Capitolo 38

Sto annegando.

La corrente del fiume mi sfianca. Ho perso di vista Mia. E se fosse già morta? La pioggia battente mi blocca la visuale. Ogni tanto intravedo le sagome scure degli alberi che ondeggiano sulla riva lontana. Ma non vedo lei.

È sparita. No, eccola, vedo la sua testa salire in superficie, il viso rivolto all’insù. No, non mollare. Mi lancio verso di lei, arrancando nell’acqua nera, ma la corrente mi trascina giù; ingoio diverse sorsate d’acqua mentre vado a fondo. I miei polmoni si riempiono di liquido fangoso, ma mi sforzo di tornare a galla. Stanno per scoppiare, non ce la faccio più, ma finalmente torno in superficie e inspiro l’aria fredda. Sputo sabbia e fango, avverto il sapore metallico del ghiaccio sciolto arrivato dalle montagne. Lo sento, è il rombo della cascata. Non arriverò mai in tempo. Mia scivolerà giù dallo strapiombo, si schianterà sulle rocce sottostanti. E subito dopo toccherà a me, vedo già i nostri corpi maciullati e offesi. Eccola di nuovo, la sua faccia bianca nell’acqua scura.

«Mia!», grido. «Afferra qualcosa!». Ma la mia voce viene risucchiata dal fiume impetuoso. Non può finire così. L’ho salvata una volta. Posso salvarla di nuovo.

Mi concentro e a un tratto noto il bosco, vedo una libellula che svolazza sopra il fiume formando un arco nell’aria e un pipilo che vola vicino alla riva. Una parte di me mantiene la calma. Niente panico. I piloti non vanno nel panico quando i loro aerei si capovolgono. Gli astronauti non vanno nel panico se rimangono a corto di aria. Fanno qualcosa per risolvere il problema. Il panico non salva le vite. E i subacquei nelle grotte sommerse? Quelle anime coraggiose che indossano tutta quell’attrezzatura e scendono centinaia di metri sotto il mare, addentrandosi in quelle grotte piene d’acqua formatesi migliaia e migliaia di anni fa? Si portano dietro dei fili di nylon, li tengono stretti anche quando i detriti coprono il loro campo visivo, tanto che non riescono a capire da che parte si trovi l’uscita. Si tengono stretti ai fili e così si salvano.

Questi pensieri mi attraversano la mente in un lampo, fuori dalla sfera temporale. Sto per raggiungere Mia. Galleggia a faccia in giù, i suoi capelli da sirena sono sparpagliati nell’acqua. La testa va giù e poi riemerge. Con un ultimo scatto sovrumano la raggiungo, la afferro e la rovescio. Ha gli occhi chiusi, il viso pallido e sereno, le labbra bluastre.

«Resta con me», la supplico, trascinandola verso la riva. Sto perdendo le forze. L’acqua è troppo fredda. La corrente mi trascina di nuovo giù e per poco non lascio andare Mia. Lei galleggia come una bambola di pezza.

Sulla riva scoscesa compare una sagoma scura. Eris. Ci segue verso la cascata. Il rumore dell’acqua diventa più forte, è assordante ormai. La sagoma di Eris, in cima al dirupo, appare sbiadita nella pioggia. Siamo morte, io e Mia, forse eravamo destinate a morire, fin dall’inizio. Mentre affondo, vedo una luce nel cielo, attraverso la superficie dell’acqua.

I miei muscoli si afflosciano. Non riesco a respirare. Mia mi scivola.

«Sarah!», grida qualcuno. Sembra Johnny. Ma come fa a essere qui? Deve essere la mia immaginazione che mi fa sentire la sua voce e mi fa vedere la sua mano che scende dal cielo per riportarmi a riva.