DALLE INTERVISTE SULLA PIAZZA ROSSA NEL DICEMBRE 1991
“Allora ero una studentessa…
Si è svolto tutto molto rapidamente… Tre giorni e la rivoluzione era già finita… Al telegiornale hanno dato la notizia che i membri del Comitato per lo stato d’emergenza erano stati arrestati… che il ministro degli Interni Pugo si era sparato e il maresciallo Achromeev si era impiccato… In famiglia se ne è discusso molto. Ricordo che papà ha detto: ‘Sono dei criminali di guerra. Meriterebbero di subire la stessa sorte dei generali tedeschi Speer e Hesse.’ Tutti si aspettavano una nuova Norimberga…
Eravamo giovani… Una rivoluzione! Ho cominciato a essere orgogliosa del mio paese quando la gente è scesa in strada per fermare i carri armati. Prima c’erano stati i fatti di Vil’nius, Riga, Tbilisi.1 A Vil’nius i lituani avevano difeso il loro centro televisivo e noi avevamo potuto vedere le immagini degli scontri. E noi, allora, cosa aspettavamo? O eravamo dei pecoroni? E così siamo scesi in piazza anche noi, anche persone che fino ad allora non avevano mai fatto niente del genere, e si erano limitate a fremere d’indignazione nelle loro cucine… E invece adesso… Con una cara amica ci siamo munite di ombrello, nel caso piovesse e per difesa personale. (Ride.) Sono stata fiera di El’cin quando, in piedi sul carro armato, ha arringato la gente e ho capito che era lui il mio presidente! Quello vero! C’erano molti giovani. Studenti. Eravamo tutti cresciuti leggendo l’Ogonëk di Korotič e gli scrittori degli anni Sessanta.2 La situazione era da stato di guerra… Una voce maschile urlava, supplicava da un megafono: ‘Ragazze, andate via. Ci saranno delle sparatorie, dei morti!’ Accanto a me un giovane ha appena detto alla moglie incinta di tornare a casa, lei piange. ‘E tu perché resti?’ – ‘Perché devo.’
Ho tralasciato una circostanza molto importante… com’era iniziata per me quella giornata… A svegliarmi era stato il pianto disperato di mamma. Tra un singhiozzo e l’altro chiedeva a mio padre: ‘Ma cos’è questo stato d’emergenza? Secondo te cosa gli avranno fatto a Gorbačëv?’ Nonna faceva la spola tra il televisore e la radio in cucina: ‘Non hanno arrestato nessuno? Non hanno fatto fucilare nessuno?’ Era nata nel 1922 e sparatorie, arresti ed esecuzioni non potevano certo impressionarla. L’avevano accompagnata per tutta la vita e dopo la sua morte mamma ci avrebbe svelato un segreto di famiglia. Era stato come alzare un sipario, aprire le tende. Quando nel 1956 avevano restituito a nonna e mamma il padre liberato da un campo di lavoro forzato in Kazakistan, questi era un sacco d’ossa. Era così malato e debole che gli avevano dovuto trovare un accompagnatore per farlo arrivare a casa. E loro non hanno detto a nessuno che si trattava del marito… del padre… Avevano paura. A chi chiedeva, dicevano che per loro era di fatto un estraneo, qualcosa come un parente molto alla lontana. L’avevano tenuto in casa qualche mese e poi l’avevano messo in ospedale. Lì si è impiccato… Devo… devo riuscire a metabolizzarlo… farmene una ragione… (Insiste.) Cercare di conviverci… Mia nonna temeva più di ogni altra cosa un nuovo Stalin e la guerra. Ha passato l’intera vita a prepararsi all’arresto e alla fame. Coltivava cipolle in cassette sul davanzale della finestra e marinava grandi quantità di cavoli in pentoloni. Faceva provviste di zucchero e olio. Avevamo i soppalchi di casa stipati di semole e granaglie. Orzo perlato. Mi raccomandava continuamente: ‘Taci! Taci! Non dire niente a scuola… Non dire niente all’università…’ Sono cresciuta così, con queste persone… Non avevamo motivo di amare il potere sovietico. Eravamo tutti per El’cin! Quella mia amica che le ho detto… sua madre non voleva lasciarla uscire: ‘Dovrai passare sul mio cadavere! Ma non capisci che ricomincerà tutto un’altra volta!?’ Studiavamo all’università dell’Amicizia tra i popoli intitolata a Patrice Lumumba.3 Ci studiavano giovani di tutto il mondo e per molti l’URSS era il paese delle balalaiche e della bomba atomica. La cosa ci offendeva. Avremmo voluto vivere in un altro paese…”
“Lavoravo come meccanico in una fabbrica…
Quando ho saputo del putsch mi trovavo nella regione di Voronež ospite di una zia. Di tutti quei loro piagnistei sulla grande Russia ne ho pieni i coglioni. Fanno i patrioti, loro! Tengono concioni davanti alla scatola vuotacervelli! Dovrebbero piuttosto farsi un giro, non dico lontano, nel raggio di una cinquantina di chilometri da Mosca. A vedere dove vive la gente e come vive. Come trascorre le giornate festive, attaccata alla bottiglia… Nelle campagne non ci sono quasi più uomini. Sono quasi tutti morti. Quelli rimasti non hanno una coscienza più sviluppata di quella dei bovini e dell’altro bestiame e si ubriacano fino a stramazzare sotto il tavolo o per strada. E bevono di tutto, basta che bruci le budella, dalle lozioni tonificanti alla benzina. Si sbronzano e poi fanno a pugni. In ogni famiglia c’è qualcuno che se ne sta in galera o che c’è passato. La milizia non ne viene a capo. Le uniche a non arrendersi sono le donne che continuano a sgobbare negli orti. Se ci sono due o tre uomini che non bevono, quelli sono già a guadagnarsi da vivere a Mosca. Nel villaggio dove vado ogni tanto c’è un unico coltivatore in proprio e gli hanno appiccato il fuoco all’azienda4 tre volte, finché non è andato in malora e ha tolto le tende! Non potevano vederlo. Lo detestavano, era un odio istintivo… di pelle.
I carri armati a Mosca… le barricate… In campagna nessuno si era particolarmente impressionato. Da farci una malattia. A preoccuparli di più erano la dorifora delle patate e la tignola dei cavoli. Accidenti se è dura a morire ’sta dorifora… E i ragazzi hanno in testa solo due cose: la grana e le ragazze. E un posticino tranquillo dove scolarsi una boccia in santa pace la sera. La gente comunque era in maggioranza per il Comitato, per lo stato d’emergenza. O almeno così mi è sembrato… Non erano tutti comunisti, ma erano tutti per un paese potente e rispettato. Diffidavano dei grandi cambiamenti perché ogni grande cambiamento per loro, la gente semplice, si era rivelato una fregatura. Ricordo che nostro nonno ci diceva: ‘Prima si viveva di merda, adesso peggio.’ Prima e dopo la guerra, in campagna la gente viveva senza documenti.5 Ai contadini non li rilasciavano, e neanche permettevano loro di trasferirsi in città. Erano dei servi della gleba. Dei prigionieri. Erano tornati dalla guerra, magari coperti di medaglie. Avevano conquistato mezza Europa. Ma a casa loro non avevano diritto ai documenti.
A Mosca ho saputo che tutti i miei amici erano andati sulle barricate. Avevano partecipato alla baraonda. (Ride.) Magari potevo beccarmi una medaglietta anch’io…”
“Sono ingegnere…
Il maresciallo Achromeev, dice? È un sovietico, un vecchio arnese. Un sovok. Io ci sono vissuto in quel loro regno dei sovki e non ho nessuna voglia di ricominciare. Quanto a lui era un fanatico, un uomo sinceramente devoto all’idea comunista. Dunque un mio nemico. Quando lo sentivo parlare non potevo impedirmi di odiarlo. Anche se capivo che era un tipo capace di battersi fino all’ultimo. Il suo suicidio? Certo non lo si può liquidare con un’alzata di spalle, è un atto fuori dall’ordinario che merita rispetto. Almeno quello che ispira comunque la morte. Però mi pongo anche un interrogativo: e se avessero vinto loro? Prenda un qualsiasi manuale scolastico… Non c’è un solo colpo di Stato che non abbia fatto ricorso al terrore, e non sia inevitabilmente finito in un bagno di sangue. Con lingue strappate e occhi cavati. Come nel medioevo. Non c’è bisogno di essere uno storico per capirlo…
Quella mattina ho sentito alla televisione che Gorbačëv ‘era nell’incapacità di dirigere il paese perché gravemente ammalato’… ho visto i carri armati sotto casa… Telefono agli amici, sono tutti per El’cin. Contro la junta. Andiamo a difendere El’cin! Apro il frigorifero e mi metto in tasca un pezzo di formaggio. Ci sono delle ciambelle sul tavolo, tiro su anche quelle. E l’arma? Non si può farne a meno… C’è un coltello da cucina sul tavolo… lo prendo, lo soppeso, lo ripongo nel cassetto. (Resta assorto.) No, davvero, e se avessero vinto?
Adesso la televisione trasmette le immagini di quei giorni… il maestro Rostropovič appena arrivato da Parigi6 seduto con un mitra in mano, ragazze che offrono gelati ai soldati, un mazzo di fiori posato su un carro armato… le mie, di immagini, sono diverse… Nonnine moscovite che distribuiscono panini imbottiti ai soldati e li accompagnano nelle loro case a fare pipì. Avevano fatto convergere una divisione corazzata sulla capitale senza provvedere al vettovagliamento e ai servizi igienici. Teste di ragazzi dal collo esile si sporgono dalle torrette spalancando gli occhi pieni di spavento sulla folla. Non ci capivano niente. Al terzo giorno si erano trasferiti sulle blindature, e se ne stavano lì seduti, di pessimo umore e con la pancia vuota. E col sonno in arretrato. Le donne li attorniano: ‘Davvero, figlioli, ci sparerete addosso?’ I soldati non rispondono niente ma un ufficiale grida con rabbia: ‘Se ci daranno l’ordine spareremo.’ E i soldati spariscono d’incanto, calandosi nelle torrette. Eh sì! Le mie immagini non coincidono con le sue… Formiamo una catena umana, aspettiamo l’attacco. Corrono voci: impiegheranno i gas, sui tetti si sono appostati i cecchini… Si avvicina una donna, con appuntati sulla camicetta i nastrini di alcune decorazioni: ‘Chi state difendendo qui? I capitalisti?’ – ‘Ma cosa ci vieni a raccontare, nonna? Siamo qui a difendere la libertà.’ – ‘E io ho combattuto in guerra per il potere sovietico, per gli operai e i contadini. Non per i chioschi e le cooperative. Ah, se solo mi dessero un mitra…’
Era tutto sospeso a un capello. C’era odore di sangue. Noi col cuore in gola. No, nei miei ricordi non è stata una festa…”
“Io sono un patriota…
permetta anche a me di dire quel che penso.” – L’uomo ha il giaccone aperto, che lascia vedere una croce massiccia che gli pende sul petto. – “Stiamo vivendo l’epoca più vergognosa della nostra storia. Siamo una generazione di vigliacchi e traditori. Sarà questa la sentenza che pronunceranno contro di noi i nostri figli. Diranno: ‘I nostri genitori hanno venduto un grande paese per dei jeans, delle Marlboro e della gomma da masticare.’ Non abbiamo saputo difendere l’URSS – la nostra Patria. È un crimine spaventoso. Ci siamo svenduti tutto!! Non mi abituerò mai al tricolore russo, avrò sempre davanti agli occhi la bandiera rossa. La bandiera di un grande paese! Di una grande vittoria! Come ci è potuto succedere, cosa ci hanno mai fatto… a noi sovietici… per precipitarci così a occhi chiusi in questo fottuto paradiso capitalistico? Fatto di carte di caramelle, banconi di salumi e confezioni regalo col nastrino. Ci siamo lasciati accecare e abbindolare dalle loro chiacchiere. Per le loro quattroruote e i loro quattro stracci. E non raccontiamoci storielle… Come quella che è stata la CIA a far crollare l’Unione Sovietica, o gli intrighi di Brzezinski!…7 E come mai non l’ha fatto il KGB con l’America, me lo sa spiegare? Non sono stati quegli ottusi dei bolscevichi a mandare in malora il paese e neanche quei fottuti degli intellettuali, per poter viaggiare all’estero e leggere l’Arcipelago Gulag. E lasciamo perdere anche il complotto giudeo-massonico. No, siamo stati noi stessi a distruggere tutto. Con le nostre mani. Non vedevamo l’ora che anche da noi aprissero i MacDonald’s con gli hamburger espressi e che ognuno si potesse comprare una Mercedes o almeno un videolettore di plastica similmetallo. E che si potessero trovare liberamente in vendita sulle bancarelle i film porno…
Ciò di cui ha bisogno la Russia è una mano inflessibile. Di ferro. Un guardiano con il bastone. E allora – viva il grande Stalin! Urrah! Achromeev poteva essere il nostro Pinochet… il nostro generale Jaruzelski…8 Una grande perdita…”
“Io sono comunista…
Ero per quelli del Comitato d’emergenza, sì, il GKCP, o meglio ero per l’URSS. Ero un loro strenuo sostenitore perché ci tenevo a vivere in un impero. ‘Immenso è il paese mio natale…’ se lo ricorda l’inno? Nel 1989 sono stato mandato a Vil’nius per lavoro. Prima della partenza mi ha convocato nel suo ufficio l’ingegnere-capo della fabbrica, il quale era già stato da quelle parti non molto tempo prima. Intendeva mettermi in guardia: ‘Non rivolgerti a loro in russo. Se parli russo non riesci neanche a farti dare una scatola di fiammiferi in un negozio. Il tuo ucraino non l’hai dimenticato, vero? Ecco parla piuttosto in ucraino. Io non gli ho creduto – che cosa mi stava raccontando? Ma lui ha insistito: ‘Sta’ attento anche quando vai alla mensa, ti possono avvelenare o metterti nel cibo del vetro macinato. Quelli ormai ti considerano un occupante, hai capito?’ Ma io ero ancora fermo all’amicizia tra i popoli e roba del genere. La fraternità sovietica. Sono rimasto scettico, almeno finché non sono arrivato alla stazione di Vil’nius. Non appena ho calcato la banchina, fin dal primo istante e dalle mie prime parole in russo, mi hanno fatto capire che ero arrivato in un altro paese, che ero uno straniero e un occupante. Venuto da una Russia sporca e arretrata. Un Ivan russo. Un barbaro.
Ma adesso passiamo a quel balletto di piccoli cigni.9 In una parola, ai fatti del Comitato per l’emergenza; quando l’ho saputo ero in un negozio. Sono corso a casa e ho acceso il televisore: El’cin l’avevano ucciso o no? Il centro televisivo a chi obbedisce? Chi ha il comando dell’esercito? Ho telefonato a un conoscente: ‘Quei farabutti! Adesso si rimetteranno a stringere i bulloni, torneremo a essere delle viti e dei chiodi.’ Non ci ho visto più: ‘Io invece, guarda un po’, sono favorevole al cento per cento. Io sono per l’URSS.’ E in un istante quello vira di centottanta gradi: ‘Per Michail il Segnato10 è la fine! In Siberia, a zappare!’ Capisce quello che voglio dire? Con la gente bisognava parlare. Convincerli. Lavorarli ai fianchi. Come prima cosa bisognava impadronirsi della torre televisiva di Ostankino e trasmettere 24 ore su 24: ‘stiamo salvando il paese! La Patria sovietica è in pericolo!’ Quindi sbarazzarsi al più presto dei vari Sobčak, Afanase’v11 e altri traditori. E il popolo li avrebbe seguiti!
Il suicidio di Achromeev non mi convince. Un ufficiale del suo valore non poteva impiccarsi con un pezzo si spago… col nastro di una confezione di dolciumi… Come un qualsiasi detenuto. Ci si strozza così in una cella di prigione, seduti e piegando le ginocchia. In solitudine. Non è nella tradizione militare. Gli ufficiali non si abbasserebbero mai a tanto. Non è stato un suicidio ma un assassinio. L’hanno ammazzato gli stessi che hanno ammazzato l’Unione Sovietica. Lo temevano perché Achromeev godeva di grande autorità negli ambienti militari e avrebbe potuto organizzare la resistenza. Il popolo non era ancora disorientato e diviso come oggigiorno. Si viveva tutti allo stesso modo, si leggevano gli stessi giornali. Non come adesso: c’è chi vive a zuppa acquosa e pane e chi si lamenta di gamba sana.
E quest’altra cosa… l’ho visto coi miei occhi… Alcuni giovani avevano appoggiato delle scale, quelle allungabili dei pompieri, alla facciata dell’edificio sede del Comitato centrale del PCUS nella Piazza Vecchia, dove ormai nessuno montava la guardia. Sono saliti in cima muniti di martelli e tronchesi e hanno cominciato a staccare e a buttar giù le lettere dorate CK KPSS. Gli altri che stavano in basso le segavano e distribuivano i frammenti per ricordo. Anche quando hanno smontato le barricate, dal fil di ferro hanno ricavato altri souvenir.
Ecco cosa ricordo io della caduta del comunismo.”