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Rachel sta cercando di chiamare Kylie.
«Non c’è segnale», dice. «Comunque è al sicuro, grazie a Dio.»
Pete, però, è preoccupato. «Merda. Guarda qui.»
«Cosa?»
«L’ora del localizzatore satellitare.»
«Dio mio. Dice che è da nove ore nel negozio Adidas di Boston», osserva Rachel. «Ho capito cos’è successo. Ha comprato delle scarpe nuove, ha buttato via le vecchie e ha dimenticato il GPS.»
«Come avrebbero fatto a prenderla in pieno giorno in un centro commerciale? È impossibile», dice Pete.
Rachel è paralizzata.
Le sta crollando il mondo addosso.
Un’altra volta.
E questa volta è solo colpa sua. L’hanno avvisata. Le hanno detto di piantarla, e lei è andata avanti lo stesso con questo piano idiota.
Si sente mancare.
Le gira la testa.
Nausea.
Un conato secco.
I soliti pensieri. Brutta stronza, perché non sei morta prima? Sarebbe stato meglio per tutti.
Hanno preso la sua bella, innocente e meravigliosa bambina.
E la colpa è sua.
Idiota. Idiota. Idiota.
Ma adesso basta.
Si toglie il fucile dalla spalla. Individua la porta sul retro. Se è chiusa, farà saltare la serratura e ucciderà tutti quelli che sono dentro per liberare sua figlia.
Si toglie i fiocchi di neve dalla faccia e si dirige verso la casa.
«Dove vuoi andare?» le chiede Pete.
«A prendere Kylie.»
«Non sai quanti sono.»
«Non mi interessa. Tu sta’ pure qui. Io vado.»
Pete le afferra un braccio. «No. Ci andiamo in due. Ma tu aspetta qui due minuti mentre vado in ricognizione.»
«Vengo con te.»
Pete scuote la testa. «Il Marine sono io. Ho fatto queste cose molte volte.»
«Vengo con te.»
«Solo due minuti, okay? Prima fammi controllare.»
«Due minuti?»
«Due minuti. Ti faccio segno dalla veranda. Resta qui.»
Pete sa che sarebbe dovuto andare lì da solo. Che grande idea, portarsi dietro una donna malata di cancro.
Striscia in campo aperto fino alla tettoia dove sono parcheggiati cinque veicoli: una Mercedes bianca, una Mustang rossa, due pickup e una Toyota Corolla. In quella casa potrebbe esserci tanta gente. Supera le macchine stando basso. Un sensore fa accendere una luce di sicurezza, ma nessuno esce a controllare. Lì vicino c’è il portellone di un box, quella che sembra la porta d’ingresso e le finestre di una specie di soggiorno. Pete non può rischiare di passarci davanti, così torna indietro. Accanto al garage c’è una porta, chiusa, ma il portellone non è chiuso bene: in basso c’è uno spiraglio di un paio di centimetri. Pete si sdraia bocconi e ci infila sotto le dita. Se è un difetto di produzione sarà inutile, ma se è un cardine rotto...
Afferra il bordo con due mani e cerca di sollevarlo. Il portellone piano piano si alza.
Sta seguendo il protocollo dei Marines. Guerriglia urbana. Entri, neutralizzi quello che trovi, passi alla stanza successiva, livello dopo livello, finché la casa è sicura. Il numero di soggetti ostili è imprecisato, ma lui e Rachel hanno il fattore sorpresa dalla loro parte. Si alza e barcolla leggermente.
Oh, no.
La testa che gira.
La pelle in fiamme.
La fame.
Stamattina si è fottuto da solo. Proprio stamattina dovevi fare esperimenti con la tua dose, Pete?
Presto avrà milioni di formiche sulle gambe e le braccia, in bocca, in gola...
Smettila! ordina a se stesso. Subito!
Con che arroganza ha voluto giocare il ruolo dell’eroe. Nelle stesse condizioni Rachel avrebbe fatto un lavoro migliore. Devo tornare, pensa, e mentre si gira si trova davanti un uomo armato di fucile.
«Mi sembrava di avere sentito qualcosa», sta dicendo.
Pete pensa a una mossa, ma invece di pensare avrebbe dovuto agire. Una botta in testa con la torcia, una pedata alle ginocchia, il calcio del fucile in faccia. Uno in meno. Ma Pete non fa niente. È troppo lento. Non perché sia troppo vecchio o abbia perso la memoria muscolare; è troppo lento perché si è rovinato con l’eroina, l’ossicodone e ogni altro oppiaceo su cui è riuscito a mettere le mani.
E adesso Pete pensa ciò che aveva pensato Rachel. Idiota. Idiota. Idiota. Idiota e debole. L’uomo fa un passo in avanti e punta il fucile in faccia a Pete.
«Metti giù torcia e pistola», gli dice.
Pete molla la torcia e la Glock.
«Adesso, con due dita, estrai quella Colt dalla fondina e butta a terra anche quella.»
Pete estrae la preziosa .45 e lascia cadere anche quella sulla neve. Si sente nudo: quell’arma apparteneva a suo nonno. Sosteneva di averla usata per sparare contro un kamikaze che si stava abbattendo contro la sua corazzata durante la battaglia di Okinawa, e che era stata il suo portafortuna in Iraq e in Afghanistan.
«Merda», dice Pete.
«Esatto, bello, sei proprio nella merda. Daniel non ammette intrusi nella sua proprietà. E quando dico ’non ammette’, non vuol dire che intende chiamare la polizia. Mani dietro la testa.»
Pete obbedisce. «È un malinteso. Mi sono perso», dice, ma l’uomo gli intima di star zitto.
«Vedremo cosa dice Daniel. Oggi ci sono i suoi nipoti. Non penso che la cosa gli farà piacere. Adesso in ginocchio, e mani sempre dietro la testa.»
La guardia gli dà un calcio nella schiena e Pete cade.
Terra. Ghiaia. Neve.
Pete cerca di pensare a qualcosa. Ma non gli viene in mente nulla.
«E adesso stai giù, bello, mentre chiamo tutti quanti.»