Capitolo 25

Quando parcheggiai davanti al cottage e trovai il vialetto deserto, tutto il mio essere si congelò. Johnny aveva tirato le tende contro il cielo color ghiaccio, e poi aveva lasciato la casa. La mattinata grigia si prospettava piena di solitudine e desolazione. Gli uccelli avevano smesso di cantare, come se percepissero il gelo del mio cuore. Persino i rododendri avevano piegato le loro foglie per il freddo.

Dentro il cottage, Johnny aveva lasciato le stanze immacolate. Le sue riviste erano sparite dal tavolino da caffè. Le sue scarpe mancavano dallo zerbino. Le sue giacche erano scomparse, i ganci di ottone nel muro erano vuoti fatta eccezione per quello a cui avevo appeso la mia giacca a vento.

Ma il suo odore era rimasto, il suo dopobarba all’essenza di pino e il suo inconfondibile aroma maschile, che ricordava le spezie e l’acqua del mare. Avevo sentito dire che gli odori evocano i ricordi più profondi ed emotivi, era tutto vero. Mi ricordai il modo in cui mi teneva la mano sulla spiaggia di Oahu, il modo impulsivo in cui si era fermato a un chiosco lungo la strada per comprarmi un pacchetto di lychees. Capiva subito di che umore ero, si accorgeva di cosa volevo quando facevamo l’amore. Qual era la misura di un matrimonio? Questi momenti di tenerezza e felicità? O i segreti non detti?

Avevo mai conosciuto il vero Johnny? Era una contraddizione vivente. Diventava super efficiente sotto stress, eppure era più sbadato nelle piccole cose. Teneva sotto controllo le nostre finanze, ma lasciava in giro i calzini. Gestiva il libretto degli assegni, ma spargeva le briciole per i ripiani della cucina.

Si trovava ancora a Shadow Cove, o era scappato in un’altra città, dove non sarebbe stato facilmente riconoscibile? Qui, nella nostra piccola comunità, avrebbe potuto imbattersi in qualcuno che conosceva. Che avrebbe potuto fargli delle domande. Si era tolto la fede, o l’aveva tenuta, facendola ruotare attorno al dito, come era sua abitudine? In genere era solito levarsi ogni cosa che gli fosse di impedimento nel momento stesso in cui entrava in casa. Chiavi e portafoglio, scontrini e monete, si liberava di tutto quello che aveva in tasca.

Quella mattina, si era portato via tutto il contenuto delle tasche.

Sul ripiano della cucina aveva lasciato una scorta dei miei cibi preferiti: una morbida challah, mirtilli biologici, latte di soia, caffè in polvere. Sapeva quanto spesso capitasse che fossi così presa dalla scrittura da dimenticarmi talvolta persino di mangiare. Voleva ricordarmi la sua premura nei miei confronti. Ma le cose positive potevano bilanciare equamente quelle negative? O per essere più precisi, i peccati di omissione?

Come potevo concentrarmi sulla scrittura? Il firmacopie, allo Shadow Cove Bookstore, incombeva su di me. Come potevo sorridere e fingere di festeggiare? Sentii la voce di Natalie nella mia testa: Vivere bene è la miglior vendetta. Avrei dovuto trovare un modo per vivere bene.

O semplicemente un modo per vivere.

In camera, il copriletto era tirato sul materasso e piegato sotto i cuscini. Mio marito, di solito così disordinato, aveva speso un minuto del suo tempo per fare il letto. All’improvviso, volevo il suo disordine, la fossa sul suo cuscino, i suoi vestiti abbandonati sulla sedia.

La seconda camera sembrava impersonale senza il suo computer, le sue biro, i suoi libri e le sue tazze. La sedia era bloccata con lo schienale inclinato, come se avesse dormito lì. Forse non poteva sopportare il pensiero di andare a letto senza di me. Aveva dormito in hotel? O aveva solo lasciato la valigia, si era lavato i denti ed era andato direttamente al lavoro? Gli mancavo? Volevo che mi desiderasse ardentemente, sebbene nel profondo, non volevo che soffrisse, anche se mi aveva ingannata. Che cosa avrei ottenuto con il rancore?

Tuttavia, non riuscivo a impedire che dei brutti pensieri facessero capolino nella mia mente. Quante serate avevamo passato con i Kimball, a guardare dei film o riuniti per una cena e quattro chiacchiere, quando il braccio di Johnny poteva aver sfiorato quello di Monique? Quando si era sporta su di lui seduto a tavola, per metter un piatto di verdure grigliate su un vassoio, e lui magari aveva avvertito una traccia del suo profumo, o intravisto la curva del suo seno? Aveva pianificato un incontro?

Ogni momento assumeva un nuovo significato adulterino, il modo in cui Monique aveva succhiato un ghiacciolo in una giornata calda, mentre osservava da dietro i suoi occhiali da sole il nostro cortile, dove Johnny, a torso nudo e sudato, stava facendo giardinaggio.

Aveva cercato di non lasciarsi niente alle spalle, nel cottage. Il suo lato dell’armadio in camera da letto era vuoto. Si era portato via tutti i vestiti, eccetto una maglietta e un paio di pantaloni, che aveva lasciato appesi a un gancio per gli asciugamani dietro la porta del bagno. Per la prima volta da quando lo conoscevo, mi ritrovai a controllargli le tasche. Se non avesse insistito tanto per portare da solo i suoi completi in tintoria, avrei rovistato prima nelle sue tasche, per togliere cose futili, dimenticate. Una ricerca innocente. Ma ora cercavo prove di un inganno, e trovai una ricevuta piegata, scritta con un inchiostro blu chiaro, con stampato in alto il logo dell’Harborside Florist; era per il pagamento dell’ortensia in vaso e della consegna, ordinata il giorno prima che io e Johnny andassimo a cena da Eris, pagata in contanti.

Ero ancora imbambolata a guardare la ricevuta quando udii il rombo basso di un’auto che risaliva la strada. La Buick nera di Adrian sfiorò il marciapiede e si fermò di fronte al cottage, poi il motore si spense. Jessie uscì dal sedile del passeggero.

Mi asciugai gli occhi, sistemai il maglione, e aprii la porta. Avvertii sulla pelle un’aria invernale, fuori stagione. «Jessie, che succede? Stai bene?»

«Solo un minuto», gridò ad Adrian. «Ci impiegherò solo un minuto!».

Corse sull’erba verso di me, non era coperta a sufficienza per proteggersi dal freddo: indossava solo una felpa e dei jeans a sigaretta. Le sue scarpe da ginnastica slittarono quando raggiunse il vialetto, poi riprese l’equilibrio e camminò con le braccia leggermente aperte. Il suo eyeliner era sbavato, il viso smunto.

«Che ci fai qui?», chiesi. «Ti prenderai qualcosa. Vuoi una giacca? Entra dentro».

«Ero preoccupata per te», disse. «Mia mamma ha detto che tu e il dottor McDonald state divorziando».

«Che cosa? Non è vero». Il sangue abbandonò del tutto il mio viso. Com’era possibile che la notizia dei nostri problemi coniugali avesse viaggiato così in fretta? Chi l’aveva detto a Pedra?

Jessie incrociò le braccia sul petto e si lanciò un’occhiata alle spalle, verso l’auto, poi mi guardò di nuovo con un’espressione vacua negli occhi arrossati. «È vero? Vi state lasciando? È per colpa del diario? Ti stava tradendo, non è vero? Il dottor McDonald si scopava Mrs Kimball?»

«Scopava? Chi te l’ha detto?»

«Ci sono arrivata da sola. Brucia. Mi dispiace».

«Jess…».

«Sono solo venuta a dirti che me ne sto andando», disse, abbracciandosi all’altezza della vita ora e saltellando da un piede all’altro per il freddo.

«Andando dove? Perché non entri? Possiamo parlare un po’. Sei tutta gelata».

«Non posso. Adrian vuole andare ora. Ha un colloquio di lavoro a Silverdale».

«Non fa più il muratore?».

Lei scosse il capo e calciò il ghiaietto con la scarpa. «È stato licenziato».

«Che cosa ci fai insieme a lui?». Ma conoscevo la risposta. La vedevo chiaramente scritta sulle spalle mastodontiche di Adrian, nell’ingenuità di Jessie.

«Devo andarmene da qui», rispose lei.

«Dove andrai?».

Guardò il cottage, uno sguardo colmo di desiderio. «Ci trasferiamo in un posto tutto nostro».

«Chi? Tu e Adrian?». Non stava succedendo davvero. Non poteva sul serio andare con lui.

Fece un cenno affermativo in direzione della macchina. Adrian stava parlando al cellulare, gesticolando animatamente. Mi guardò di nuovo. «Stavo aspettando il mio compleanno».

«I tuoi genitori lo sanno?».

Adrian colpì con forza il volante con il palmo della mano. Jessie trasalì visibilmente. «Ho lasciato loro un biglietto», disse, guardandomi con aria di sfida.

«Pensa bene a quello che stai facendo».

«Non ho bisogno di pensarci. I miei genitori non ci arrivano. Anche loro credono che lui sia il piromane. Ma si sbagliano».

Era lui il piromane? «Hai restituito le cose che hai rubato?»

«Lo farò, promesso».

Adrian uscì dall’auto e si avvicinò a noi con fare spavaldo e presuntuoso. L’aria sembrò assottigliarsi attorno a me e Jessie, come se lui la risucchiasse tutta.

«Non andare con lui», dissi d’impulso a Jessie. La afferrai per la manica. Lei non si scostò, ma si raddrizzò decisa.

«Jess, andiamo», disse Adrian, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto. Si fece vicino, troppo vicino. Indossava dei pantaloni color cachi ben stirati, una giacchetta di lana e scarpe nere lucide; portava i capelli pettinati all’indietro con il gel. Torreggiava su entrambe, emanando un insopportabile odore di dentifricio e dopobarba metallico. «Faremo tardi».

«Perché non vai a fare il tuo colloquio e lasci Jessie qui con me?», dissi.

I suoi occhi scuri parevano stranamente vuoti. «Jess, andiamo».

La casa dei Minkowski era chiusa e buia e nel vialetto non c’era nessuna delle loro auto. «Chiama i tuoi genitori», dissi a Jessie. «Ora. Ti vogliono bene. Chiamali».

Lei scosse il capo, guardando per terra. «Non ho intenzione di tornare là».

«Vieni con me, Jess», disse Adrian.

«Non verrà con te», replicai io. In lontananza, la porta di casa di Eris si aprì con un cigolio, poi si richiuse con un tonfo. Scese di corsa i gradini del portico con indosso un parka e degli stivali. Poi si diresse verso di noi attraverso il bosco.

Adrian mi guardò come se fossi solo un fastidioso impedimento. «Tu sei la scrittrice», disse.

«Sì, scrivo», dissi. Avvertii il mio battito cardiaco accelerare.

«Storie per bambini, giusto?», sbuffò lui.

«Sono dei gialli stupendi», si intromise Jessie.

«Ma sono su un ratto, o qualcosa così», disse lui. «È il caso di chiamare la disinfestazione?»

«A dire il vero, è un topo», ribattei.

«Oh, un topo. Tutto qui... scrivere di roditori. È per questo che quel vecchio di tuo marito ti ha mollata? Per tutti i ratti che hai nel cervello?». Il suo sguardo mi esaminò accuratamente dall’alto verso il basso.

Jessie si irrigidì. «Dai, Adrian. Non c’è bisogno di offenderla».

«Jess», dissi. «Perché non entri? Lascia che Adrian se ne vada».

Lui si tolse una mano dalla tasca e mi puntò contro un dito.

«Vedi, Jess? Che ti avevo detto? Tutti stanno cercando di fermarci».

Eris ormai aveva fatto metà della strada che la separava da noi, camminando con passo spedito.

«Sarah, non posso restare». Jessie guardava dovunque tranne che nella mia direzione.

«Andiamo, su», disse Adrian. Si allungò e afferrò il braccio di Jessie. «Forza». La trascinò verso la macchina.

«Fermo», dissi. «Basta. Lasciala andare».

«Vattene affanculo», replicò lui. «Lasciaci in pace».

Eris ci raggiunse, sventolando il suo cellulare nell’aria. «Ehi!», gridò. «Fermo dove sei!».