CONVERSAZIONI RUSSE A CHICAGO
Ci siamo incontrati un’altra volta a Chicago. La famiglia si era già abbastanza ambientata. Si era radunato un gruppo di russi. Tavola imbandita e conversazioni alla russa, con gli eterni interrogativi: che fare e di chi è la colpa e in più: emigrare o no?
“Sono emigrato per paura… Da noi a ogni rivoluzione si finisce col trovare il pretesto di depredare qualcuno e spaccare il muso agli ebrei. A Mosca era in corso una vera guerra, non passava giorno che qualcuno non saltasse in aria o venisse ammazzato. Di sera non si poteva uscire per strada, se non in compagnia di un cane da combattimento. Io avevo addestrato personalmente un bull terrier…”
“… Gorbačëv ha aperto la gabbia e noi siamo affondati. Che cosa ho lasciato? Un merdoso appartamento di due stanze, una chruščoba. Meglio fare la cameriera per un buon salario, che il medico per uno stipendio da fame. Siamo cresciuti tutti in Unione Sovietica: a scuola raccoglievamo i rottami di metallo e ci piaceva cantare la canzone Il Giorno della Vittoria. Ci avevano educato con le fiabe edificanti sulla giustizia e i cartoni animati sovietici dove tutto era rappresentato in modo schematico: questo è bene, questo è male. Un mondo per così dire onesto. Mio nonno è morto vicino a Stalingrado, combattendo per l’Unione Sovietica, per il comunismo. Ma io volevo vivere in un paese normale. In una casa dove ci fossero le tendine e i cuscini e mio marito rincasando trovasse una vestaglia da indossare. Sull’anima russa sono debole, in me ce n’è poca. Ho levato le tende e sono andata negli Stati Uniti. D’inverno mangio le fragole. Di salame ce n’è a bizzeffe e non è affatto un simbolo…”
“… Negli anni Novanta si viveva in modo allegro, favoloso… Guardavi dalla finestra e a ogni angolo c’era una manifestazione. Ma ben presto non è più stato né allegro, né favoloso. Volevate il libero mercato: eccovelo! Io e mio marito siamo ingegneri, da noi la metà della popolazione ha fatto studi di ingegneria. Con noi non hanno fatto cerimonie: ci hanno gettato nella spazzatura. Ed eravamo stati noi a fare la perestrojka, a seppellire il comunismo e ora non servivamo più a nessuno. Meglio non rievocare… La nostra bambina ci chiedeva da mangiare e in casa non c’era niente. Per tutta la città si vedevano annunci con scritto: Compro… Compro… ‘Compro un chilo di cibo’: non di carne, di formaggio, ma di qualunque cibo. Un chilo di patate ci faceva contenti, al mercato vendevano i panelli di colza come durante la guerra. Al marito della nostra vicina avevano sparato nell’ingresso. Era un parlamentare. Per mezza giornata era rimasto lì per terra, coperto da un giornale in una pozza di sangue. Accendevi il televisore: da una parte ammazzavano un banchiere, dall’altra un businessman… È finita che una banda di ladri si è impadronita di tutto. Presto il popolo si sarebbe diretto sulla Rublëvka con le asce…”
“… Non indirizzeranno le loro minacce contro la Rublëvka, ma contro i container di cartone dei mercati dove vivono i lavoratori clandestini. Cominceranno ad ammazzare i tagiki, i moldavi…”
“… Io invece me ne fotto… Che possano crepare tutti. Vivrò solo pensando a me stesso…”
“… Ho deciso di emigrare quando Gorbačëv è tornato da Foros dicendo che noi non rinnegavamo il socialismo. Se è così, senza di me! Non voglio vivere sotto il socialismo! Era una vita monotona, dall’infanzia sapevamo che saremmo stati ottobristi, poi pionieri e komsomoliani. Il nostro primo stipendio era di sessanta rubli, in seguito sarebbe diventato di ottanta, e alla fine della nostra vita sarebbe stato di centoventi… (Ride.) Una compagna di classe a scuola ci aveva spaventato: ‘Se ascoltate Radio Svoboda, non diventerete mai komsomoliani. E se i nostri nemici lo scoprissero?’ La cosa più ridicola è che lei adesso vive in Israele…”
“… Una volta vivevo anch’io per un ideale, non ero una qualunque. Vengono le lacrime agli occhi… Il Comitato per lo stato di emergenza!! I carri armati nel centro di Mosca avevano un’aria atroce. I miei genitori erano tornati dalla dacia per fare scorte di alimentari nel caso fosse scoppiata una guerra civile. Erano una banda! Un’associazione a delinquere! Pensavano, ricorrendo ai carri armati, di poter risolvere tutto. Che la gente volesse solo una cosa: avere da mangiare e poi il consenso sarebbe stato generale. Il popolo si è riversato nelle strade… Il paese s’è destato… Tutto è accaduto di colpo, in un istante… Un piccolo germe… (Ride.) Mamma è una persona frivola, non pensa mai a nulla. Assolutamente lontana dalla politica: la vita passa in fretta, bisogna prendere ciò che si può adesso. È ancora una donna giovane e carina. Persino lei è andata alla Casa Bianca con un ombrello sulla spalla…”
“… Ah-ah-ah… Anziché la libertà ci hanno dato dei voucher. E si sono spartiti il grande paese: il petrolio, il gas… Non so, come esprimerlo a parole… A qualcuno sono toccate le ciambelle intere e a qualcun altro solo i buchi delle ciambelle. Questi voucher, bisognava trasformarli in azioni di imprese, ma erano pochi quelli che erano in grado di farlo. Sotto il socialismo non avevamo imparato a fare i soldi. Mio padre ci portava a casa la réclame dell’‘Immobiliare Mosca’, della ‘Petroli-Diamanti-Invest’, della ‘Nichel di Noril’sk’… Ne discutevamo con la mamma in cucina e alla fine li abbiamo venduti a un tizio nel metrò. Mi hanno comprato una giacca di pelle all’ultima moda. Questo hanno fruttato. Con questa giacca sono arrivata in America…”
“… Noi li abbiamo ancora. Fra una trentina d’anni li venderò a qualche museo.”
“… Lei non può immaginare quanto detesto questo paese… Odio la parata del Giorno della Vittoria! I grigi rivestimenti delle case e dei balconi mi danno la nausea, e anche i barattoli sotto vuoto pieni di pomodori e cetrioli… e i vecchi mobili…”
“Era cominciata la guerra in Cecenia… Ancora un anno e mio figlio sarebbe dovuto partire per il militare. I minatori affamati erano venuti a Mosca e battevano i loro caschi sulla Piazza Rossa. A due passi dal Cremlino. Nessuno sapeva come sarebbe andata a finire. Ci sono persone rare, straordinarie là, ma è impossibile vivere. Siamo emigrati per i nostri figli, abbiamo tirato la cinghia per loro qui. Ma loro sono cresciuti e sono terribilmente distanti da noi…”
“Ehh… Come si dice in russo? Non ricordo… Emigrare ormai è una cosa normale… Un russo può ormai vivere dove più gli piace e dove vuole. Taluni da Irkutsk vanno a Mosca, altri da Mosca espatriano a Londra. Tutto il mondo si è trasformato in un caravanserraglio…”
“Un vero patriota può solo augurarsi per la Russia un’occupazione. Che venga occupata…”
“Ho lavorato per un po’ all’estero e poi sono tornata a Mosca… Ero combattuta: avrei voluto vivere in un mondo a me conosciuto, familiare, come il mio appartamento, trovare a occhi chiusi un libro sullo scaffale e al tempo stesso desideravo spiccare il volo in un universo infinito. Dovevo partire o restare? Non riuscivo proprio a decidere. Era il Novantacinque. Camminavo, come ora, per via Gor’kij e davanti a me due donne parlavano a voce alta… Non le capivo… Eppure parlavano in russo. Ero fuori di me! Mi sentivo annichilita… Pronunciavano delle parole nuove, ma la cosa più importante era l’intonazione che somigliava molto a quella di un dialetto del Sud. E poi l’espressione del loro viso… Ero stata lontana solo qualche anno ed ero già un’estranea. Il tempo andava a una velocità frenetica, si era imbizzarrito. Mosca era lercia, altro che sfavillante metropoli! Dappertutto c’erano mucchi di spazzatura. La spazzatura della libertà: lattine vuote di birra, involucri variopinti, bucce d’arancia… Tutti mangiucchiavano banane. Ora non è più così. Ci siamo rimpinzati troppo. Avevo capito che la città che un tempo tanto amavo e dove mi sentivo bene e a mio agio, ormai non esisteva più. I veri moscoviti si chiudevano in casa terrorizzati oppure emigravano. La vecchia Mosca era sparita. C’era una nuova popolazione che l’abitava. Avrei voluto fare in fretta le valigie e fuggire. Neppure nei giorni del putsch di agosto avevo mai provato tanta paura. Allora ero come in uno stato d’ebbrezza. Io e un’amica caricavamo sulla mia vecchia Žiguli i volantini che avevamo stampato nel nostro istituto dove c’era una fotocopiatrice. Andavamo avanti e indietro passando davanti ai carri armati e ricordo che mi aveva stupito notare che erano rabberciati con placche di lamiera, placche quadrate, fissate con le viti…
In tutti questi anni, mentre ero via, i miei amici hanno vissuto nell’euforia: la rivoluzione è riuscita! Il comunismo è caduto! Tutti avevano chissà perché la convinzione che sarebbe andato tutto bene perché la Russia era piena di persone istruite. E poi la Russia è un paese straricco. Ma anche il Messico è un paese ricco… Con il petrolio e il gas non si compra la democrazia, non la si acquista come le banane e il cioccolato svizzero. E non basta un decreto presidenziale… Occorrono persone libere, ma non ce n’erano. E non ce ne sono neppure adesso. In Europa da duecento anni si prendono cura della democrazia come si fa con le aiuole. A casa mamma piangeva: ‘Ecco, tu dici che Stalin era malvagio, ma con lui abbiamo vinto. E tu vuoi tradire la tua Patria.’ Era venuto a trovarmi un mio vecchio amico. Bevevamo il tè in cucina: ‘Che cosa succederà? Non accadrà niente di buono finché non fucileremo tutti questi bastardi di comunisti.’ Di nuovo altro sangue? Qualche giorno dopo ho consegnato i documenti per espatriare…”
“… Mi ero separata da mio marito… Avevo chiesto gli alimenti, ma lui non li pagava mai. Nostra figlia aveva superato l’esame d’ammissione all’Istituto superiore del commercio ed eravamo sempre a corto di soldi. Una mia amica conosceva un americano che aveva avviato il suo business in Russia. Aveva bisogno di una segretaria, però non voleva una modella dalle lunghe gambe, cercava una persona affidabile. La mia amica mi aveva raccomandato. Lui era molto interessato alla nostra vita, c’erano molte cose che non riusciva a capire. ‘Perché tutti i vostri businessmen portano scarpe di vernice?’ ‘Cosa vuol dire «ungere qualcuno» e «giocare d’anticipo»?’ E altre domande del genere. Aveva dei progetti grandiosi: la Russia è un enorme mercato!! Ma è stato rovinato in un modo banale, con un espediente molto semplice. Lui teneva in grande considerazione la parola data. Gli avevano fatto una promessa e lui ci aveva creduto. Aveva perduto molto denaro e aveva deciso di tornarsene a casa. Prima di partire mi aveva invitato al ristorante e io pensavo che fosse per dirci definitivamente addio. Ma lui, levando il calice, dice: ‘Ecco a cosa brindiamo: di soldi qui non sono riuscito a guadagnarne, ma in compenso ho trovato un’ottima moglie russa.’ Siamo insieme ormai da sette anni…”
“… Prima vivevamo a Brooklyn… Si sentiva parlare solo il russo e tutti i negozi erano russi. In America se si vuole si può nascere con una levatrice russa, frequentare scuole russe, lavorare presso un padrone russo e confessarsi da un prete russo… Il salame in vendita è ‘eltsiniano’, ‘staliniano’ o ‘mikojaniano’…5 e il lardo è ricoperto di cioccolato… I vecchi sulle panchine si sfidano a domino e giocano a carte… Intrecciano interminabili discussioni su El’cin e Gorbačëv. Ci sono stalinisti e antistalinisti… Se ticapita di passare lì davanti puoi orecchiare frasi del tipo: ‘Ma c’era bisogno di uno Stalin?’ ‘Sì, ce n’era propriobisogno.’ Fin da piccola sapevo già tutto di Stalin. Avrò avuto cinque anni… Io e la mamma eravamo in attesa alla fermata dell’autobus… Da quello che ora intuisco non lontano dalla sede rionale del KGB, io un po’ facevo i capricci e un po’ strillavo. ‘Non piangere,’ mi pregava la mamma. ‘Altrimenti ti sentiranno quei malvagi che hanno portato via il nonno e tante altre brave persone.’ E comincia a raccontarmi del nonno. Mamma sentiva il bisogno di parlarne con qualcuno. Quando Stalin è morto all’asilo hanno fatto sedere tutti noi bambini a piangere per lui. Solo io non piangevo. Quando il nonno è tornato dal lager, si è inginocchiato davanti alla nonna, lei non aveva mai smesso di darsi da fare per lui…”
“Oggi in America ci sono tanti ragazzi russi che indossano magliette con il ritratto di Stalin. Sulla capote delle loro auto disegnano falce e martello. E odiano i negri…”
“Noi siamo originari di Char’kov… Da laggiù l’America ci sembrava il paradiso. La terra della felicità. La nostra prima impressione è stata: mentre noi edificavamo il socialismo, gli americani sono riusciti a costruirlo. Una ragazza, una nostra conoscente, ci ha portato in giro per saldi. Io e mio marito eravamo arrivati in America solo con un paio di jeans e io avevo bisogno di vestiti. Guardo: una gonna costa tre dollari. Un paio di jeans cinque. Dei prezzi ridicoli. Nell’aria si sente odore di cibo e buon caffè… La sera io e mio marito abbiamo aperto una bottiglia di Martini e fumato delle Marlboro… Il nostro sogno si era avverato. Ma a quarant’anni abbiamo dovuto ricominciare da zero. Precipiti automaticamente di due, tre gradini nella scala sociale, dimenticati di essere un regista, un’attrice o di avere una laurea… Da principio ho trovato lavoro come infermiera in un ospedale: ritiravo i vasi da notte, lavavo i pavimenti. Non sono riuscita a resistere. Ho cominciato a portar a passeggio i cani di due vecchi. Ho lavorato come cassiera in un supermercato… Era il 9 maggio, la mia festa preferita. Mio padre era arrivato fino a Berlino. Mi era tornato in mente… La capocassiera dice: ‘Noi abbiamo vinto, ma anche voi russi siete stati bravi. Ci avete dato una mano.’ È così che gli insegnano a scuola. Per poco non cadevo dalla sedia! Che cosa sanno della Russia? Che i russi tracannano la vodka a bicchieri e che a casa loro cade molta neve…”
“… Siamo partiti in cerca di salame, ma poi si è scoperto che il salame non era così a buon mercato come avevamo sempre sognato…”
“… I nostri cervelli fuggono dalla Russia, e arrivano le braccia… I lavoratori immigrati… La mamma scrive che il loro portinaio tagiko ha fatto arrivare a Mosca tutta la sua famiglia. Ora loro lavorano per lui, mentre lui fa il padrone. Comanda. La moglie è continuamente incinta. Per celebrare le feste sgozzano il montone nel cortile di casa. Davanti alle finestre dei moscoviti. E arrostiscono gli spiedini…”
“… Io sono una persona razionale. Tutti questi sentimentalismi riguardo alla lingua dei nonni e delle nonne, sono soltanto emozioni. Ho proibito a me stesso di leggere libri russi e navigare nell’internet russo. Voglio eliminare da me stesso tutto ciò che è russo. Voglio smettere di essere russo…”
“… Mio marito non vedeva l’ora di emigrare… Abbiamo preso con noi dieci casse di libri russi perché i nostri figli non dimenticassero la loro lingua madre. Alla dogana di Mosca le hanno aperte tutte, cercavano oggetti di antiquariato e noi avevamo solo Puškin, Gogol’… I doganieri hanno riso a lungo… Anche adesso accendo Radio ‘Majak’ e ascolto le canzoni russe…”
“… La Russia, la mia Russia… La mia amata Pietroburgo! Come vorrei tornare! Ora mi metto a piangere… Evviva il comunismo! A casa! E le patate di qui sono una porcheria. La cioccolata russa poi è semplicemente magnifica!”
“… E le mutande razionate con la tessera, anche quelle continuano a piacerle? Rammento quando studiavo per dare l’esame di comunismo scientifico…”
“… Le betulle russe… no, le betulle dopo…”
“… Il figlio di mia sorella… Il suo inglese è perfetto. È un informatico. Ha vissuto in America per un anno e poi è tornato a casa. Dice che adesso in Russia la vita è più interessante…”
“… È quello che dico anch’io… Ormai c’è tanta gente che vive bene anche là. Hanno un lavoro, la casa e l’automobile. Hanno tutto. Ma lo stesso hanno paura e vorrebbero emigrare. Il tuo business possono confiscartelo e metterti in prigione senza motivo… Possono storpiarti di sera in un androne… Nessuno vive rispettando la legge, né in alto, né in basso…”
“… La Russia di Abramovič e Deripaska…6 o di Lužkov…7 è forse Russia? È una nave che affonda…”
“… Ragazzi, bisogna vivere a Goa… E far la grana in Russia…”
Esco sul balcone. Qui si fuma e si continua a discutere: chi emigra oggi dalla Russia è intelligente o stupido? Quasi non credevo alle mie orecchie quando ho sentito qualcuno cantare a tavola Serate di Mosca, la nostra canzone sovietica prediletta: “Nel giardino non si ode più neppure un fruscio, / Tutto tace qui fino al mattino. / Se sapeste come mi sono care / queste serate di Mosca…” Quando torno nella stanza tutti stanno ormai cantando. E anch’io.