STORIA DI UN’INFANZIA
Marija Vojtešonok, scrittrice, 57 anni
“Sono una osadnica. Sono nata nella famiglia di un ufficiale polacco deportato in URSS. Il termine polacco osadniki designava i coloni che nel 1921, finita la guerra sovietico-polacca, avevano ricevuto dal loro governo un appezzamento da coltivare nei ‘territori orientali’. Nel 1939, però, in forza del protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop, la Bielorussia Occidentale è stata inglobata nell’URSS e migliaia di coloni sono stati mandati in Siberia con le loro famiglie come ‘elementi politicamente pericolosi’15 (così li definisce Berija in un rapporto a Stalin). Ma questa è la grande storia, mentre io ho la mia… personale… piccola storia da raccontare.
Non so in che giorno sono nata… e neppure in che anno… Tutto quello che mi riguarda è approssimativo. Non ho trovato nessun documento. Esisto e non esisto. Non ricordo nulla e ricordo tutto. Credo che la mamma fosse incinta di me quando è partita. Perché? Il fischio della locomotiva risveglia sempre in me un turbamento profondo… come l’odore delle traversine… e gente che piange in stazione… Posso viaggiare su un bel treno moderno, ma se di fianco sento sferragliare un merci non riesco a trattenere le lacrime. Non posso vedere i carri bestiame, sentire i muggiti degli animali… Ci hanno trasferiti con quei vagoni. Io non c’ero ancora. Eppure c’ero. Io non sogno mai volti… storie… nei miei sogni ci sono solo suoni… odori…
Regione dell’Altaj. Città di Zmeinogorsk, fiume Zmeevka… I deportati li scaricano fuori città. Vicino al lago. Cominciamo a vivere nella terra. In rifugi scavati nella terra. Io sono nata sottoterra, sono cresciuta lì. Da quando ero piccola l’odore della terra per me è l’odore di casa. Dal soffitto gocciola qualcosa, si stacca un grumo di terra, cade al suolo e salta verso di me. Una rana. Ma io sono piccola e non so ancora di cosa bisogna aver paura. Dormo con due caprette, su un caldo tappeto di ‘piselli’ di capra… La mia prima parola è stata ‘me-e-e’… i miei primi suoni… e non ‘ma’… ‘mamma’… La mia sorella maggiore, Vladja, si ricorda di quanto mi stupivo che le caprette non parlassero come noi. Ero sconcertata. Mi sembravano uguali a noi. Il mondo era uno solo, senza divisioni. E ancora adesso non avverto questa differenza tra noi, tra uomini e animali. Parlo sempre con loro… e loro mi capiscono… E maggiolini, e scarabei e ragnetti… Erano lì anche loro… scarabei colorati e cangianti. I miei giocattoli. In primavera uscivamo insieme al sole, strisciavamo per terra, in cerca di un po’ di cibo. Ci riscaldavamo. E d’inverno loro morivano, come gli alberi, e cadevano in letargo per la fame. Avevo la mia scuola e a insegnarmi non erano solo gli uomini. Sentivo gli alberi e l’erba. Più di tutto il resto al mondo mi interessano gli animali, mi interessano davvero. Come staccarsi da quel mondo… da quegli odori… Non ci riesco. Ed ecco finalmente il sole! L’estate! Sono fuori… in mezzo a una bellezza abbagliante e nessuno che prepari da mangiare per qualcuno. Tutto vibra di suoni, risplende di colori. Assaggio tutti i fili d’erba, tutte le foglioline… i fiorellini… tutte le radici… Una volta ho assaggiato il giusquiamo, per poco non morivo. Ho un sacco di immagini nella memoria… Ricordo la montagna Sinjaja Boroda, “Barbablù”, e la luce che la illuminava… La luce blu scendeva proprio a sinistra, lungo il fianco, dall’alto verso il basso… Era un vero spettacolo! Temo di non avere abbastanza talento per riuscire a rendere i dettagli con efficacia. Ricrearli. Le parole sono solo un’aggiunta alle nostre emozioni. I papaveri rossi, i gigli, le peonie… Tutto mi si spalancava davanti agli occhi. Sotto i piedi. Un’altra scena… Sono seduta vicino a una casa. Sul muro corre una macchia di sole… è di diversi colori… cambia in continuazione. Me ne sto seduta così molto a lungo. Se non ci fossero stati quei colori, probabilmente sarei morta. Non sarei sopravvissuta. Non ricordo che cosa mangiavamo… e se avessimo mai del vero cibo da mangiare…
La sera vedevo arrivare degli uomini neri. Con i vestiti neri, le facce nere. Erano i deportati che tornavano dalla miniera… assomigliavano tutti a mio padre. Non sapevo se mio padre mi voleva bene. Se c’era qualcuno che mi volesse bene…
Ho pochissimi ricordi… E mi mancano. Cerco nel buio, mi sforzo di individuare ancora qualcosa. Di rado… molto di rado all’improvviso mi torna alla mente un dettaglio di cui avevo perso il ricordo. È un sentimento amaro, questo del ricordo ritrovato, ma anche felice. Molto.
Dell’inverno non riesco a ricordare quasi niente… D’inverno rimanevo tutto il giorno nel rifugio sottoterra. Il giorno era uguale alla sera. Un eterno crepuscolo. Senza una macchia di colore… Avevamo degli oggetti, a parte le scodelle e i cucchiai? Nessun vestito… per vestirci ci coprivamo in qualche modo con degli stracci. Nessuna nota di colore. Scarpe… Ma quali scarpe? Galosce… ricordo le galosce… avevo le stesse galosce, grandi e vecchie, che portava la mamma. Probabilmente erano state sue… Il primo cappotto me l’avrebbero dato all’orfanotrofio, come i primi guanti. E il berretto. Nel buio si distingue a malapena il viso bianco di Vladja… Per giorni interi rimane distesa e continua a tossire, si è ammalata in miniera, ha la tubercolosi. Conosco già questa parola… La mamma non piange… Non ricordo di aver mai visto la mamma piangere, parlava poco, e a un certo punto credo abbia smesso del tutto. Quando la tosse le lascia un po’ di respiro, Vladja mi chiama: ‘Ripeti con me… È Puškin.’ Io ripeto: ‘Gelo e sole, giornata mirabile! E tu sonnecchi, o mia adorabile!’16 E mi immagino l’inverno. Quello di Puškin.
Sono schiava della parola… alla parola credo in modo assoluto… Mi aspetto sempre che una persona mi parli, anche uno sconosciuto, anzi da uno sconosciuto me l’aspetto a maggior ragione. Come se anch’io volessi parlare… e fossi decisa… pronta. Ma poi quando mi metto a raccontare a qualcuno e arrivo al punto cui più tenevo, non trovo più nulla. Il vuoto assoluto, perdo tutti quei ricordi. Una voragine, all’istante. E devo aspettare chissà quanto prima che ritornino. Per questo non parlo. Rielaboro tutto dentro di me. Passaggi, labirinti, tane…
Pezzetti di stoffa… chissà da dove sono arrivati quei piccoli scampoli colorati, molti sono color lampone. Qualcuno me li ha portati. Con quei pezzetti di stoffa ho cucito dei piccoli pupazzi, mi sono tagliata delle ciocche di capelli e gliele ho applicate. Erano le mie amichette… Bambole non ne avevo mai viste, non sapevo nemmeno che esistessero. Vivevamo già in città, ma non in una casa, in una cantina. Con un solo finestrino, cieco. Ma avevamo già conquistato un indirizzo: via Stalin, numero diciassette. Come gli altri, come tutti… avevamo anche noi un indirizzo. Giocavo con una bambina… la bambina non veniva dalla cantina, ma da una casa. Aveva scarpine e vestitini. E io le galosce della mamma… Le ho portato i miei pezzetti di stoffa, fuori sembravano ancora più belli che in cantina. La bambina ha cominciato a chiedermeli, voleva scambiarli con qualche altra cosa. Ma io, non li avrei dati per niente al mondo! Arriva suo padre: ‘Non giocare con quella accattona,’ dice. Capisco che mi hanno presa e messa da una parte. Devo andarmene in silenzio, andarmene subito da quel posto. Naturalmente queste sono già parole da adulta, non da bambina. Ma la sensazione… quella sensazione me la ricordo… Ti fa così male che non senti più né l’offesa, né la pena per te stessa, all’improvviso hai tanta tanta libertà. E non provi alcuna pena per te stessa… Se continui a compiangerti significa che non ti sei ancora guardata abbastanza nel profondo, e non ti sei affrancata dagli altri. Se invece hai fatto il passo decisivo, puoi dimenticare gli altri e bastare a te stesso. Io ho guardato troppo nel profondo… Offendermi è difficile. Piango raramente. Trovo ridicoli i nostri guai quotidiani, i rancori femminili… Per me è come uno show… lo show della vita… Ma quando sento piangere un bambino… non passo mai vicino a un povero… Mai. Mi ricordo quell’odore, l’odore della disgrazia… Ne avverto l’alito, sento che mi riguarda tuttora. È l’odore della mia infanzia. Del mio bozzolo.
Cammino di fianco a Vladja… portiamo uno scialle di lana molto soffice… Un bell’oggetto che appartiene a un altro mondo. Un ordine da consegnare. Vladja sa lavorare a maglia, è di questo che viviamo. La donna paga Vladja e poi dice: ‘Se aspettate recido qualche fiore da portare a casa.’ Come, dei fiori per noi? Stiamo lì impalate come due mendicanti, vestite di tela di sacco… affamate, piene di freddo… E proprio a noi regalano dei fiori! Pensavamo sempre solo al pane e questa persona ha intuito che eravamo in grado di pensare anche ad altro. Te ne stai rinchiuso, murato e qualcuno ti apre una finestrella… ti spalanca la finestra… Allora, c’è ancora qualcosa oltre al pane… oltre al cibo… possono darci anche un mazzo di fiori! Dunque non siamo diverse dagli altri. Siamo come loro… Era una violazione delle regole: ‘Aspettate che vi taglio qualche fiore.’ Non lo colgo, o lo raccolgo, ma lo recido dal mio giardino. Da quel momento… In qualche modo quella è stata la mia chiave… mi hanno dato una chiave… Questo gesto mi ha sconvolto… Ricordo quel mazzo… un grande mazzo di astri… Nella dacia adesso li pianto sempre. (Siamo per l’appunto nella sua dacia. È tutto pieno di alberi e fiori.) Recentemente sono stata in Siberia… A Zmeinogorsk…17 sono tornata là… Ho cercato la nostra via… la nostra casa… la nostra cantina… La casa non c’è più, l’hanno abbattuta. Ho chiesto a tutti se qualcuno si ricordava… Un vecchietto si è rammentato che sì, in quella cantina viveva una bella ragazza, che era malata. La gente ricorda più facilmente la bellezza della sofferenza. Anche i fiori ce li hanno regalati perché Vladja era bella.
Sono andata al cimitero… Proprio all’ingresso c’è la casetta del guardiano con le finestre sbarrate. Busso a lungo. Alla fine esce il guardiano, è cieco… Che sia un segno? ‘Mi scusi, dove sono sepolti i deportati?’ ‘Ah… di là… di là…’ e con la mano fa segno un po’ in su e un po’ in giù. Passa qualcuno che mi guida nell’angolo più remoto del cimitero… C’è solo erba… solo erba… La notte non ho dormito, mi mancava il fiato. Un crampo… come se qualcuno mi soffocasse… Sono scappata dall’albergo, sono andata in stazione. A piedi, attraverso la città deserta. La stazione era chiusa. Mi sono seduta lungo le rotaie e ho aspettato il mattino. Sulla scarpata c’erano un ragazzo e una ragazza. Si baciavano. Poi si è fatto giorno. È arrivato il treno. Un vagone vuoto… Saliamo: io e quattro uomini con le giacche di pelle, le teste rasate, come dei criminali. Mi hanno offerto pane e cetrioli. ‘Vuole giocare a carte?’ Non ho avuto paura.
Da poco mi è tornato un ricordo… Ero in filobus e mi sono ricordata… Vladja che cantava: ‘Ho cercato la tomba dell’amata / Ma trovarla non è facile impresa…’18 Ho saputo che era la canzone preferita di Stalin… Quando qualcuno la cantava, lui piangeva… Ho subito smesso di amarla quella canzone. Venivano delle amiche da Vladja, la invitavano ai balli. Mi ricordo tutto… Avevo già sei o sette anni… Vedevo che nelle mutande le ragazze invece dell’elastico cucivano il fil di ferro. Perché fosse più difficile strapparle… C’erano solo ex deportati… anche criminali comuni. Spesso ammazzavano qualcuno. Anche dell’amore sapevo qualcosa. Da Vladja veniva un bel ragazzo, quando era malata, stava sdraiata su quei quattro stracci del letto, tossiva e lui la guardava in un modo…
È una storia dolorosa, ma è la mia. Non la rinnegherò mai… Non posso dire che ho accettato tutto, che sono grata di tutto questo dolore, ci vorrebbe un’altra parola. Adesso non la trovo. So che nella mia condizione sono lontana da tutti. Sono sola. Prendere la sofferenza nelle proprie mani, possederla completamente e uscirne, ricavandone qualcosa. È una tale vittoria, solo così trovi un significato. Non resti a mani vuote… Altrimenti a cosa sarebbe servito attraversare l’inferno?
Ecco, qualcuno mi conduce alla finestra: ‘Guarda, portano tuo padre…’ Una donna sconosciuta trascina qualcosa su una slitta. Qualcosa o qualcuno… avvolto in una coperta e legato con una corda… Poi io e mia sorella abbiamo sepolto la mamma. Siamo rimaste sole. Vladja aveva già cominciato a camminare male, le gambe non la reggevano più. Le si sfaldava la pelle come foglietti di carta. Qualcuno le ha portato un flaconcino… Pensavo fosse un medicinale e invece era un acido, non so quale. Un veleno. ‘Non avere paura…’, mi ha chiamato e mi ha teso il flaconcino. Voleva che ci avvelenassimo insieme. Io l’ho afferrato e sono corsa via per buttarlo nella stufa. Il vetro si è rotto… La stufa era fredda, da molto tempo non ci cucinavamo niente. Vladja si è messa a piangere: ‘Sei come il papà!’ Qualcuno e venuto a cercarci… Forse sono state le sue amiche… Vladja era già incosciente… Lei l’hanno portata all’ospedale e me all’orfanotrofio. Mio padre… Vorrei ricordarmelo, ma per quanto mi sforzi non riesco a vedere il suo viso, non lo trovo nella mia memoria. L’ho visto dopo, in una sua foto da giovane, a casa della zia. È vero… gli assomiglio… È il legame che ci unisce. Il papà si era sposato con una bella ragazza contadina. Di una famiglia povera. Voleva farne una signora, ma la mamma ha sempre portato in testa il fazzoletto, tirandoselo ben giù fino alle sopracciglia. Non era una signora. In Siberia il papà non ha vissuto con noi a lungo… se n’è andato con un’altra donna… E io ero già nata… Ero un castigo! Una maledizione! Nessuno aveva la forza di amarmi. Nemmeno la mamma aveva questa forza. Era tutto programmato nelle mie cellule: la sua disperazione, il suo risentimento… e il non amore… L’amore mi manca sempre, anche quando c’è non riesco a crederci, ho bisogno continuamente di dimostrazioni. Di segni. Ne ho bisogno ogni giorno. Ogni minuto. Mi è difficile amare qualcuno… lo so… (Rimane in silenzio.) Amo i miei ricordi… amo i miei ricordi perché lì sono tutti vivi e veri. Lì li ho ancora tutti: la mamma… il papà… Vladja… Il tavolo in casa mia deve assolutamente essere lungo. Con la tovaglia bianca. Vivo da sola, ma in cucina ho un grande tavolo. Forse, perché sono ancora tutti con me… Magari sto camminando e ripeto un gesto che non è mio. Appartiene a qualcun altro… a Vladja… o alla mamma… Mi sembra di sfiorare le loro mani…
Sono all’orfanotrofio… All’orfanotrofio gli orfani dei deportati li tengono fino ai quattordici anni, poi li mandano in miniera. E a diciotto anni hanno la tubercolosi… come Vladja. È un destino. Vladja diceva che in qualche luogo, lontano, c’era la nostra casa. Ma molto molto lontano. Lì era rimasta la zia Marylja, la sorella della mamma… Una contadina analfabeta. E lei si era data da fare, aveva chiesto in giro. Qualcuno aveva scritto le domande per lei. Ancora adesso non capisco come ci sia riuscita… Come ha fatto? All’orfanotrofio è arrivato un ordine: spedirmi, insieme a mia sorella a un certo indirizzo. In Bielorussia. La prima volta non siamo riuscite ad arrivare a Minsk, a Mosca ci hanno fatte scendere dal treno. E si è ripetuta la stessa trafila: Vladja l’hanno mandata in ospedale – nel frattempo le era ricominciata la febbre – e me in corsia d’isolamento. Poi dall’isolamento in un centro di raccolta per bambini abbandonati. Un locale seminterrato che odorava di cloro. Estranei… Continuo a vivere in mezzo a estranei… Tutta la vita. E la zia scriveva… scriveva… Dopo sei mesi mi ha trovata. Ho sentito di nuovo le parole ‘casa’, ‘zia’… Mi portano al treno… Un vagone buio, le luci solo nel corridoio. Ombre. C’è un’educatrice con me. Siamo arrivate a Minsk e abbiamo preso un biglietto per Postavy… conoscevo tutti i nomi… Me ne aveva parlato Vladja: ‘Non dimenticarlo. Ricorda: il nostro podere si chiama Sovčino.’ Da Postavy andiamo a piedi a Grid’ki… il villaggio della zia… Ci sediamo a riprendere fiato vicino a un ponte. In quel momento passa in bicicletta uno del posto che aveva finito il turno di notte. Ci chiede chi siamo. Rispondiamo che cerchiamo la zia Marylja. ‘Sì, dice, siete sulla strada giusta.’ E poi deve aver detto alla zia che ci aveva viste… lei ci è corsa incontro… Io la vedo e dico: ‘Ecco la zia, assomiglia alla mia mamma.’ È tutto.
Rapata a zero, sono seduta su una lunga panca nella chata dello zio Stach, il fratello della mamma. La porta è aperta e dal vano vedo che arriva gente in continuazione… si fermano e mi guardano in silenzio… Sembra proprio un ritratto! Non si scambiano nemmeno una parola. Stanno lì in piedi e piangono. Senza parlare. Arriva tutto il villaggio… e accompagnano il mio fiume di lacrime, piangono tutti con me. Conoscevano tutti mio padre, qualcuno aveva lavorato per lui. Più di una volta poi ho sentito: ‘Nel kolchoz ci conteggiavano le giornate lavorate con asticelle o spunte segnate sul libretto,19 mentre Antek (mio padre) ci pagava sempre il dovuto.’ Eccola, la mia eredità. La nostra casa dal podere l’avevano trasportata nella parte centrale del kolchoz, ancora adesso è la sede del soviet rurale. Io conosco tutto degli uomini, anche più di quello che vorrei. Il giorno stesso in cui i soldati dell’Armata Rossa avevano caricato la nostra famiglia su un carro e ci avevano portati alla stazione, quella stessa gente… zia Azbeta… Juzefa… zio Matej… aveva portato via da casa nostra tutto quello che potevano. Anche le costruzioni più piccole si erano presi. Le avevano fatte scorrere su dei tronchi. E avevano scalzato gli alberi più giovani del nostro giardino. Dei piccoli meli. Era arrivata di corsa anche la zia… e aveva preso solo un vaso dal davanzale, per ricordo… Ma non voglio riesumare questi brutti ricordi. Li scaccio dalla memoria. Preferisco ricordare come tutto il villaggio mi ha accudito, portato in braccio. ‘Vieni da noi, Manečka, abbiamo l’intingolo coi funghi…’, ‘Vieni a bere un po’ di latte appena munto…’ All’indomani del mio arrivo mi si è riempita tutta la faccia di vescichette. Mi bruciavano gli occhi. Non riuscivo a sollevare le palpebre. Mi dovevano accompagnare a lavarmi tenendomi per mano. Tutto mi doleva, mi bruciava. Era come se dentro di me bruciassero le scorie della vita passata perché potessi guardare il mondo con altri occhi. Era il passaggio da una vita all’altra… Adesso camminavo per strada e tutti mi fermavano: ‘Che bella ragazzina! Ah, che bella!’ Senza quelle parole i miei occhi sarebbero stati quelli di un cane tirato fuori da un buco nel ghiaccio del fiume. Non so come avrei guardato la gente…
Lo zio e la zia vivevano in una baracca. La casa era bruciata durante la guerra. Avevano costruito quella baracca, per i primi tempi, pensavano, e poi erano rimasti lì. Il tetto di paglia, una finestrella. In un angolo dei ‘tuberini’ (così diceva la zia – non tuberi, ma ‘tuberini’), e nell’altro strilla un maialino. Non c’è un assito: la terra è coperta di canne e paglia. Di lì a poco hanno portato lì anche Vladja. Non è vissuta a lungo. Era contenta di morire a casa. Le sue ultime parole sono state: ‘Cosa sarà di Manečka?’
Tutto quello che so dell’amore l’ho imparato nella baracca della zia…
‘Passerottino mio…’ mi chiamava la zia. ‘Mia zanzarina… Apina mia…’ Io continuavo a parlottare e le stavo sempre intorno. Non potevo crederci… Qualcuno mi amava! Mi amava! Cresci, e c’è qualcuno che ti ama: è un tale lusso. Tutte le tue ossicine si rimettono a posto, tutti i tuoi muscoletti. Ballavo per lei, il ballo russo e quello della mela. Me li avevano insegnati in Siberia… Le cantavo delle canzoni… ‘C’è una strada nella terra di Čuj / Molti viaggiano per quella strada…’, ‘Morirò in una terra straniera / Piangerà la mia cara mamma, / La moglie trova un altro marito / Ma la mamma non può trovare un altro figlio…’ Corro tutto il giorno, ho i piedi blu ormai, tutti spellati, di scarpe non ne ho. La sera, quando vado a letto, la zia mi avvolge i piedini in un lembo della sua camicia da notte, per riscaldarmeli. Mi fascia. Me ne sto lì, contro la sua pancia, come nel grembo materno… Per questo non ricordo il male… L’ho dimenticato… si è nascosto da qualche parte dentro di me, ma lontano lontano… Al mattino mi svegliava la voce della zia: ‘Ho preparato i draniki.20 Mangia…’ – ‘Voglio dormire, zia.’ – ‘Prima mangia, e poi dormi.’ Capiva che per me il cibo… i bliny… erano una medicina. Frittelle e amore. Il nostro zio Vitalik invece era un mandriano, a tracolla aveva una frusta e un lungo zufolo di betulla; indossava giubbotto e calzoni militari. Dal pascolo ci portava sempre qualcosa: del formaggio, un pezzetto di lardo, tutto quello che gli avevano dato… Benedetta povertà! Per loro non aveva nessuna importanza, non li offendeva, non li umiliava. Come è importante per me tutto questo… com’è prezioso… Sento una che si lamenta: ‘Non ho i soldi per la macchina nuova…’, un’altra: ‘Ho sognato per tutta la vita la pelliccia di visone e non sono riuscita a comprarmela…’ Le sento come attraverso uno specchio… L’unica cosa che mi dispiace è che non posso più portare le gonne corte… (Ridiamo insieme.)
La zia aveva una voce particolare… un po’ tremula, come quella di Edith Piaf… La chiamavano a cantare ai matrimoni. E quando moriva qualcuno. Io ero sempre con lei… al suo fianco, trotterellando… Ho un ricordo… È in piedi davanti a una fossa… stiamo lì a lungo… A un certo punto si stacca da tutti gli altri e si avvicina alla fossa. Piano piano… Capisce che nessuno riesce a trovare le parole per l’ultimo saluto alla morta. Vorrebbero, ma non tutti ne sono capaci. E così comincia lei: ‘Eh, Anečka, dove te ne sei andata… hai abbandonato il bel giorno luminoso e la notte… chi baderà al tuo cortile adesso… chi bacerà i tuoi bambini… chi la sera andrà a recuperare la tua muccherella…’ Piano piano trova le parole… Parole di tutti i giorni, semplici, ma anche importanti. Tristi. C’è come un’ultima verità in queste parole disadorne. Una verità definitiva. La voce le trema… E tutti cominciano a piangere insieme a lei. Non pensano più alla vacca da mungere, o al marito ubriaco che è rimasto a casa. I volti cambiano, scompaiono gli affanni quotidiani, sui volti appare la luce. Tutti piangono. Io mi vergogno… e mi fa pena la zia… Tornerà a casa malata: ‘Ohi, Manečka, la testa mi ronza.’ Ma aveva un cuore fatto così… Corro a casa da scuola… La nostra finestrella, la zia sempre con l’ago in mano… Rammenda i nostri stracci e canta: ‘Il fuoco si spegne con l’acqua / L’amore non si spegne mai…’ Quando ci ripenso mi illumino tutta…
Del nostro podere… della nostra casa sono rimaste solo pietre. Ma io sento il loro calore, mi attirano ancora. Ci vado come su una tomba. Posso anche passare la notte lì, all’aperto. Faccio attenzione a come cammino, a dove metto i piedi… Le persone non ci sono più, ma la vita c’è ancora. Il rumore della vita… dei diversi esseri viventi… Cammino e ho paura di distruggere la casetta di qualcuno. E io stessa posso sistemarmi in un posto qualsiasi, come una formichina. Ho il culto della casa. Che ci siano dei fiori… che sia bella… Ricordo quando all’orfanotrofio mi hanno portato nella camera, dove avrei vissuto. I letti bianchi… Cerco con gli occhi: è libero il letto vicino alla finestra? Avrò un comodino mio? Cerco la mia casa.
Adesso… Da quanto stiamo qui sedute a parlare? Intanto è finito il temporale… è passata una vicina… ha suonato il telefono… Tutto questo ha influito su di me, ho risposto a tutte queste sollecitazioni. E sulla carta resteranno soltanto delle parole… Non ci sarà tutto il resto: non ci sarà la vicina, non ci sarà il telefono… quello che non ho detto, però è balenato nella mia memoria, c’è stato. Domani forse tutte queste cose le racconterò in modo diverso. Le parole resteranno lì, ma io mi alzerò e andrò avanti. Ho imparato a convivere con tutto questo. Ne sono capace. Vado avanti.
Chi mi ha dato questo? Tutto questo? Dio o gli uomini? Se è stato Dio, sapeva a chi darlo. La sofferenza mi ha fatto crescere… È la mia opera… La mia preghiera. Quante volte ho voluto raccontare tutto a qualcuno. E l’ho fatto. Ma nessuno mi ha mai chiesto, nemmeno una volta: ‘E poi? E poi cosa è successo?’ Mentre io ho sempre aspettato qualcuno, buono o cattivo che fosse, l’ho continuamente aspettato. Ho aspettato tutta la vita che qualcuno mi trovasse. Per potergli raccontare tutto… E che lui mi chiedesse: ‘E poi cosa è successo?’ Adesso hanno cominciato a dire che è colpa del socialismo… di Stalin… Come se Stalin avesse lo stesso potere di Dio. Ognuno aveva il suo Dio. Perché taceva? Mia zia… il nostro villaggio… Mi ricordo Marija Petrovna Aristova, un’insegnante bravissima, che veniva a trovare la nostra Vladja in ospedale a Mosca. Un’estranea… È stata lei a portarla al nostro villaggio, ce l’ha portata in braccio… Vladja ormai non camminava per niente… Marija Petrovna mi mandava matite, caramelle. Mi scriveva delle lettere. E nel centro di raccolta, quando mi hanno lavata e disinfettata… Sono sotto una cascata d’acqua… Avvolta nella schiuma, il terrore di scivolare, di fracassarmi sul cemento. Mi muovo piano piano, cerco di strisciare i piedi … Un’estranea… un’infermiera… mi afferra al volo e mi stringe a sé: ‘Uccellino mio, non aver paura.’
Ho visto Dio.”