A PROPOSITO DELLA DOLCE SOFFERENZA E DELLE STRAMBERIE DI CUI È CAPACE LO SPIRITO RUSSO
STORIA DI UN AMORE
Ol’ga Karimova, musicista, 49 anni
“No… no, non ci riesco… Non posso farcela. Pensavo che un giorno l’avrei raccontato a qualcuno… Ma non adesso. Non adesso… Ho messo tutto sotto sigillo, murato, tumulato tutto… Come dentro a un sarcofago… L’incendio è divampato, ma ancora arde in chissà quale reazione chimica. Forme cristalline che non oso toccare… Ho paura…
Il mio primo amore… Posso definirlo così? Il mio primo marito… Una storia meravigliosa. Mi ha fatto la corte per due anni. Desideravo tanto sposarlo per averlo tutto per me. Lo volevo per sempre mio. Neppure so perché avessi talmente bisogno che lui fosse solo mio. Che non si separasse mai da me per poterlo vedere sempre e bisticciare e scopare, scopare, scopare all’infinito. È stato il primo uomo della mia vita. La prima volta… è stato solo per curiosità, per vedere che cosa sarebbe accaduto. La volta successiva, pure… un esperimento tecnico… Be’, solo qualcosa di carnale… Tutto qui. E così abbiamo continuato per sei mesi. Per lui poco contava che fossi proprio io, avrebbe potuto trovare altro… E invece ci siamo sposati… Avevo ventidue anni. Studiavamo insieme in una scuola di musica, facevamo tutto insieme. E poi è accaduto… Come una rivelazione, sebbene non me ne sia resa conto subito… Avevo cominciato ad amare il corpo maschile… Qualcosa che ti può appartenere interamente… Era l’inizio di una storia meravigliosa… Che poteva continuare così all’infinito come concludersi dopo mezz’ora. E poi… sono stata io ad andarmene. Lui mi aveva scongiurato di restare, ma ormai avevo deciso di andarmene. Ero così stufa di lui… Dio mio, com’ero stufa di lui. Ero già incinta, con il pancione… Che bisogno avevo di lui? Scopavamo, poi litigavamo e io piangevo. Non avevo ancora imparato a sopportare. A perdonare.
Sono uscita di casa e ho richiuso la porta alle mie spalle, di colpo mi sono sentita felice all’idea di andarmene via. Di lasciare tutto per sempre. Mi sono stabilita a casa di mia madre e quella stessa notte lui si è subito precipitato da me, completamente alterato: si può sapere che ti succede? Sei incinta, perché non sei mai contenta, di cosa hai bisogno ancora? Ma io avevo ormai voltato pagina… Ero molto felice di essere stata con lui e ora di non esserlo più. La mia vita è come un salvadanaio che sempre si riempie e poi si svuota.
Oh, era stato così bello partorire An’ka… Mi era talmente piaciuto… Per esempio, quando mi si erano rotte le acque… Avevo camminato per chilometri e a un certo punto nel bosco mi si erano rotte le acque. Non mi rendevo del tutto conto, non sapevo se fosse il caso di precipitarmi subito all’ospedale. Era inverno. Ora quasi stento a crederci, ma c’erano quaranta gradi sotto zero. La corteccia degli alberi si crepava per il gelo. Alla fine avevo deciso di andare. Il medico che mi aveva visitato mi aveva detto che il travaglio sarebbe durato due giorni. Avevo telefonato a mia madre: ‘Mamma, portami della cioccolata. Dovrò restare qui ancora a lungo.’ Prima della visita del mattino, era passata un’infermiera: ‘S’intravede già la testa… Vado a cercare un dottore.’ Ed eccomi sulla sedia da parto… Mi dicevano: ‘Su, spingi, spingi. Ci siamo, ci siamo…’ Non ricordo quanto tempo fosse trascorso, ma subito, quasi subito mi hanno mostrato un fagottino. ‘È una bambina!’ Pesava quattro chili. ‘Non abbiamo dovuto ricucire, neanche un punto. Non ha voluto far male alla sua mamma.’ Oh, quando me l’hanno portata l’indomani! Aveva certi occhi… Due enormi pupille nere in cui ci si poteva perdere… Ormai non avevo bisogno di nient’altro…
Per me era cominciata una nuova vita, completamente diversa da quella di prima. Mi piaceva il mio nuovo aspetto. Di colpo ero diventata più bella… An’ka aveva trovato subito il suo posto nella mia vita, io l’adoravo, ma non la mettevo assolutamente in relazione con gli uomini, né con un padre. Era come se fosse caduta dal cielo! Quando le chiedevano: ‘Alečka, ma non ce l’hai un papà?’ Le avevo insegnato a rispondere: ‘No, però ho una nonna.’ ‘E il cane non ce l’hai?’ ‘No, però ho un criceto.’ Eravamo fatte così noi due… Per tutta la vita avevo temuto di dover abdicare da me stessa. Anche dal dentista quando mi curavano i denti li pregavo di non farmi l’iniezione, non volevo l’anestesia. Le mie sensazioni erano solo mie, piacevoli o dolorose che fossero, non volevo che mi allontanassero da me stessa. Io e An’ka ci piacevamo molto. E poi nella nostra vita è entrato Gleb…
Se non fosse stato lui, non mi sarei risposata mai più. Avevo tutto: una figlia, un lavoro, la libertà. E all’improvviso è arrivato lui… Goffo, quasi cieco… Con l’asma… Ho fatto entrare nel mio mondo un uomo con un passato più che opprimente: dodici anni di detenzione nei lager staliniani. Quando l’avevano arrestato era un ragazzino di sedici anni. Suo padre… un importante dirigente del partito… era stato fucilato, mentre sua madre l’avevano infilata in una botte piena di acqua gelida1 lasciandola morire così. Da qualche parte lontano, tra le nevi. Prima di lui io non avevo mai pensato a certe cose… Ero stata prima pioniera… poi komsomoliana… La vita per me era bellissima! Meravigliosa! Che cosa mi aveva fatto decidere? Cosa? Col passare del tempo la sofferenza si tramuta in conoscenza. Da cinque anni ormai non c’è più… Cinque anni… E mi addolora che non abbia potuto conoscermi così come sono oggi. Oggi io lo comprendo di più, sono maturata, ma senza di lui. Per lungo tempo non sono riuscita a vivere da sola. Non volevo più vivere. Non temevo la solitudine, la ragione era un’altra: non so vivere senza amore. Ho bisogno di questa forma di sofferenza… Di questa pena… Senza di essa… Ho paura, la stessa paura che mi assale quando, al mare, mi spingo al largo, molto al largo: e sono sola… e sotto di me c’è l’oscurità… E non so che cosa si nasconda in tutta quella oscurità…
(Siamo sedute sulla terrazza. Le foglie degli alberi stormiscono e comincia a piovere.)
Oh, questi amori da spiaggia… Non durano a lungo. Sono così effimeri. È come una vita in miniatura. Si può cominciare in bellezza e finire in bellezza. Sono ciò che non siamo riusciti ad avere dalla vita, ciò che avremmo desiderato conquistare. Per questo amiamo tanto partire… fare degli incontri… E allora… Ho due treccine, un abitino a pois blu, comprato il giorno prima della partenza ai grandi magazzini Detskij mir. Il mare… Nuoto al largo, molto al largo. La cosa che amo di più al mondo è nuotare. Il mattino faccio ginnastica sotto un’acacia coperta di fiori bianchi. Passa un uomo, un uomo dall’aspetto molto ordinario, non più giovane, e alla mia vista chissà perché sembra rallegrarsi: ‘Le piacerebbe se le leggessi una mia poesia stasera?’ ‘Può darsi, ma ora vado a nuotare lontano, molto lontano!’ ‘L’aspetterò.’ E mi ha aspettato, mi ha aspettato per parecchie ore. Non era troppo bravo a declamare i versi, si aggiustava di continuo gli occhiali. Ma faceva tenerezza. Capivo… capivo che cosa provava… I suoi gesti, gli occhiali, quell’agitazione. Ma non ricordo assolutamente ciò che leggeva, né perché dovesse essere così importante… Aveva anche piovuto… Questo lo ricordo… Come altre cose… Le nostre sensazioni… Che esistevano al di là di noi: la sofferenza, l’amore, la tenerezza. Vivevano di un’esistenza propria, indipendente da noi. Perché all’improvviso ci ritroviamo a scegliere una persona, anziché un’altra, che potrebbe essere migliore? O diventiamo inaspettatamente parte della vita di un’altra persona che ci è estranea? È come se fossimo stati individuati… Come se ci fosse stato inviato un segnale… Il mattino successivo ci siamo incontrati di nuovo e lui mi dice: ‘Ti ho aspettato così tanto!’ E lo dice con un tono di voce tale che chissà perché in quel momento io gli ho creduto, anche se non ero affatto pronta. Proprio il contrario. Ma qualcosa intorno a me era cambiato… Non era ancora amore, ma solo la sensazione di aver ricevuto a un tratto così tanto. Una persona ti ha ascoltato. Hai bussato e ti è stato aperto. Ho nuotato lontano, molto lontano. Sono tornata e lui era lì ad aspettarmi. Mi ha detto: ‘Andrà tutto bene tra noi.’ E io chissà perché gli ho creduto di nuovo. La sera abbiamo bevuto insieme dello spumante: ‘È un rosé, ma costa quanto un normale spumante.’ Questa frase mi era piaciuta. Ha preparato una frittata. ‘Con le uova mi succede sempre una cosa strana. Ne compro una dozzina e ne cuocio due per volta eppure alla fine me ne resta sempre solo uno.’ E altre frasi altrettanto tenere.
Tutti ci notano e domandano: ‘È tuo nonno? Tuo padre?’ Io indosso un abitino così corto… Ho ventotto anni… Solo in seguito lui è diventato bello. Con me. Sono convinta di conoscere un segreto… È solo l’amore che apre certe porte… Solo l’amore… ‘Ti ho pensata, sai?’ ‘E in che modo mi hai pensata?’ ‘Avrei voglia di andare con te lontano, lontano. Non vorrei nient’altro, solo sentirti accanto a me. Ecco quanta tenerezza provo per te: mi basta guardarti e camminarti a fianco.’ Abbiamo trascorso insieme tante ore felici, quasi infantili. ‘E se andassimo insieme in un’isola e ce ne stessimo sdraiati sulla sabbia…’ Le persone felici assomigliano sempre a dei bambini. Bisogna proteggerle; sono fragili, buffe. E indifese. Tra noi era così, come avrebbe potuto essere altrimenti non saprei. Mia madre mi diceva sempre che ‘solo dall’infelicità s’impara’. Ma io desideravo essere felice. Di notte mi svegliavo sempre con lo stesso pensiero: Che cosa sto facendo? Avevo i nervi a pezzi… ‘Hai sempre la nuca contratta,’ notava lui. Che cosa sto facendo? Dove sto sprofondando? Sotto di me c’era l’abisso.
… la madietta del pane… Non appena ci vedeva del pane avanzato si metteva meticolosamente a mangiarlo. Non importava quanto fosse e se fosse raffermo, non bisognava sprecarlo. La razione era sacra.2 Quello che c’era si doveva finirlo. Io non avevo capito da subito…
… mi raccontava della scuola. Durante le lezioni di storia aprivano il manuale e sui ritratti dei generali Tuchačevslkij e Bljucher disegnavano le sbarre di una prigione. Su ordine della direttrice della scuola. Ma ciò nonostante cantavano e ridevano. Per loro era come un gioco. Finite le lezioni, ogni tanto, lo picchiavano e gli scrivevano col gesso sulla schiena ‘Figlio di un nemico del popolo’.
… un passo di lato e ti sparavano.3 Se riuscivi a raggiungere la foresta, finivi sbranato dagli animali selvatici. La notte, dentro le baracche, potevano sgozzarti. Di colpo ti afferravano e ti sgozzavano. Così, per niente. Senza una parola. Era la vita del lager. Ciascuno pensava per sé. Ho dovuto impararlo…
… dopo che erano riusciti a liberare Leningrado dalla blokada4 lì si erano visti arrivare una tradotta di sopravvissuti all’assedio. Esseri scheletrici… Tutti pelle e ossa… che non avevano quasi più nulla di umano… Li avevano internati nel campo per aver occultato le tessere del pane (la razione giornaliera era di cinquanta grammi) delle loro madri… dei loro bambini morti… Per questo li avevano condannati a sei anni. Per due giorni era calato un silenzio terribile nel campo. Persino i guardiani tacevano…
… per un po’ aveva lavorato nel locale della caldaia…Quando era ormai al limite delle forze, ridotto a un dochodjaga,5 qualcuno gli aveva salvato la vita… Il fuochista era un professore di lettere di Mosca. Trasportava la legna per lui con una carriola. Ragionavano anche insieme: può un uomo che cita Puškin e ascolta Bach sparare a persone disarmate…
Ma perché avevo scelto proprio lui? Le donne russe sono attirate da uomini colpiti da qualche disgrazia. Mia nonna era innamorata di un uomo, ma i suoi genitori l’avevano data in sposa a un altro. Che non le piaceva per niente e che non voleva a nessun costo! Lei aveva deciso che quando in chiesa il prete le avrebbe chiesto se era libera di dare il suo consenso, avrebbe risposto di no. Ma il prete, che era un po’ alticcio, anziché rivolgerle la domanda di rito, le aveva detto: ‘Cerca di portargli rispetto, ha avuto i piedi congelati in guerra.’ Così le era toccato sposarsi per forza. Aveva dovuto tenersi il nonno, che non amava, per tutta la vita. Una straordinaria postilla alle nostre vite quel ‘Cerca di portargli rispetto, ha avuto i piedi congelati in guerra.’ Era stata felice mia madre? Papà era tornato dalla guerra nel ’45… Prostrato, distrutto… Infermo per le ferite. I vincitori! Solo le loro mogli sanno che cos’è stato vivere con dei vincitori. Dopo il ritorno di mio padre, la mamma piangeva spesso. I vincitori hanno impiegato anni a riprendere una vita normale. A riabituarsi. Rammento i discorsi di papà. I primi tempi impazziva dalla felicità al solo sentire frasi come: ‘Riscaldiamo la banja.’6 ‘Andiamo a pesca.’ I nostri uomini sono dei martiri, hanno subito tutti dei traumi sia per la guerra che per il lager. Guerra e prigione sono le due parole più importanti della lingua russa. Le donne russe non hanno mai vissuto con degli uomini normali. Non hanno fatto altro che accudirli, curarli. Un po’ li trattavano da eroi, un po’ da bambini, cercando di salvarli. E continuano a svolgere lo stesso ruolo anche oggi. L’Unione Sovietica è crollata… Ora sono vittime della dissoluzione di un impero. Del suo fallimento. Persino Gleb, dopo il gulag, aveva più coraggio. Si sentiva fiero di essere sopravvissuto! Di esserne uscito! Ho visto cose orribili, ma ora posso scrivere un libro, baciare una donna… Era orgoglioso. A differenza di questi altri, che hanno gli occhi pieni di paura. Solo di paura… Riducono l’organico dell’esercito, le fabbriche sono ferme… Ingegneri, medici, liberi docenti vendono qualcosa al mercato. Quante se ne vedono in giro di persone così, gettate da un treno in corsa. Che stanno lì sedute sul ciglio della strada ad aspettare. Il marito di una mia conoscente era aviatore, comandava una squadriglia. L’hanno messo nella riserva… Lei invece quando ha perso il lavoro si è subito riciclata. Era ingegnere e ora fa la parrucchiera. Mentre lui se ne sta in casa a bere per consolarsi, beve perché è stato un aviatore, ha combattuto in Afghanistan e ora gli tocca cucinare la pappa ai bambini… Ce l’ha col mondo intero. È pieno di rancore. È andato all’ufficio militare a chiedere di essere mandato in guerra, in missione speciale, ma l’hanno respinto. I volontari non mancano. Ci sono migliaia di militari disoccupati, uomini che conoscono solo i mitra e i carri armati. Inadatti a qualunque altro tipo di vita. Da noi le donne devono essere necessariamente più forti degli uomini. Vanno su e giù per il mondo intero con le loro grandi sporte a quadretti. Dalla Polonia alla Cina. Comprano, rivendono. Si accollano il peso della casa, dei figli e dei vecchi genitori. E dei loro mariti. Dell’intero paese. È difficile da spiegare. Impossibile. Mia figlia ha sposato un italiano… Si chiama Sergio, fa il giornalista. Quando vengono a trovarmi, si fanno grandi discussioni in cucina. Alla russa… Fino al mattino… Sergio ritiene che i russi amino soffrire e che stia in questo l’essenza dello spirito russo. Per noi la sofferenza è ‘una battaglia personale’, ‘una via che porta alla salvezza’. Ma gli italiani, loro, sono diversi, non vogliono soffrire, amano questa vita che ci è stata donata per poterne gioire e non per patire delle sofferenze. Noi non siamo così. Della gioia parliamo raramente… O della felicità, che costituisce da sola un intero universo. Un universo stupefacente! Con cantucci, finestre e porte che abbisognano di tante chiavi diverse per aprirsi. Mentre noi siamo attratti dai viali oscuri, alla Bunin.7 Bene… Quando Sergio e mia figlia tornano insieme dal supermercato è lui a portare le borse. La sera mia figlia può suonare il piano, mentre lui prepara la cena. Io facevo tutto l’opposto: se lui voleva portare le borse, gliele toglievo: ‘No, lascia, sono io che devo portarle.’ Se entrava in cucina, gli dicevo: ‘Questo non è un posto per te. Tornatene nello studio.’ Ho sempre vissuto di luce riflessa.
Era trascorso già un anno, o forse più… Avrebbe dovuto venire a casa mia per conoscere tutti. L’avevo avvertito che mia madre era una persona amabile, ma che mia figlia non era come le altre e che non potevo garantirgli che l’avrebbe accolto bene. Oh, la mia An’ka… Portava tutto all’orecchio: giocattoli, sassi, cucchiai… I bambini si mettono ogni cosa in bocca e lei all’orecchio per sentirne il suono! Avevo cominciato a iniziarla alla musica piuttosto presto, ma era una bambina così strana… Quando mettevo un disco, si voltava e se ne andava via. Non le piaceva alcun tipo di musica, fuorché quella che risuonava dentro di lei. E così, Gleb è venuto, era molto inquieto. I capelli gli erano stati tagliati male, erano troppo corti e lui non era particolarmente avvenente. Aveva portato dei dischi. Si è messo a raccontare di come li aveva comprati… E An’ka, che ha orecchio, che non ascolta altro che le intonazioni della voce, subito ha preso i dischi, dicendo: ‘Che dischi melavigliosi!’ E qualche tempo dopo lei mi ha spiazzato: ‘Come faccio se mi viene da chiamarlo papà?’ Lui non cercava di piacerle, ma trovava interessante stare con lei. Tra loro è stato subito amore… Ero persino gelosa che potessero amarsi di più di quanto non amassero me. Poi mi sono convinta che il mio ruolo era diverso… (Tace.) Un giorno lui le ha chiesto: ‘An’, ma tu balbetti?’ ‘Adesso non proprio bene, una volta balbettavo meglio.’ Non ci si annoiava mai con lei! Si sarebbe potuto annotare tutto quello che diceva. E così una volta mi aveva fatto quella domanda: ‘Come faccio se mi viene da chiamarlo papà?’ Eravamo sedute su una panchina del parco… Gleb era andato a comprare delle sigarette e quando è tornato, ha detto: ‘Di che cosa stavate parlando, ragazze?’ Io le ho fatto cenno di non dire niente: ‘Tocca a te dirglielo.’ Che cosa mi restava da fare? A quel punto gli ho riferito che An’ka temeva di chiamarlo, senza accorgersi, papà. E lui ha detto: ‘Certo non è un problema da poco, ma se lo desideri tanto, chiamami pure papà.’ Al che An’ka tutta seria ha replicato: ‘Va bene, ma devi sapere che io ho un altro papà, che però a me non piace. E nemmeno alla mamma.’ Era sempre così con noi due. Ci bruciavamo sempre i ponti alle spalle. Sulla strada del ritorno era già diventato il suo papà. Non faceva che correre e gridare: ‘Papà! Papà!’ L’indomani all’asilo aveva annunciato a tutti che il suo papà le avrebbe insegnato a leggere. ‘E chi è il tuo papà?’ ‘Si chiama Gleb.’ Il giorno seguente una delle sue amichette arrivando da casa le aveva detto: ‘An’ka, dici le bugie, non è il tuo papà. Non è il tuo vero papà.’ ‘No, l’altro non era il mio vero papà. Questo è il mio papà vero.’ Inutile discutere con An’ka, lui era diventato il suo ‘papà’. Ma io? Io non ero ancora la moglie… no…
Ero in ferie e stavo di nuovo partendo. Lui correva lungo i vagoni, sbracciandosi. Ma in treno già mi lasciavo corteggiare. Due giovani ingegneri di Char’kiv stavano andando anche loro a Soči. Mio Dio, ero così giovane. Il mare. Il sole. Facciamo il bagno, ci baciamo, balliamo insieme. Era tutto così semplice, facile perché il mondo stesso, a volere, è semplice, cha-cha-cha-kazačok8 e io ero nel mio elemento. Ero amata… tenuta in palmo di mano… Letteralmente: per due ore mi hanno portata in braccio su per le montagne… Quei giovani muscoli, quelle giovani risate… Tutta la notte fino al mattino intorno a un falò… E ho fatto un sogno… Il soffitto si spalancava su un cielo azzurro… Vedevo Gleb… Camminavamo insieme… sulla riva del mare, non sulla battigia accarezzata dalle onde, ma su sassi acuminati come chiodi. Io avevo le scarpe, ma lui camminava scalzo. ‘A piedi nudi si sentono meglio le cose’ mi spiegava. Ma sapevo che gli faceva male. E per il dolore ha cominciato a librarsi nell’aria… e a volare sopra la terra… Lo vedevo volare. Solo che teneva le braccia giunte come se fosse morto. (S’interrompe.) Dio mio, sono pazza… Non devo raccontarlo a nessuno… Il più delle volte ho la sensazione di essere felice in questa vita… Felice davvero! Sono andata a trovarlo al cimitero… Ricordo che camminavo e sentivo la sua presenza da qualche parte. Provavo una sensazione così intensa di felicità che mi veniva voglia di piangere. Di piangere. Dicono che i morti non vengano a trovarci. Non ci creda.
Le ferie stavano finendo e io ritornavo a casa. L’ingegnere mi ha accompagnato fino a Mosca. Gli avevo promesso che avrei raccontato tutto a Gleb… Arrivo da lui… Sulla scrivania c’è un’agenda tutta scarabocchiata, sulla tappezzeria dello studio, e persino sui giornali che ha già letto, sono state tracciate tre lettere: a… è… f… A caratteri maiuscoli, minuscoli, in stampatello e in corsivo. Con i puntini di sospensione… Gli domando: ‘Che cosa significano quelle lettere?’ E lui me le decifra: “Allora è finita.’ Bene, ci separiamo, ma dobbiamo dare delle spiegazioni ad An’ka. Siamo andati a prenderla, ma lei non voleva uscire perché aveva da finire un disegno! Non le abbiamo dato retta e lei non appena in macchina, è scoppiata in un pianto disperato.
Ma lui era abituato a certe follie e anzi le considerava manifestazioni di un innato talento. Comunque sia, ormai era una tipica scenetta famigliare: An’ka piangeva e lui la consolava e io ero lì tra loro… Lui mi fissa, mi fissa… E io… in quell’attimo… in quello stesso istante… ho capito che era un uomo terribilmente solo. E… che l’avrei sposato… Che dovevo sposarlo… (Scoppia a piangere.) Com’era felice che non ci fossimo lasciati! Che non mi fossi fatta sfuggire quell’attimo. Che felicità! Mi ha donato una vita intera! (Piange.) E così mi sono sposata… Lui si sentiva oppresso, aveva paura, era già stato sposato due volte. Le donne lo tradivano, si stancavano di lui… E non si poteva fargliene una colpa… L’amore è una dura fatica. Per me è soprattutto un lavoro. Non ho avuto né una cerimonia, né l’abito bianco. È stato tutto sotto tono. E dire che avevo sempre sognato una cerimonia solenne con l’abito bianco e di lanciare il mio bouquet di rose bianche in acqua dal ponte sul fiume. Era uno dei miei sogni.
Non amava che gli si facessero troppe domande… Si schermiva ricorrendo a qualche fanfaronata… purché risultasse divertente… Era un’abitudine acquisita quando era ancora un detenuto quella di scherzare sulle cose serie. Di spostare tutto su un altro piano. Per esempio, non diceva mai ‘libero’, ma ‘a piede libero’. ‘Ed eccomi di nuovo a piede libero!’ In quei rari momenti… Raccontava le cose in modo così colorito, suggestivo… Riusciva a farmi vivere, ad esempio, tutta la gioia che aveva provato quando un giorno era riuscito a procurarsi dei pezzi di pneumatico da legare sotto gli stivali di feltro, e l’entusiasmo di quando erano stati trasferiti e i pezzi di pneumatico gli avevano evitato di congelarsi i piedi. Una volta aveva potuto scambiare mezzo sacco di patate, lì dove lavorava come detenuto ‘a piede libero’ con un bel pezzo di carne. Di notte nel locale della caldaia avevano preparato una zuppa. ‘Non puoi avere idea di com’era buona quella zuppa! Una zuppa coi fiocchi!’ Una volta rilasciato aveva ricevuto un risarcimento per suo padre. Gli avevano detto: ‘Le spettano per la casa e i mobili…’ E avevano stabilito una grossa somma in denaro. Lui s’era comprato degli indumenti nuovi: un abito, una camicia, un paio di scarpe e una macchina fotografica ed era andato nel migliore ristorante di Mosca, al Nacional, e aveva ordinato i piatti più cari, aveva bevuto del cognac e del caffè, accompagnandolo con una torta di gran pasticceria. Alla fine, quando era stato sazio, aveva chiesto a qualcuno di fotografarlo in quello che era il momento più felice della sua vita. ‘Torno nell’appartamento dove vivevo e mi rendo conto di non provare alcuna sensazione di felicità. Nonostante quell’abito, quella macchina fotografica… Perché non ero felice? Mi sono tornati in mente di colpo i pneumatici, la zuppa preparata nel locale della caldaia. Lì sì ero compitamente felice perché la felicità la cercavamo allo spasimo. La felicità… Lui non avrebbe mai barattato i suoi anni nel lager con nient’altro al mondo… Erano la sua riserva segreta, la sua ricchezza. Aveva vissuto nei lager dai sedici fino quasi ai trent’anni… Calcoli un po’ quanti sono… Gli domandavo: ‘E se non ti avessero arrestato?’ E lui rispondeva scherzando: ‘Sarei rimasto lo scemo che ero, ma al volante di una fuoriserie rossa. L’ultimo modello.’ Solo alla fine… alla fine… quando ormai era all’ospedale… mi ha parlato per la prima volta seriamente: ‘Era come a teatro. Dalla sala assisti a una bella rappresentazione, la scena è perfetta, gli attori brillanti e le luci misteriose, ma se finisci dietro le quinte… Subito dietro il sipario, non vedi che pezzi di tavole, stracci, tele abbozzate e abbandonate… bottiglie di vodka vuote… avanzi di cibo… La favola è svanita. Tutto è buio e sudicio… Mi hanno portato dietro le quinte… capisci?’
… l’avevano gettato in mezzo ai delinquenti comuni. Un ragazzo… Nessuno saprà mai che cosa è veramente stato…
… la bellezza indescrivibile del Grande Nord! Il silenzio della neve… e la luce che dalla neve si irradia anche di notte… E tu non sei che una bestia da lavoro. Ti spingono a forza dentro la natura, ma per farti regredire. ‘La tortura della bellezza’ l’aveva definita lui una volta. Il suo aforisma preferito: ‘I fiori e gli alberi Gli sono riusciti meglio degli esseri umani.’
… L’amore… Raccontava com’era stata per lui la prima volta… Lavoravano nella foresta. Era passata una colonna di donne dirette al lavoro. Scorgendo gli uomini, le donne si erano fermate ed era impossibile farle procedere oltre. Il comandante della scorta armata urlava. ‘Su, avanti! Avanti!’ Ma le donne restavano ferme. ‘Avanti, p… che non siete altro!’ – ‘Cittadino capo, lasciateci andare dagli uomini. Non ce la facciamo più. Ci metteremo a ululare!!!’ – ‘Ma siete delle assatanate! Delle indemoniate!’ Loro non desistono. ‘Di qui non ci muoviamo.’ ‘E sia. Ma non più di mezz’ora. Rompete le righe!!’ In un attimo la colonna si era dispersa. Ma erano tornate tutte in tempo, puntuali. E felici. (Tace.) Ma dove sta di casa la felicità?
… Lui scriveva poesie. Qualcuno l’aveva riferito al comandante del lager. E quello l’aveva mandato a chiamare: ‘Componimi una lettera d’amore in versi.’ Voleva far colpo sulla sua innamorata che viveva nella regione dell’Ural, gli aveva detto, non senza un certo imbarazzo, o almeno così gli era sembrato. Quando ricordava l’episodio poi taceva imbarazzato. Il capo aveva un’innamorata negli Urali.
… aveva fatto il viaggio di ritorno sul ripiano superiore dello scompartimento. Il treno aveva impiegato due settimane ad attraversare tutta la Russia. Lui era rimasto là disteso per tutto il tempo senza mai scendere per la paura. Usciva solo di notte a fumare. Temeva che, se i compagni di viaggio gli avessero offerto qualcosa, sarebbe scoppiato in lacrime e si sarebbe messo a parlare. E loro avrebbero scoperto che veniva da un lager… Era stato accolto da lontani parenti di suo padre. Loro avevano una bambina piccola. Quando lui l’aveva abbracciata, lei si era messa a piangere. C’era qualcosa in lui… Era un uomo terribilmente solo… Anche con me. Lo so, anche con me…
Ora annunciava con orgoglio a tutti: ‘Ho una famiglia!’ Ogni giorno si stupiva di avere una vita famigliare normale, ne andava molto fiero. Ma la paura… la paura non l’abbandonava… non riusciva a vivere senza. La notte per il terrore si svegliava coperto di sudore: non avrebbe mai terminato il suo libro (stava scrivendo un libro su suo padre), non gli avrebbero dato nessuna nuova traduzione (traduceva testi tecnici dal tedesco) e non avrebbe potuto mantenere la sua famiglia. E se io a un tratto l’avessi lasciato? Dopo la paura sopraggiungeva la vergogna per aver provato paura. ‘Gleb, ti amo. Chiedimi qualunque cosa, fosse anche di danzare in un balletto e lo farò. Per amor tuo, tutto. Nel lager era riuscito a sopravvivere, ma nella vita di tutti i giorni un qualsiasi miliziano che lo fermasse mentre era alla guida dell’auto poteva quasi procurargli un infarto… E così un colpo di campanello dell’amministratore dell’immobile. ‘Come hai fatto a sopravvivere laggiù?’ – ‘È perché sono stato molto amato quand’ero piccolo.’ La quantità d’amore che abbiamo ricevuto è la nostra riserva di forza… Solo l’amore può salvarci. L’amore è come una vitamina senza la quale l’essere umano non può vivere, il sangue si coagula e il cuore cessa di battere. Sono stata la sua infermiera… la sua balia… la sua attrice preferita. Sono stata tutto per lui.
Credo che siamo stati fortunati… Abbiamo vissuto un’epoca importante… La perestrojka! C’era un’atmosfera di festa. Si aveva l’impressione di essere sul punto di spiccare il volo. L’aria era intrisa di libertà. ‘Gleb, è il tuo momento! Puoi scrivere tutto, pubblicare tutto.’ Era soprattutto il loro momento… Il momento della generazione degli anni Sessanta, dei šestidesjatniki. Era il loro trionfo. L’avevo visto felice. ‘Sono vissuto abbastanza da vedere la completa vittoria dell’anticomunismo.’ Il suo sogno più grande si era avverato: il comunismo era crollato. Ora avrebbero rimosso i monumenti bolscevichi e il sarcofago di Lenin dalla Piazza Rossa, le vie non avrebbero più portato i nomi di assassini e carnefici. Il tempo delle speranze! Della generazione degli anni Sessanta, possono dire tutto quello che vogliono, ma io continuerò ad amarli. Ingenui? Romantici? Sì!! Trascorrevo le giornate a leggere i giornali. La mattina andavo a farne provvista al chiosco della Sojuzpečat’,9 accanto a casa nostra, con un borsone della spesa. Stavo incollata al televisore e ascoltavo ininterrottamente la radio. Allora eravamo tutti come impazziti. Li-ber-tà! La parola stessa ci inebriava. Siamo cresciuti tutti con i samizdat e i tamizdat. Con la parola. Con la letteratura. Quanto discutevamo! Quanto parlavamo tutti allora! Sto preparando il pranzo o la cena e lui mi siede accanto e legge i giornali: ‘Susan Sontag: il comunismo è un fascismo dal volto umano…’10 ‘E ancora… senti qua…’ Insieme abbiamo letto Berdjaev… Hayek…11 Come abbiamo potuto vivere senza questi libri e questi giornali? Se l’avessimo saputo prima… sarebbe stato tutto diverso… Jack London ha scritto un libro su questo, sul fatto che si può vivere legati in una camicia di forza,12 basta solo comprimersi un po’, accorciare il respiro e farci l’abitudine. Si può anche sognare. È così che abbiamo vissuto. E d’ora in poi come vivremo? Non so come, ma immagino che tutti riusciremo a vivere bene. Non ho dubbi… Dopo la sua morte ho trovato un’annotazione nel suo diario: ‘Sto rileggendo Čechov… il suo racconto Il calzolaio e il Maligno.13 Un uomo vende la sua anima al diavolo in cambio della felicità. Che cos’è la felicità per il calzolaio? Passeggiare in calesse indossando un soprabito nuovo e stivali di pelle fine, una donnona popputa a fianco, un prosciutto in una mano e un quartino di acquavite nell’altra. Non c’è bisogno di nient’altro…’ (Si fa pensierosa.) Evidentemente, aveva dei dubbi… Ma aveva talmente voglia di qualcosa di nuovo! Di qualcosa di buono, di luminoso e giusto. Correvamo felici a ogni comizio e manifestazione. Prima di allora avevo sempre temuto la folla. L’istinto delle masse. Avevo un rifiuto della massa, di tutte le celebrazioni festive… Delle bandiere. Qui invece mi piaceva tutto… intorno c’erano dei volti così familiari… Quei volti non li scorderò mai più! Ho nostalgia di quell’epoca e molti condividono il mio stesso sentimento, lo so. Il nostro primo viaggio organizzato all’estero l’abbiamo fatto a Berlino. Sentendoci parlare in russo, due ragazze tedesche si erano avvicinate al nostro gruppo: ‘Siete russi?’ – ‘Sì.’ – ‘Perestrojka, Gorby’ e ci avevano abbracciato. E così penso: dove sono finiti tutti quei volti? Dove sono finite quelle belle persone che vedevo negli anni Novanta nelle strade? Sono tutte emigrate?
… Quando ho saputo che aveva il cancro, sono rimasta nel letto tutta la notte a piangere e il mattino mi sono precipitata da lui in ospedale. Stava seduto sul ripiano della finestra, aveva un colorito giallastro e appariva molto felice. Era sempre felice quando sopraggiungeva un cambiamento nella sua vita. Poteva essere il lager, o la deportazione o più tardi la libertà. E questa volta… era la morte, un altro cambiamento…
‘Hai paura che muoia?’ – ‘Sì, ho paura.’ – ‘Be’, in primo luogo non ti ho fatto nessuna promessa. E in secondo luogo non accadrà tanto presto.’ – ‘Davvero?’ Come sempre, gli avevo creduto. Subito mi sono asciugata le lacrime e mi sono detta che dovevo aiutarlo di nuovo. Non ho più pianto… fino alla fine… Arrivavo il mattino nella sua stanza e subito la nostra vita cominciava, prima vivevamo a casa e ora vivevamo in una stanza d’ospedale. Per sei mesi abbiamo vissuto nel reparto oncologico…
Leggeva poco. Più che altro raccontava…
Sapeva chi l’aveva denunciato. Un ragazzo… che faceva parte del suo stesso circolo alla Casa dei pionieri. Forse l’aveva scritta lui stesso la lettera o forse l’avevano costretto a farlo, dicendo che Gleb insultava il compagno Stalin e difendeva il padre, un ‘nemico del popolo’. L’inquirente durante l’interrogatorio gli aveva mostrato questa lettera. E Gleb ha temuto per tutta la sua vita… che il suo delatore venisse a sapere che lui era al corrente… Quando era venuto a sapere che a questi era nato un bambino con dei problemi, aveva pensato con terrore: e se fosse un castigo? Poi si è scoperto che per un certo periodo avevano abitato nel suo stesso quartiere e si erano incontrati spesso per strada. Nei negozi. Salutandosi. Quando Gleb è morto l’ho raccontato a una nostra comune amica. Lei non voleva crederci: ‘Ti riferisci a N.? Non è possibile, parlava sempre bene di Gleb, diceva che erano amici fin dall’infanzia.’ Avevo capito di dover tacere. Be’, è così… Per una persona sapere certe cose è pericoloso… e lui lo sapeva… Gli ex internati nel lager venivano di rado a trovarci, né lui cercava la loro compagnia. Quando si presentavano a casa nostra io mi sentivo un’estranea, arrivavano da un luogo e un tempo in cui io ancora non esistevo. Conoscevano Gleb più di quanto lo conoscessi io. Scoprivo che lui aveva avuto anche un’altra vita… Avevo capito che per una donna è più facile che per un uomo raccontare le proprie umiliazioni, perché una donna da qualche parte nel profondo è preparata all’idea della violenza, e l’atto sessuale stesso è in sostanza una violenza… Ogni mese una donna ricomincia una nuova vita… con il suo ciclo… È la natura stessa ad aiutarla. Tra le ex detenute nei lager, c’erano molte donne sole. Di rado ho visto delle coppie dove entrambi, l’uomo e la donna, provenivano da là. Quel segreto più che unirli, li separava. Gli ex lagerniki rivolgendosi a me, mi chiamavano ‘bambina’.
‘Non ti annoia la nostra compagnia?’ mi chiedeva Gleb quando gli ospiti se ne andavano. ‘Ma che domande mi fai?’ dicevo io in tono offeso. ‘Sai, qual è il mio timore? Che quando c’era dell’interesse noi eravamo imbavagliati e ora che saremmo liberi di raccontare ogni cosa, ormai nessuno ci ascolta più. Non ci legge. Quando gli editori ricevono nuovi manoscritti sui lager li restituiscono senza leggerli: ‘Di nuovo Stalin e Berija? Non si vendono più. Ormai il lettore ha fatto il pieno.’
… era abituato a morire… Quel trascurabile evento non lo spaventava… I capisquadra malavitosi14 vendevano le loro razioni di pane, se le giocavano a carte e loro mangiavano il bitume. Il bitume nero. Molti morivano, il bitume s’incollava alle pareti dello stomaco. Lui aveva semplicemente smesso di mangiare, beveva soltanto.
… un ragazzino si era messo a correre… l’aveva fatto apposta per farsi sparare… Sulla neve… sotto il sole… La visibilità era perfetta. Gli avevano sparato alla testa e l’avevano trascinato con una corda e lasciato davanti a una baracca perché tutti lo vedessero. L’avevano lasciato lì a lungo… fino a primavera…
… il giorno delle elezioni… Si erano esibiti in un concerto al seggio elettorale. Un coro di detenuti del lager. Prigionieri politici, soldati dell’Armata di Vlasov, prostitute e borsaioli stavano in piedi e cantavano una canzone su Stalin: ‘Stalin sei la nostra bandiera! / Stalin sei la nostra fortuna.’
… in un campo di transito aveva incontrato una ragazza. Lei gli aveva raccontato quel che le aveva detto l’inquirente per convincerla a firmare il verbale: ‘Certo, lì è un inferno… Ma bella come sei, piacerai a qualche capo e così riuscirai a salvarti.’
… la primavera era la stagione peggiore. Perché tutto nella natura si trasformava… ricominciava a vivere… richiamava la vita. Meglio non chiedere a nessuno in primavera quanto gli restava ancora da scontare. La primavera fa sembrare qualsiasi pena interminabile! Volano gli uccelli, ma nessuno alza la testa. Nessuno guarda il cielo in primavera…
Mi sono voltata indietro sulla soglia: lui mi ha salutato con la mano. Quando sono tornata dopo qualche ora, delirava. Pregava qualcuno: ‘Aspetta, aspetta!’ Poi ha smesso di parlare ed è rimasto immobile. Per altri tre giorni. Anche a questo avevo fatto l’abitudine. Ecco, lui se ne sta lì disteso e io sono qui viva accanto a lui… Mi hanno messo un letto vicino al suo. Il terzo giorno… Era ormai difficile fargli delle iniezioni intramuscolari… Aveva dei trombi nelle vene… Dovevo autorizzare i medici a sospendere le cure, non avrebbe sofferto, non avrebbe sentito più nulla. Siamo rimasti noi due da soli. Senza apparecchiature, senza medicine, nessuno passava più a visitarlo. Mi sono distesa accanto a lui. Faceva freddo. Mi sono stretta a lui sotto la coperta e mi sono addormentata. Quando mi sono svegliata… per un istante mi è sembrato che fossimo nella nostra casa, con la porta del balcone spalancata… e che lui non si fosse ancora svegliato… Avevo paura di riaprire gli occhi… li ho aperti e mi sono rammentata di tutto… Ho cominciato ad agitarmi… Mi sono alzata, gli ho appoggiato le mani sul viso: ‘Aaah…’ Mi aveva sentito. Era cominciata l’agonia… E gli sono rimasta accanto, tenendogli la mano… Ho sentito l’ultimo battito del suo cuore. Ho aspettato ancora a lungo prima di chiamare l’infermiera e lei mi ha aiutato a mettergli una camicia azzurra, il suo colore preferito. Le ho chiesto: ‘Posso restare ancora un po’?’ – ‘Sì, certo, ma non ha paura?’ Di cosa dovevo avere paura? Lo conoscevo… come una madre conosce il proprio bambino… Verso il mattino era diventato bello… Dal suo volto era scomparsa la paura, si era sciolta la tensione, tutto l’affanno della vita. E mi sono resa conto che aveva dei tratti fini, eleganti. Era il volto di un principe orientale. Ecco com’era davvero! Così non l’avevo mai conosciuto.
Aveva un unico desiderio: ‘Scrivi sulla mia lapide che sono stato una persona felice. Che sono stato amato. La più terribile delle sofferenze è non essere amati.’ (Tace.) Com’è breve la nostra vita… Non dura che un istante! Osservo lo sguardo della mia vecchia mammina quando la sera fissa il buio del giardino… lo guarda con certi occhi…
(Restiamo sedute a lungo in silenzio.)
Non posso… non ce la faccio a vivere senza di lui… Mi fanno di nuovo la corte. Mi regalano dei fiori.”
L’indomani… una telefonata imprevista.
“Ho passato tutta la notte a piangere… a gemere dal dolore… Avevo cercato di fuggire da tutto questo, di andarmene altrove, di allontanarmi… Sono sopravvissuta per miracolo e avevo cominciato a uscirne… Ma ieri sono tornata di nuovo lì… Mi ci hanno riportato i troppi ricordi… Camminavo tutta avvolta nelle bende, me le sono tolte, ma ho scoperto che nessuna delle ferite si è rimarginata. Pensavo che fosse ricresciuta la nuova pelle, ma non è così. Le ferite sono ancora aperte. Niente si è rimarginato. È tutto come prima… tutto il passato… e non posso metterlo nelle mani di qualcuno… Nessuno sopporterebbe questo fardello. Nessuno riuscirebbe a tenerlo tra le mani…