Capitolo 11
«Potresti adottare Mia», disse Natalie mentre parlavamo al telefono durante il mio viaggio di ritorno al cottage. «Fai partire la richiesta prima che la nonna ci rimanga secca».
«Natalie! Harriet ama Mia. È l’unica parente che le rimane in vita. Hanno bisogno l’una dell’altra».
«Quanti anni ha poi quella signora? Una novantina?»
«È più sull’ottantina, credo».
«L’aspettativa media di vita per una donna in America ha raggiunto gli ottantasei anni l’anno scorso».
«Tu sei una fonte inesauribile di informazioni importanti». Svoltai in Cedar Drive, che conduceva a Shadow Bluff Lane. «Non possiamo adottare Mia, Nat. Siamo senza casa. Soffro ancora di mal di testa. E sono scossa. Non sono più me stessa».
«Le tue reazioni sono comprensibili. Solo perché hai avuto cattiva sorte non vuol dire che tu sia una cattiva madre».
«Quando Mia si è accorta che non ero sua madre, ha cominciato a strillare».
L’avevo cullata e le avevo canticchiato Bright Morning Star, la ninna-nanna che mia madre mi cantava tanto tempo prima. Where are our dear mothers? / They’ve gone to Heaven shouting…
Mia si era calmata un po’, ma non era stato facile consolarla.
«Che cosa hai intenzione di fare?»
«Harriet deve andare in ospedale per fare alcuni esami venerdì. Vuole che le tenga Mia per qualche ora».
«Che genere di esami?»
«Ha parlato di “remissione” e di sentirsi come se qualsiasi cosa abbia sia ritornato».
«Ha quella malattia che inizia per C? Che ti avevo detto?»
«Natalie».
«Non c’è una risposta giusta. Segui il tuo cuore».
Riagganciai con la strana sensazione di essere una nave in balìa della tempesta. Natalie era sempre stata spontanea, seguiva il suo cuore, mentre io soppesavo i pro e i contro di ogni decisione. Lei e Dan erano innamorati sin dal primo appuntamento, mentre io ci ero andata coi piedi di piombo con Johnny. Io raccoglievo i coupon, mentre lei li gettava nella spazzatura. Lei cucinava piatti elaborati, facendo casini incredibili, mentre io mi limitavo a piatti semplici, sistemando la cucina via via che procedevo. Se non ero impegnata a scrivere fino a notte fonda.
O almeno, prima dell’incendio.
Quando arrivai al cottage, un pick up blu stazionava nel vialetto, una Toyota Tundra, con un logo stampato sul lato che recitava in lettere gialle in grassetto: “Severson Riparazioni e Ristrutturazioni”. Un uomo alto e atletico se ne stava sotto il portico con indosso una cintura degli attrezzi, scarpe da lavoro, una maglietta bianca pulita, e un cappellino da baseball.
«Posso aiutarla?», dissi, avvicinandomi a lui.
«Todd Severson. Sono qui per aggiustare lo sciacquone e la chiusura della finestra del soggiorno». Aveva gli occhi leggermente arrossati, con delle occhiaie scure, come se non dormisse da giorni.
«La chiusura è rotta?»
«Sì. Mi manda la signora Coghlan».
Diceva davvero? Eris avrebbe avuto il coraggio di mandarci un uomo che sembrava strafatto? Però era vestito in modo adeguato, e aveva i ferri del mestiere. «Non mi ha detto che sarebbe passato».
«Mi perdoni per l’intrusione, signora», disse, facendo un passo indietro. Infilò il pollice sinistro nella parte alta della sua cintura, come un cowboy. «Tornerò un’altra volta». Si voltò per andarsene.
«No, aspetti. Le farò un colpo di telefono per sicurezza».
Annuì, toccandosi il cappellino da baseball. In quel momento riconobbi lui e il suo pick up; l’avevo visto in giro per la città, qui e là, e ancora nel vialetto di Eris, quando io e Johnny ci eravamo trasferiti al cottage.
Eris rispose al primo squillo, e quando dissi “tuttofare”, si profuse in scuse. «Avrei dovuto chiamarti prima. Arrivo tra poco».
«Non è necessario», dissi. «Volevo solo accertarmi…».
«Non una parola di più. E sì, l’ho ingaggiato io».
«Okay, va bene». Chiusi la comunicazione e lo feci entrare. «Mi dispiace».
«Nessun problema, signora». Mr Severson mi oltrepassò varcando la soglia di casa. Emanava un vago odore di qualche erba insolita, forse salvia.
Mi lanciò un’occhiata penetrante, quasi preoccupata; rughe d’espressione gli segnavano il centro della fronte. Poi sorrise, rivelando denti lievemente ingialliti, un incisivo scheggiato, una fossetta nella guancia destra. Allungò una mano sudicia per stringere la mia, poi la ritirò in fretta, come se si fosse accorto solo in quel momento che era sporca. «Arrivo da un altro lavoro». Si pulì entrambe le mani sui jeans.
«Non importa», dissi, resistendo all’impulso di pulirmi anche io le mani.
«È la nuova inquilina, allora».
«Io e mio marito», dissi, estremamente consapevole di essere sola in casa con uno strano sconosciuto.
Mr Severson annuì di nuovo, il suo sguardo percorse tutto il mio corpo. Dopo l’incendio, nessuno dei vestiti che indossavo mi andava bene. «Vuole mostrarmi la finestra che dà problemi?», disse. Aveva un paio di occhi molto vicini, di un colore indeterminato, forse grigio scuro o marrone.
«Non sapevo che ci fosse una finestra non funzionante», dissi.
«Ha detto che era qui dietro». Attraversò il soggiorno, scosse la finestra sul retro, poi la aprì e la richiuse. «Non si chiude bene. Vede?».
Lo seguii. «Non mi ero resa conto. Eris non l’aveva detto».
«È pericoloso di questi tempi». Aprì la sua cassetta degli attrezzi e cominciò a lavorare sulla chiusura con una chiave inglese.
«È abbastanza sicuro qui, no?». Ma del resto, pensavo anche che Sitka Lane fosse sicura.
«Ogni tanto subiamo dei furti».
«In questa strada?»
«Non le so dire di questa strada. A casa mia però ho fatto installare le luci con i sensori di movimento. L’avevo fatto per mia moglie, quando ancora viveva lì».
«Non vive più lì ora?»
«Se n’è andata un anno fa. Era lì quando sono andato al lavoro, ma al mio ritorno non c’era più. Di punto in bianco. Ha fatto la valigia e mi ha lasciato».
«Mi dispiace molto».
«Eravamo sposati da nove anni. Alla vigilia del nostro anniversario. Se la faceva con un muratore di Bellingham. Mi ha spezzato il cuore. Sarebbe ancora spezzato, se l’avessi lasciato fare. Ma sono andato avanti. Uno deve andare avanti, no?»
«Certo che sì», commentai, non sapendo bene che altro dire. Sebbene avessi già visto quel tizio in giro per la città, la verità era che non lo conoscevo per nulla.
Shadow Cove era grande abbastanza da garantire l’anonimato, ma piccolo a sufficienza perché gli impiegati della posta o i commessi delle botteghe riconoscessero i visi familiari, per permettere alle stesse persone di incontrarsi più volte.
«La vita. Ti fa andare avanti in un modo o nell’altro». Controllò di nuovo la finestra. Questa volta, la chiusura funzionò. «Come nuova, se nessuno ci tira contro un sasso».
«Grazie», dissi.
«Nessun problema». Guardò verso il bosco, ma il suo sguardo non era concentrato sugli alberi. Andava oltre, diretto a qualcosa di invisibile.
Poi distolse gli occhi da lì e li portò su di me. «Sciacquone?»
«In fondo al corridoio. Aspetti, lasci che dia una sistemata in bagno».
«Non mi importa».
«A me sì». Mi sentivo stupida a correre davanti a lui, ma riuscii a nascondere un reggiseno sotto un asciugamano prima che entrasse.
Rimasi sull’uscio, mentre lui toglieva il coperchio della cassetta del water, infilava le mani nell’acqua, e lavorava sul sistema di scarico.
«Serve una nuova valvola di scarico», disse.
«Non ho idea di cosa sia».
«Per sua fortuna, lo so io. Dovrei averne una nel pick up». Uscì, tornò dopo poco con un pacchetto e si rimise al lavoro sul water. «Dovrebbe far installare anche lei le luci con i sensori di movimento. Per scongiurare dei furti».
«Be’, non ci sarebbe niente da rubare», replicai. «La nostra casa è andata distrutta in un incendio. Non mi è rimasto granché».
«Mi spiace». Si raddrizzò e mi guardò di nuovo, un lampo di riconoscimento negli occhi. «Lei è quella...?»
«Sono Sarah. Sarah Phoenix».
«Che mi venga un colpo», disse sottovoce. Rimase a bocca aperta e vacillò un po’, come se il solo pronunciare il mio nome gli avesse dato una spintarella all’indietro. Si riprese in fretta. «Sarah Phoenix, eh? La scrittrice?»
«Ha sentito parlare di me?»
«Di lei e di suo marito, il dermatologo».
«Sì. Come faceva a saperlo?»
«Ero lì». Mentre parlava, una nuvola oscurò il sole, gettando in ombra la stanza. Il viso di Todd Severson si oscurò, le rughe divennero più pronunciate.
«Che cosa vuol dire che era lì?». Dei brividi di apprensione mi risalirono la schiena.
«Intendo dire che sono un volontario della settima caserma dei vigili del fuoco».
«Oh», esalai. «Wow».
«Sì». Chiuse la cassetta del water e tornammo in corridoio.
Mi guardava in modo diverso ora, con tristezza negli occhi. «La signora Coghlan non mi aveva detto che si trattava di lei. Che era lei ad affittare questo posto. Ha solo menzionato degli inquilini. Maledizione».
«Era a Sitka Lane quella notte. Il che vuole dire che ha visto che cosa è successo dopo che sono andata... in ospedale».
Abbassò lo sguardo sul pavimento, poi lo riportò su di me. «La mia unità è stata l’ultima a essere chiamata. Siamo una caserma volontaria. Siamo vicini a Sitka Lane, ma non abbiamo personale ventiquattr’ore su ventiquattro. Con i tagli e tutto il resto. La caserma centrale aveva il personale disponibile. Si sono mossi per primi, ma sono belli lontani».
«Però siete arrivati anche voi dopo», dissi.
«Sì, dopo», disse con profondo rammarico. «Solo che i suoi vicini... maledizione».
«Non è stata colpa sua». Provai a immaginarmi Todd Severson in un’uniforme da pompiere.
«Non sarebbe dovuto morire nessuno», disse, scuotendo il capo.
Un suv nero risalì rumorosamente la via e parcheggiò in strada. Guardammo entrambi fuori dalla finestra, poi Mr Severson mi appoggiò una mano sulla spalla. «Se avesse bisogno di qualcosa... se le dovesse servire una mano per qualcosa...».
«Va bene così. Grazie».
I suoi occhi cercarono i miei. «Mi dispiace per quel che è successo».
«Grazie», dissi, a disagio.
«Dovete stare attenti. Di notte...».
Il suo telefono squillò nella tasca posteriore. Fece una smorfia, come se avesse appena assaggiato un boccone amaro. «Ho una chiamata per un altro lavoro. È stato un piacere conoscerla, Sarah Phoenix».
Fu alla porta d’ingresso prima che potessi fermarlo e chiedergli che cosa stesse per dire. Uscì mentre Eris scendeva dal suo suv.
Indossava un elegante completo pantalone beige, con scarpe col tacco coordinate.
Percorse di corsa il vialetto. «Todd! Sarah!».
«Signora», la salutò Todd, diretto al suo pick up.
Emersi dalla casa, mente Eris trotterellava per il vialetto sui tacchi. «Todd! Hai sistemato lo scarico del water?»
«Alla perfezione», rispose, aprendo la portiera dal lato dell’autista.
«Ottimo. E la finestra?»
«A posto anche quella».
«Sei la mia salvezza», disse lei.
«Le farò avere la fattura». Toccò il cappello a mo’ di saluto per me. «Buon pomeriggio, signora».
«Grazie», replicai.
Annuì e salì sul pick up. Eris e io lo osservammo mentre usciva dal vialetto e se ne andava.
Eris venne verso di me, le sue scarpe ticchettavano sull’asfalto. «Come stai oggi? Sei tornata a Sitka Lane?»
«Sì. È stato... difficile. Pensavo che sarei riuscita a salvare qualcuno in più dei nostri averi, ma...».
«Mi dispiace così tanto», disse Eris, gli occhi colmi di compassione.
«È strano sapere che la nostra casa è aperta al mondo intero. Non c’è più la porta d’ingresso. Se fosse rimasto qualcosa tra le macerie, un ladro potrebbe prenderlo».
«Ecco, mi è venuta in mente un’altra cosa. Farò cambiare a Todd anche le serrature. Lui non dovrebbe avere una chiave del cottage, ma è affidabile, e il posto è stato vuoto per così tanto tempo…».
«Capisco. Non voglio crearti disturbo».
«Questa è esclusivamente colpa mia. Siamo ancora d’accordo per la cena? Non c’è bisogno di portare nulla».
«Andiamo entrambi a letto presto…».
«Non mi sorprende. Ho visto tuo marito fare jogging alle prime luci dell’alba, quando ero fuori per la mia camminata. Non sapevo che lui e Theresa si conoscessero. Si stavano facendo una bella chiacchierata».
«Forse la conosce», dissi.
Guardai attraverso gli alberi, in direzione della casa con il tetto spiovente. Cominciavo a chiedermi esattamente come Johnny aveva conosciuto Theresa. Ma perché avrei dovuto chiedermelo? Conosceva così tante persone a Shadow Cove.
Eris seguì il mio sguardo. «Ti farà piacere conoscere suo marito. Kadin è un uomo molto affascinante».
«Sono certa che lo sia. Ma, ho già un uomo affascinante tutto mio».
«Ma certo che sì. Nessuno può reggere il paragone con tuo marito, non trovi?». Mi fece l’occhiolino.
«Nessuno in tutto l’universo, o almeno nel mio universo», replicai.
«Ma quel Kadin... ah, be’, è impegnato, e lo sono anche io».
Eris sospirò, diede un’occhiata all’orologio d’oro, poi mi fece un gran sorriso.
«Devo scappare. C’è la riunione mensile dell’Associazione dei Agenti Immobiliari. Vi aspetto da me alle sette?»
«Grazie», dissi, con lo sguardo ancora rivolto alla casa dei vicini, mentre Eris correva di corsa al suv e se ne andava.