come case. Ho visto da vicino anche i loro cavalli, non erano cavalli, erano montagne! Sulla facciata della scuola hanno scritto con la vernice: ‘l’armata rossa vi ha abbandonato!’ E hanno instaurato l’ordine tedesco… Nel nostro paese vivevano molti ebrei: Avram, Yankel, Morduch… Li hanno radunati e trasferiti in un insediamento shtetl,4 verso il quale facevano affluire tutti gli ebrei rastrellati nella zona di operazioni belliche. Molti avevano con sé cuscini e coperte. Ma li avevano presto ammazzati tutti, in una giornata o due. Li avevano gettati in una fossa… A migliaia… Raccontavano che per tre giorni e tre notti il sangue era risalito in superficie… La terra respirava… era viva… Adesso in quel posto c’è un parco. Un giardino pubblico. Non si sentono voci da sotto terra. Non un grido… Almeno credo… (Piange.)
Non so… come è successo? Se erano arrivati loro da lei o lei li aveva trovati nel bosco? Fatto sta che una nostra vicina aveva nascosto nel fienile due marmocchi ebrei, belli come angeli! Avevano ammazzato tutti quanti ma loro erano riusciti a salvarsi. A scappare. Uno aveva otto anni, l’altro dieci. E nostra madre portava loro del latte… ‘Mi raccomando, bambini, non una parola a nessuno…’ ci implorava. E in quella famiglia c’era un nonnino, molto molto vecchio, il quale si ricordava l’altra guerra contro i tedeschi, la prima… Dando loro da mangiare diceva quasi fra sé. ‘Ah, piccolini, prima o poi i tedeschi vi acchiapperanno… Meglio sarebbe per voi morire subito, ma non posso!’ Lui mormorava piano ma il diavolo sente tutto… (Si segna.) Sono arrivati due tedeschi su una motocicletta nera con un grosso cane nero. Qualcuno li aveva denunciati… Si trova sempre qualcuno così, dall’anima nera… O forse senz’anima… e il loro è un cuore anatomico non umano. Non hanno pietà per nessuno. I ragazzini si sono messi a correre in un campo… tra il frumento… I tedeschi hanno sguinzagliato il cane… La gente li ha poi raccolti… in brandelli… lembi… Non c’era quasi niente da seppellire e neppure si sapevano i loro nomi. Poi i tedeschi hanno legato la vicina alla moto e lei è loro corsa dietro fino a quando le è scoppiato il cuore… (Nemmeno si asciuga più le lacrime.) In guerra l’uomo ha da temere l’uomo. Chi ti è vicino e chi ti è estraneo. Parli di giorno, ti sentono gli uccelli, parli di notte, ti sentono i topi. La mamma ci ha insegnato a pregare. Senza Dio, perfino un verme ti divora vivo.
Il Nove maggio… la nostra festa…5 è l’occasione per bere con Saška un bicchierino… per piangere un po’ assieme… Lacrime amare da inghiottire… Insomma… insomma… Da quando aveva dieci anni, lui aveva fatto le veci del padre, del fratello in famiglia. Io alla fine della guerra avevo sedici anni. Sono andata a lavorare in una fabbrica di cemento. Dovevo aiutare mia madre. Spostavamo dei sacchi di cemento da cinquanta chili, caricavamo sui camion sabbia, ghiaia e tondini. Ma io volevo studiare… All’aratro e all’erpice si aggiogava la vacca… che urlava per la fatica di quel lavoro… E per il mangiare… Cosa mangiavamo? Ci abbuffavamo di ghiande, raccoglievamo le pigne nella foresta. Ma non rinunciavo a sognare… Durante tutta la guerra il mio sogno era stato di finire la scuola e diventare insegnante. L’ultimo giorno di guerra… c’era un bel tepore… la mamma e io eravamo nel campo. È arrivato un miliziano, a cavallo, di gran carriera: ‘Vittoria! I tedeschi hanno firmato la capitolazione!’ Ha attraversato al galoppo i campi, gridando a squarciagola a tutti: ‘Vittoria! Vittoria!’ La gente raggiungeva di corsa il villaggio. Urlavano, piangevano, imprecavano. Più che altro piangevano. Ma già il giorno dopo abbiamo cominciato a pensare ad altro: come tirare avanti? Nelle case non c’era niente, nei granai il vento. Tazze arrangiate dalle scatole di conserva… rimaste vuote dopo i tedeschi… Candele che riutilizzavano i bossoli sparati. Il sapore del sale in quegli anni di guerra ce l’eravamo dimenticati, camminavamo e ci sentivamo le ossa molli. Battendo in ritirata i tedeschi avevano caricato su un cassone il nostro maiale e acchiappato le nostre ultime galline. Ma prima i partigiani si erano portati via la vacca. Mamma non voleva mollarla e così un partigiano ha sparato una raffica in aria, contro il tetto. Hanno infilato in un sacco anche la macchina da cucire e i vestiti di mamma. Erano partigiani o banditi armati?… Insomma… insomma… La gente ha voglia di vivere, tanto più quando c’è la guerra. La guerra ti insegna un sacco di cose… Non c’è belva peggiore dell’uomo. È l’uomo a uccidere l’uomo, e non la pallottola. L’uomo… un altro uomo come lui… Cara la mia ragazza!
Mamma ha fatto venire un’indovina… Ha predetto: ‘Andrà tutto per il meglio.’ Ma non avevamo niente da darle per il disturbo. Mamma ha finito per scovare due bietole in cantina. Era sollevata e anche l’indovina se ne è andata contenta. Sono andata a iscrivermi, come sognavo, all’istituto magistrale. Per essere ammessi bisognava compilare un questionario… Mi ci sono messa e ho trovato anche questa domanda: ‘Lei o qualcuno della sua famiglia siete stati presi prigionieri o avete vissuto in zone sotto occupazione?’ Io ho risposto: sì, certo, la nostra regione è stata occupata. Il direttore dell’istituto mi ha convocata nel suo ufficio: ‘Ragazza, riprenditi i documenti.’ Era un veterano, senza un braccio. Aveva la manica vuota. E così ho saputo che noi… tutti quelli che si erano trovati sotto l’occupazione… eravamo elementi poco raccomandabili… sospetti… Nessuno ci diceva più: ‘Fratelli e sorelle…’ Ci hanno messo quarant’anni a sopprimere dai questionari quella domanda. Quarant’anni. E intanto la mia vita era andata. ‘E chi ci ha lasciato in balia dei tedeschi?’ – ‘Piano, figliola, piano’ aveva detto il direttore chiudendo la porta perché nessuno sentisse. ‘Piano… piano.’ Opporsi al destino? Lo stesso che tagliar l’acqua col falcetto. Saška invece ha cercato di farsi ammettere alla scuola militare… Ha scritto nel questionario che la sua famiglia era stata sotto l’occupazione tedesca e che il padre era sparito senza traccia. L’hanno subito escluso… (Tace.) Non le fa niente se parlo anche di me, della mia vita? Abbiamo avuto tutti la stessa vita. Però, ecco, non è che poi mi mettono al fresco per questo che dico? Esiste ancora il potere sovietico o è scomparso del tutto?
Le disgrazie mi hanno fatto dimenticare le cose buone… Di quando eravamo giovani e innamorati. Mi sono molto divertita anch’io al matrimonio di Saška… Come l’amava la sua Lizka!, l’aveva corteggiata a lungo, lei si faceva desiderare. A Minsk le aveva comprato un velo da sposa bianco. L’ha fatta entrare nella baracca portandola sulle braccia. È una nostra vecchia usanza… Lo sposo porta la sposa tra le braccia come fosse un bambino per non farsi accorgere dallo spirito della casa. Il domovoj6 non ama gli estranei, li scaccia. È lui il padrone della casa, bisogna piacergli. A-a-ah… (Fa un gesto noncurante.) Ormai nessuno crede più a niente. Né allo spirito della casa né al comunismo. La gente non ha più fede. Be’, forse crede ancora nell’amore… ‘Bacio! Bacio!’7 gridavamo al pranzo di Saška. Ma come si beveva a quei tempi? Una bottiglia per tutta la tavolata, per dieci persone… Adesso devi calcolare un bottiglia a testa. Per far sposare un figlio o una figlia devi venderti la vacca. Lui l’amava, la piccola Liza… Ma all’amore non si comanda, non puoi ripigliarlo per le orecchie. Insomma… insomma… Lei era vagabonda come una gatta. Cresciuti i figli l’ha mollato del tutto. Senza avvertire. Io ho cercato di consigliarlo: ‘Saška, trovati una brava donna. Andrà a finire che ti attacchi alla bottiglia.’ – ‘Me ne verso solo un bicchierino. Guardo un po’ di pattinaggio artistico e poi mi metto a letto.’ Ma a dormire da solo non ti riscalda neanche la coperta. E da solo anche il paradiso ti viene a noia. Comunque, beveva ma senza esagerare… Non si riduceva come certi altri. Ah, qui da noi al villaggio ce n’è uno che beve di tutto: acqua di colonia Garofano, lozioni dopobarba e per capelli, alcol denaturato e detersivi liquidi… Eppure è ancora vivo! Con quello che costa adesso una bottiglia di vodka, un tempo ci compravi il cappotto. E per mangiare? Mezzo chilo di salame costa la metà della mia pensione. La libertà la si mangia? La si beve, la libertà? Un paese come il nostro e l’hanno dato via! Una grande potenza!! Senza sparare un colpo… Però c’è una cosa che non mi entra in testa: come mai nessuno ci ha chiesto niente? Io ho lavorato tutta la vita a costruire un grande paese. Così ci dicevano… Questo promettevano.
Ho abbattuto alberi, ho portato a spalle traversine ferroviarie. Mio marito e io siamo andati in Siberia. Nei cantieri del comunismo. Ricordo i fiumi: Enisej, Birjusa, Mana… Costruivamo la tratta ferroviaria Abakan-Tajšet.8 Ci avevano trasportati laggiù su dei vagoni merce: due file di tavolacci a castello, senza materassi né lenzuola, come cuscino il proprio pugno. Nel pavimento un foro e per il bisogno grosso un secchio, schermato, quando serviva, reggendo un drappo. Quando il convoglio si fermava in mezzo ai campi, si raccoglieva più fieno che si poteva: il nostro giaciglio! Nei vagoni non c’era illuminazione, ma abbiamo cantato canzoni komsomoliane per tutto il viaggio! A squarciagola… Abbiamo viaggiato sette giorni… E siamo arrivati! La tajga più remota, la neve alta come noi. Presto ci siamo presi lo scorbuto, con tutti i denti che dondolavano. I pidocchi. Ma la norma… caspita se la completavamo!9 Gli uomini, quelli che sapevano cacciare, andavano per orsi. Così avevamo della carne in pentola, altrimenti pappe e ancora pappe di semola. Degli orsi mi è rimasta in mente una cosa che mi hanno detto: per abbatterli bisogna immancabilmente sparargli nell’occhio. Vivevamo in baracche senza docce né bagni. D’estate andavamo in città e ci lavavamo nelle fontane… (Ride.) Se vuoi posso continuare ancora…
Mi sono dimenticata di raccontarti come mi sono sposata. Avevo diciott’anni. Lavoravo già nella fabbrica di mattoni. Il cementificio dov’ero prima aveva chiuso e così avevo dovuto cambiare lavoro. All’inizio lavoravo con l’argilla. A quei tempi si faceva tutto a braccia, con le pale… Scaricavamo l’argilla dagli autocarri nel cortile della fabbrica e la stendevamo in uno strato regolare per farla ‘stagionare’. Ma di lì a sei mesi spingevo già i vagoncini carichi dai banchi di stampaggio alle fornaci: all’andata con i mattoni crudi, al ritorno con quelli cotti e brucianti. Li tiravamo fuori noi stesse dalle fornaci… Un calore spaventoso! Tiravamo fuori da quattro a seimila mattoni in una giornata. Fino a dodici tonnellate. A farlo eravamo tutte donne… e anche ragazze giovani… Gli uomini c’erano ma erano quasi tutti adibiti ai trasporti. Seduti al volante… Uno si è messo a corteggiarmi… Mi si avvicina, comincia a ridere… e mi appoggia la mano sulla spalla… Un giorno mi dice: ‘Parti con me?’ – ‘Sì’ ho detto io, senza neanche chiedergli per dove. E così abbiamo deciso per l’ingaggio nei cantieri siberiani. A edificare il comunismo! (Tace.) Ma adesso… ah! Insomma… insomma… è stato tutto inutile… abbiamo tanto penato per niente… Si fa fatica ad ammetterlo e ancora più a continuare a vivere sapendolo. Quanto abbiamo sgobbato. Costruito. A forza di braccia. Erano tempi duri. Quando lavoravo alla fabbrica di mattoni… una mattina mi sono svegliata tardi. Dopo la guerra per un ritardo al lavoro, anche di dieci minuti, c’era la prigione. Mi ha salvato il caposquadra: ‘Dì che ti ho mandato io alla cava…’ Se qualcuno avesse fatto la spia sarebbe finito sotto processo anche lui. Dopo il Cinquantatré hanno smesso di punire i ritardatari. In generale dopo la morte di Stalin la gente ha cominciato a sorridere più spesso, ma prima si era sempre sul chi vive. Senza sorridere.
Ma adesso che senso ha ricordare il passato? Non è un po’ come raccogliere i chiodi dopo un incendio che ha ridotto la tua isba in cenere? E parlo proprio della nostra vita… di tutto quello che avevamo e che è scomparso… Saška era partito per le terre vergini. A edificare il comunismo! Il radioso avvenire. Mi ha raccontato che dormivano nelle tende senza sacchi a pelo, anche d’inverno. Con tutto quello che potevano indossare. È stato lì che si è congelato le mani… Ma ne parlava lo stesso con fierezza! ‘Si perde lontana la via / nelle distese da dissodare / Salve, terra mia!’10 Aveva la tessera del partito, il libretto rosso col profilo di Lenin, e la teneva cara. È stato deputato e stachanovista come me. Anche per lui la vita è passata, volata via, senza lasciar traccia… Ieri sono stata in coda tre ore per il latte… ma è finito prima. Mi hanno portato a casa un paccodono spedito dai tedeschi: semola, cioccolata, sapone… Ai vincitori, da parte dei vinti! Non ho bisogno dei loro regali tedeschi, no-o-o… L’ho rimandato indietro. (Si segna.) I tedeschi vanno avanti e indietro coi loro cani, dal pelo lucido, per la foresta allagata… noi siamo nel pantano, con l’acqua fino alla gola. Donne coi bambini in braccio. Zitti zitti. E con noi ci sono le vacche. Zitte anche loro come noi. Capiscono tutto. Non li voglio quei loro cioccolatini tedeschi e neanche quei loro biscotti! Voglio quello che è mio! Il frutto del mio lavoro! E dov’è? Ci abbiamo così creduto! Abbiamo creduto nella possibilità di una vita migliore. Aspetta e sopporta, sì, aspetta e pazienta… Tutta una vita nelle caserme, nei dormitori, nelle baracche…
Ma cosa ci puoi fare? Così è… A tutto si può sopravvivere, tranne che alla morte. A quella non sopravvivi comunque… Trent’anni… trent’anni aveva sgobbato Saška al mobilificio… Ingobbendosi. Un anno fa era andato in pensione e i compagni l’avevano festeggiato in fabbrica. Gli avevano regalato un orologio. Ma non era rimasto con le mani in mano, tutti continuavano a commissionargli questo e quello. Già… Ma questo non lo rallegrava come prima. Si era fatto malinconico, aveva smesso di radersi. Trent’anni nella stessa fabbrica, ci pensi?, metà della sua vita! Era lì la sua vera casa.
E da lì era arrivata la sua bara. Uno splendore! Lucida, foderata di velluto. Oggi bare così le vedi solo ai funerali dei banditi o dei generali. Tutti volevano toccare quella meraviglia. Quando hanno portato la bara fuori dalla baracca, hanno sparso dei chicchi di frumento sulla soglia. Si fa così per aiutare i rimasti a sopportare meglio la dipartita. Una nostra antica usanza… Hanno messo la bara scoperchiata in mezzo alla corte… Qualcuno dei familiari ha detto: ‘Buona gente, perdonatelo!’ E abbiamo risposto tutti: ‘Lo perdonerà Dio!’ Ma cosa c’era da perdonare? Si viveva d’amore e d’accordo, come una sola famiglia. Se ti manca qualche cosa, te la do io, quando manca a me, provvedi tu. Amavamo le nostre feste. Costruivamo il socialismo, e adesso alla radio dicono che il socialismo è finito. Ma noi… noi siamo ancora qui…
I treni passano… il loro battito sulle rotaie si allontana… Cosa cercate qui da noi, forestieri? Cosa? La morte non è mai la stessa e i morti non si assomigliano. Ho avuto il mio primo figlio in Siberia, e la difterite se l’è portato via in un fiato. Ma ho continuato a vivere. Ieri sono andata a trovare Saška alla sua tomba, sono rimasta seduta per un po’ in sua compagnia.11 Gli ho raccontato che la sua piccola Liza aveva pianto. Che sbatteva la testa contro la bara. Quando si ama, gli anni non contano…
Moriremo… e tutto si aggiusterà.”