UNA STORIA AL FEMMINILE

“Voglio raccontarle la mia storia d’amore… I tedeschi erano entrati nel nostro villaggio a bordo di grossi autocarri. Di loro si vedeva solo il luccichio degli elmetti. Erano giovani, allegri. Pizzicavano le ragazze. I primi tempi pagavano per tutto: per i polli, per le uova. Quando lo racconto nessuno mi crede, ma è la pura verità. Pagavano in marchi tedeschi… Che m’importava della guerra? Ero innamorata. Solo una cosa avevo in mente: il momento in cui l’avrei rivisto. Sarebbe arrivato, ci saremmo seduti insieme sulla panchina e mi avrebbe fissato negli occhi, sorridendo. ‘Perché sorridi?’ ‘Mah, così.’ Prima della guerra eravamo stati compagni di scuola. Suo padre era morto di tubercolosi e suo nonno era stato deportato con la famiglia in Siberia come kulak. Rammentava di quando sua madre da bambino lo vestiva da femmina e gli spiegava che se fossero venuti per arrestarli, lui avrebbe dovuto correre in stazione, salire sul primo treno e andarsene. Si chiamava Ivan… E lui mi chiamava sempre ‘la mia Ljubočka …’ Solo così… Non abbiamo vissuto sotto una buona stella e non abbiamo mai conosciuto la felicità. Sono venuti i tedeschi e presto è tornato anche il nonno. Incattivito, certo. Era tornato da solo, dopo aver sepolto tutta la sua famiglia in terra straniera. Raccontava di come li avevano condotti lungo i fiumi siberiani e scaricati nella tajga più profonda. A venti, trenta persone lasciavano solo una sega e un’ascia. Si erano nutriti di foglie… Rosicchiavano la corteccia degli alberi… Il nonno detestava i comunisti! E anche Lenin e Stalin! Fin dal primo giorno ha cominciato a vendicarsi. Indicava uno per uno i comunisti ai tedeschi e i luoghi in cui si riunivano… Per tanto tempo non sono riuscita a capire la guerra…

Laviamo insieme il cavallo sulla riva del fiume. Il sole brilla! Spargiamo insieme l’erba tagliata per farla seccare, ha un profumo così buono… Non conoscevo certe cose, non avevo mai provato prima niente del genere. Ero una ragazza semplice, ordinaria, finché non mi sono innamorata. Mi capitava di fare un sogno premonitore… Il nostro è un fiume abbastanza piccolo. Sto per annegare, una corrente sotterranea mi trascina, sono già sott’acqua. Qualcuno, non so come, mi afferra, spingendomi in superficie, ma chissà perché addosso non ho nulla. Nuoto verso la riva. Era notte e ora è già mattino. Sulla riva si è raccolta della gente, c’è tutto il nostro villaggio. Esco dall’acqua nuda… completamente nuda…

In una casa tenevano un grammofono e i giovani si ritrovavano lì. Divinavano il futuro in vari modi: lanciando le scarpe fuori dalla porta, cercandolo nel Libro dei Salmi o nella resina, o ancora nei fagioli… Nella resina si prediceva che la ragazza doveva andare da sola nel bosco e cercare un vecchio pino. Un pino giovane non era adatto perché era senza memoria e senza forza. È tutto vero… Ci credo anche oggi… I fagioli li dividevamo in mucchietti e contavamo: pari, dispari… Avevo diciotto anni… Lo ripeto ancora una volta… Di queste cose non si parla nei libri… Sotto i tedeschi vivevamo meglio che sotto il potere sovietico. I tedeschi avevano riaperto le chiese, liquidato i kolchoz e distribuito la terra: due ettari a persona e un cavallo ogni due proprietari. Avevano introdotto un’imposta in natura uguale per tutti: in autunno consegnavamo il grano, i piselli, le patate e un maialetto a famiglia. E ci restava ancora qualcosa. Eravamo soddisfatti. Sotto il potere sovietico vivevamo in miseria. Il brigadiere segnava con un’asta nel quaderno le giornate lavorate. In autunno per queste giornate non avevi diritto a un fico secco! E invece ora avevamo carne e burro. Era tutta un’altra vita! Le persone erano contente di essere libere. I tedeschi avevano introdotto le loro regole… Se non avevi dato da mangiare al cavallo venivi preso a staffilate. Se non avevi spazzato davanti a casa… Ricordo che la gente diceva: ci siamo abituati ai comunisti, ci abitueremo anche ai tedeschi. Impareremo a vivere alla tedesca. Così andavano le cose… Si è tutto impresso nella mia memoria… Di notte temevamo gli ‘uomini della foresta’ che si presentavano all’improvviso, senza essere invitati. Una volta sono venuti anche da noi: uno con un’ascia e l’altro con un forcone: ‘Mammina, dacci del lardo e del samogon.13 E non far storie.’ Le racconto le cose così com’erano e non come le descrivono nei libri. I primi tempi, i partigiani non li amava nessuno…

Avevamo fissato il giorno delle nostre nozze… Dopo la festa del raccolto quando i lavori nei campi sono finiti e le donne adornano l’ultimo covone con ghirlande di fiori… (Tace.) La memoria si indebolisce, ma l’anima ricorda tutto… Dopo pranzo aveva iniziato a piovere. Tutti erano corsi via dai campi, e anche mia madre era rientrata. In lacrime. ‘Mio Dio! Mio Dio! Il tuo Ivan si è arruolato nella polizia. Sarai la moglie di un Polizei.’ Io e mamma ci mettiamo a piangere insieme. La sera Ivan ritorna e si siede senza alzare gli occhi. ‘Ivan, caro… non hai pensato a noi?’ ‘Ljubka… Mia Ljubočka…’ Era stato il nonno a costringerlo. Quel vecchio demonio! L’aveva intimorito: ‘Se non ti arruoli nella polizia, ti spediranno in Germania e non rivedrai più la tua Ljubka! Puoi scordartela!’ Il nonno sognava di farlo fidanzare con una tedesca… I tedeschi ci avevano mostrato dei film sulla Germania, sulla bella vita che si faceva da quelle parti. In molti, ragazze e ragazzi, ci avevano creduto. E partivano. Prima della partenza avevano organizzato una festa con la fanfara. Le ragazze partivano con indosso le scarpette della festa… (Estrae delle compresse dalla borsa.) La mia salute va male… I dottori dicono che le medicine ormai non servono più… Morirò presto… (Tace.) Voglio che il mio amore mi sopravviva. Quando non ci sarò più la gente potrà comunque leggere di me…

Intorno a noi divampava la guerra, ma noi eravamo felici. Abbiamo passato un anno insieme, vivendo come marito e moglie. Ero incinta. La stazione ferroviaria era vicinissima alla nostra casa. Prima nei convogli carichi di tedeschi diretti al fronte i soldati erano tutti giovani e allegri. Cantavano a squarciagola delle canzoni. Quando ci vedevano gridavano al nostro indirizzo: ‘Mädchen! Kleines Mädchen!’ Ridevano. Poi però i giovani erano diventati sempre meno numerosi rispetto agli anziani. Prima le tradotte erano allegre, adesso cupe e silenziose. L’esercito sovietico stava vincendo. Ho domandato a Ivan: ‘Che ne sarà di noi?’ E lui: ‘Non mi sono sporcato le mani di sangue. Non ho mai ammazzato nessuno.’ (Tace.) I miei figli non lo sanno, non ho mai confidato loro nulla di tutto questo. Forse quando sarò vicina alla fine… prima di morire… allora gli dirò: ‘L’amore è come un veleno.’

A due case di distanza da noi viveva un altro ragazzo a cui piacevo, m’invitava sempre a ballare. Ballava solo con me. ‘Ti accompagno…’ ‘Ho già un accompagnatore.’ Un bel ragazzo… Se n’era andato nei boschi e si era unito ai partigiani. Chi l’aveva visto, diceva che portava un colbacco con un nastro rosso. Una notte bussano alla porta: ‘Chi è?’ domando. ‘I partigiani.’ Entrano in due, quel ragazzo con un altro più vecchio. Il mio ex spasimante mi dice: ‘Allora, come va, piccola Polizei? Era da tanto che desideravo farti visita. E il tuo maritino dov’è?’ ‘Come faccio a saperlo? Oggi non è rientrato. Sarà dovuto rimanere in caserma.’ Di colpo mi afferra per un braccio e mi getta contro il muro: ‘Bambola tedesca… puttana fottuta… Ti sei scelta un lacché dei tedeschi, uno della razza dei kulaki e con me fai la verginella.’ E fa per estrarre la pistola da sotto la giacca. La mamma gli si getta ai piedi: ‘Su, sparate, ragazzi, sparate. Io sono cresciuta con le vostre mamme. Che piangano un po’ anche loro!’ Le parole della mamma avevano fatto effetto. Hanno confabulato un po’ e sono andati via. (Tace.) L’amore è qualcosa di veramente amaro…

Il fronte si avvicinava sempre più. Di notte si potevano sentire i colpi di cannone. Ed era notte quando si sono ripresentati. ‘Chi è?’ ‘I partigiani.’ Entra il mio corteggiatore… accompagnato da un altro… Mi indica la pistola: ‘Ecco, con questa ho ammazzato tuo marito.’ ‘No, non è vero! Non è vero!’ ‘Ora non hai più un marito.’ Avrei voluto ucciderlo, cavargli gli occhi… (Tace.) E la mattina dopo mi hanno riportato il mio Ivan… Su una slitta… Disteso sul suo pastrano… Aveva gli occhi chiusi e il volto di un bambino. Lui che non aveva mai ucciso nessuno… Io credevo alle sue parole e ci credo tuttora! Mi sono rotolata sul pavimento, urlando. Mia madre aveva paura che il mio cervello rimanesse danneggiato, che avrei messo al mondo un bambino morto o anormale ed è corsa dalla guaritrice. La vecchia Stasja. Stasja le ha detto: ‘So della tua sventura, ma in questo caso non posso far niente. Tua figlia deve chiedere aiuto a Dio.’ E le ha spiegato come fare… Quando avrebbero portato a seppellire Ivan, io non avrei dovuto seguire la bara, come fanno tutti, ma precederla. Fino al cimitero. E attraversare così tutto il villaggio… Verso la fine della guerra molti uomini avevano raggiunto ormai i boschi e si erano uniti ai partigiani. Ogni casa aveva un morto. (Tace.) Camminavo… La Polizei accompagnava la bara… E io camminavo davanti, la mamma dietro. Erano usciti tutti dalle case e restavano lì sul cancello, senza dire una parola. Guardavano e piangevano.

Erano tornati i sovietici… Quel ragazzo è venuto a cercarmi… Era venuto a cavallo: ‘S’interessano a te.’ ‘Chi?’ ‘Come, chi? Gli organi.’ A me ormai era indifferente come morire. ‘Mi spediscano pure in Siberia!’ ‘Che razza di madre sei? Non pensi al tuo bambino?’ ‘Ma tu sai bene di chi è…’ ‘Sono disposto a sposarti così come sei.’ E l’ho sposato. Ho sposato l’assassino di mio marito. Gli ho dato una bambina… (Piange.) Lui ha voluto bene a entrambi, allo stesso modo, sia a mio figlio che alla sua bambina. Riguardo a questo non posso dire niente di male su di lui. Ma io… io me ne andavo in giro coperta di lividi, gli occhi pesti. La notte mi picchiava e il mattino strisciava ai miei piedi, implorando il mio perdono. Impazziva di gelosia… Era geloso del defunto… Il mattino quando ancora la gente dormiva, io ero già in piedi. Dovevo alzarmi prima che lui si svegliasse… e che potesse abbracciarmi… La notte, quando tutte le luci venivano spente, io ero ancora in cucina… Le mie pentole risplendevano. Aspettavo che lui si addormentasse. Abbiamo vissuto insieme così per quindici anni e poi lui si è ammalato gravemente e di lì a poco, un autunno, è morto. (Piange.) Io non ho colpe… Non gli ho mai augurato di morire. Era ormai alla fine… Era coricato con la faccia contro la parete e si è girato di scatto verso di me: ‘Mi hai mai amato?’ Sono rimasta in silenzio. È scoppiato a ridere, come quando quella notte mi aveva mostrato la pistola… ‘Io invece ho amato solo te, tutta la vita, al punto che quando ho saputo di dover morire volevo ucciderti. Ho chiesto a Jaška (il nostro vicino conciatore di pelli) del veleno. Non posso sopportare l’idea di dover morire e che tu possa avere qualcun altro. Sei così bella!’

Nella bara sembrava ridesse… Avevo paura ad avvicinarmi troppo. Ma dovevo baciarlo.”14

(Cantano in coro.) “Sorgi mio immenso paese, / È giunta l’ora della battaglia mortale… / Che una giusta collera si levi, come un’onda. / È l’ora della guerra di popolo, / della guerra santa…”15

“Ce ne andiamo col risentimento nel cuore…”

“Ho detto a mia figlia che quando morirò, voglio che ci sia solo della musica, e nessun discorso.”

“Dopo la guerra i prigionieri tedeschi si trascinavano carichi di pietre nei cantieri. Ricostruivano la città. Affamati, mendicavano il pane. E io non potevo darne loro neppure un tozzo. Ogni tanto mi torna in mente… Ripenso proprio a questo… È strano come certe cose si conservino nella memoria…”

Sul tavolo erano disposti dei fiori e un grande ritratto di Timerjan Zinatov. Ho avuto per tutto il tempo l’impressione di udire anche la sua voce nel coro come se lui fosse lì con noi.

Tempo di seconda mano: La vita in Russia dopo il crollo del comunismo
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