Capitolo 1

Due mesi prima

Quella sera di ottobre a Sitka Lane era ancora tutto perfetto. Il cielo al crepuscolo era uno spettacolo di sfumature cangianti di rosa e oro. Le prime foglie cadevano sul prato, i cedri e gli ontani ondeggiavano dolcemente nella brezza oceanica. Mi sentivo ancora forte e in salute mentre raddrizzavo il quadro di Miracle Mouse appeso alla parete del mio studio. La topina detective se ne stava in cima a una pila di libri, con gli occhietti vispi e luminosi dietro le lenti degli occhiali.

Dovevo scrivere la sua prossima avventura, ma da quando John era partito, tutto quello che avevo fatto era stato mangiucchiare il tappo della biro e guardare nel vuoto. Ogni volta che il mio telefonino squillava immaginavo di essere tra le sue braccia, la sua mano sulla parte bassa della mia schiena, che scendeva ancora più giù. Dopo tre anni di matrimonio, ancora non riuscivo a togliergli le mani di dosso, come se l’avessi sposato il giorno prima.

Me lo immaginavo alla sua conferenza a San Francisco, entusiasta per gli ultimi ritrovati per la cura dell’acne e dell’eczema, mentre io me la spassavo nella sonnolenta città di Shadow Cove, Washington, e facevo diventare realtà la nostra casa dei sogni. O tecnicamente, la casa dei sogni di Johnny, visto che l’aveva comprata ancora prima che lo incontrassi.

Mi concentrai nel riorganizzare lo studio, che dimostrava quanto fosse piena la mia vita: scatole colme di libri da donare alla biblioteca, il programma del mio club del libro, appunti di scrittori che muovevano critiche costruttive ai miei libri.

Alle sei e mezza il mio telefono squillò e sullo schermo comparve la scritta bff – best friend forever. Risposi immediatamente. «Pensavo che tu e Dan foste partiti per l’India».

«Il nostro volo decolla tra quattro ore», rispose Natalie, in sottofondo si sentiva la musica di Miles Davis. «Ho avuto uno strano presentimento che ti riguarda».

«Che cosa hai previsto questa volta?». Natalie era la regina delle premonizioni bizzarre. Dieci anni prima, quando ci eravamo conosciute al college, era solita prevedere l’apocalisse prima di ogni esame.

«Ho paura che uno di quegli alberi enormi cada sul tuo tetto».

«Diventi sempre paranoica prima di viaggiare», le dissi.

«Lo so, ma sei tutta sola in quella casa gigantesca, e…».

«Non è poi così gigantesca». Avevo detto la verità, ma nonostante ciò un brivido mi corse lungo la schiena. Fuori il vento si alzò, scuotendo gli alberi. «Ancora non ci credo che starai via sei mesi».

«La clinica voleva che Dan restasse per un anno, ma i suoi pazienti hanno bisogno di lui qui. Ti porterò della seta e del sandalo».

«E del tè del Darjeeling», aggiunsi.

«Il tè verde è meglio, se stai cercando di mettere in cantiere un marmocchio».

«Preferisco il tè nero. Lo sai». Sentii una fitta sotto le costole. Era un anno che io e Johnny provavamo a concepire un figlio.

«Una tazza al giorno», disse Natalie. «E bevi il decaffeinato».

«Sì, sì. Smetterai mai di farmi da nutrizionista?»

«Solo quando dormo. Dai un abbraccio a quel bell’uomo di tuo marito».

«Grazie, altrettanto». Non avevo fatto in tempo a chiudere la comunicazione che già Natalie mi mancava. Mentre finivo di dare una sistemata alla mia scrivania, le sue parole continuavano a tornarmi in mente. Ho avuto uno strano presentimento...

Qualche minuto dopo, il telefono squillò di nuovo e il nome di Johnny comparve sullo schermo in grandi lettere bianche.

«Mi è mancato tutto il giorno, Dr McDonald», risposi sorridendo.

«Tu mi sei mancata di più», replicò lui con la sua profonda voce da baritono. «Sono stato immerso tutto il giorno nella hidradenitis suppurativa».

«Suppura-che?»

«Si associa a un alto grado di morbosità».

«Odio quella parola: morbosità. Ha un suono di morte».

«Riguarda la morte. Ho bisogno di tornare a casa».

«Vuoi dire che tutte quelle entusiasmanti lezioni sui batteri carnivori non ti eccitano?»

«Tu mi ecciti. Che cosa indossi?»

«Quell’affarino di pizzo che mi hai regalato a Natale», mentii, guardandomi la maglietta e la salopette di jeans.

«Mmm. Potremmo, lo sai... al telefono».

«Aspetta un attimo. C’è qualcuno a casa dei Kimball». Un’auto percorse il vialetto dei vicini con il motore che rombava.

«Nessuno gli vieta di avere degli ospiti».

«Ma i Kimball sono alle Hawaii. Mi hanno chiesto di dare un’occhiata alla casa mentre sono via. Stai in linea». Andai in cucina e aprii le persiane. Nella luce dell’imbrunire, due figure emersero da una station wagon nel vialetto dei vicini. Solo un pezzetto di prato separava la loro casa dalla nostra. Riconobbi Chad Kimball, robusto e tarchiato, un fisico da giocatore di football se non fosse stato per le sue spalle cascanti. Monique, tutta curve mozzafiato, assomigliava a Marilyn Monroe in modo impressionante, con il vestito blu elettrico che sventolava contro le sue gambe.

Ma dov’era Mia? Probabilmente addormentata nel seggiolino. «Sono loro», dissi abbassando le tende. «Sono tornati prima. Forse Mia è stata male. Andrò a trovare Monique domattina».

Johnny sbadigliò. «Buonanotte, tesoro. Amo te e solo te».

«Lo stesso vale per me. Amo te e solo te». Misi giù e finii di sistemare la mia scrivania. Miracle mi guardava dal muro, ogni pennellata della sua pelliccia era stata dipinta con amore da mia nonna. Mi aveva dato quel quadro quando la prima indagine di Miracle Mouse era stata accettata da un editore. Ora la nonna non c’era più, ma la sua memoria infestava lo sguardo intelligente di Miracle. Come al solito, toccai il naso della topina prima di prepararmi per andare a dormire.

Mentre salivo al piano di sopra sentii suonare il campanello. Trovai Monique Kimball in piedi sotto il portico, con il vento che le soffiava i capelli biondo platino in faccia. Da vicino, i suoi lineamenti da diva del cinema erano ben visibili: labbra imbronciate, espressivi occhi grigi, ciglia spesse e curve. La sua pelle era leggermente abbronzata e aveva una spruzzata di lentiggini sulle guance. Emanava un vago sentore dei tipici odori di viaggio: aereo, sudore e profumo costoso.

«Siete tornati prima», dissi. «Va tutto bene?».

Lei sorrise con aria triste. «Situazione complicata. Ma non sono venuta qui a lamentarmi. Mi presteresti per favore un po’ di carbonella?»

«Seguimi sul retro. Ne abbiamo un sacco in veranda».

Monique entrò in casa e mi seguì in fondo al corridoio. Quando passammo davanti al salotto fischiò in segno di approvazione. «Oh la la! Adoro il modo in cui l’hai sistemato. Il divano blu è nuovo?»

«Mi sono liberata di quella vecchia mostruosità nera. Gridava: “qui vive un uomo single”».

«Hai davvero fatto un bel lavoro».

«Grazie, è stato divertente». Quando mi ero trasferita avevo aggiunto dei cuscini ornamentali di seta, bustine di lavanda, saponi profumati. Avevo dei bei mobili fatti con legno ecosostenibile, incluso un armadio in corridoio.

La veranda sul retro della casa era stata spazzata dal vento, una sdraio si era rovesciata e un rastrello era caduto per terra. Presi un sacchetto di carbonella e lo diedi a Monique. «Siete sicuri di voler fare un barbecue con questo tempo?»

«Conosci mio marito. Adora le sfide». Monique si infilò il sacchetto sotto il braccio. Quando fummo di nuovo nell’ingresso, esitò. «Jules sta bene? È andato a letto presto?». Guardò in cima alla scala, come se volesse farsi prestare anche Johnny. Ogni tanto si divertiva a chiamare lui “Jules” e suo marito “Jim”, come i personaggi di Jules e Jim, un film francese che avevamo guardato tutti e quattro insieme. Parlava di due uomini che erano innamorati della stessa donna. Ma io e Monique avevamo litigato per chi assomigliava di più alla femme fatale, Catherine.

«Un’altra conferenza», dissi. «Come sta Jim?»

«Stanco e scottato. Ha la pelle troppo sensibile». Monique sembrava sul punto di dire qualcos’altro, invece si voltò a sbirciare fuori dalla finestrella accanto alla porta d’ingresso. Dall’altra parte della strada, Jessie Ramirez sedeva sui gradini di fronte a casa sua con indosso una felpa e dei jeans, i suoi capelli corvini le turbinavano davanti al viso. Un ragazzo alto, anche lui in felpa, le sedeva accanto e fumava. Era il suo nuovo fidanzato, Adrian. La sua Buick nera modificata era parcheggiata nel vialetto.

Monique si accigliò. «Perché sta con lui?»

«Ha diciassette anni e gli ormoni in subbuglio. Ma è una brava ragazza».

«Si occupa bene di casa nostra quando non ci siamo, ma...».

«Ma cosa?»

«Avevo una penna d’oro vicino al telefono e ora non la trovo più. Forse è caduta dietro il frigo».

«Pensi che l’abbia rubata lei?»

«Sono sicura che salterà fuori. Per favore, non dirle nulla».

«Non preoccuparti. Sarò muta come un pesce».

Monique se ne andò in fretta, ancheggiando attraverso la piccola porzione di prato che la separava dalla sua porta d’ingresso. Jessie e il ragazzo la osservarono. Jessie era stata una studentessa modello prima di mettersi con Adrian. Ma anche adesso non riuscivo a immaginare quella ragazza che rubava qualcosa a qualcuno. Era sempre stata volenterosa e onesta, ma chi sapeva cosa passava nella testa di un’adolescente?

La casa a destra di quella di Jessie era immersa nell’oscurità. Felix e Maude Calassis probabilmente erano andati a letto presto, sebbene Felix spesso facesse una passeggiata al tramonto.

Dopo la casa dei Calassis, notai che la luce del portico della casa vuota che faceva angolo era accesa. L’agente immobiliare, Eris Coghlan, si era dimenticata di spegnerla. La scritta venduta era stata apposta sul cartello in vendita piantato nel giardino davanti alla casa.

A sinistra della casa di Jessie, oltre un folto gruppo di abeti, alla fine della strada senza uscita, vi era la casa bianca di proprietà dei Frenkel. Lenny Frenkel era in piedi sotto il portico con il cellulare incollato all’orecchio. Era il più magro dei gemelli Frenkel, un affascinante chiacchierone. Diverse ragazze lo avevano già invitato ad andare al ballo dell’ultimo anno. Lukas, il gemello più in carne, era uguale a suo padre Verne, robusto e timido.

In una strada come Sitka Lane, in cui c’erano solo sei case, spaziose e identiche, era difficile – ma non impossibile – mantenere dei segreti. Potevo guardare i vicini andare e venire, ma nessuno sapeva che cosa succedeva davvero dentro ogni casa.

Al piano di sopra, in camera da letto, sentii l’odore del dopobarba al pino di Johnny e il profumo del suo sapone al burro di karité. Mi cambiai e indossai una della sue magliette che mi arrivavano al ginocchio, poi aprii la finestra prima di infilarmi sotto le coperte. Gli odori della notte entrarono nella stanza: l’aria salata che proveniva dal mare, il cedro astringente e i fiori di miele della pianta cimicifuga che cresceva sotto la finestra. Provai a concentrarmi sulla lettura di Una sana gravidanza, ma guardavo le parole senza comprenderle. Nella preistoria, i genitori non sapevano forse cosa fare senza aver bisogno di un libro? Non si fidavano forse dell’istinto? Di certo non se ne stavano seduti attorno al fuoco, nelle loro caverne, a leggere dei manuali d’istruzioni. Ma d’altra parte, all’epoca, prima dell’avvento della medicina moderna, chissà quanti neonati morivano.

Un mormorio di voci arrivò fino a me dal giardino sul retro dei Kimball, unito all’odore degli hot-dog sul barbecue. Dopo un po’ le porte scorrevoli del patio si aprirono e si chiusero. Poi ci fu un momento di calma. C’era un’aria pesante, simile a quella che si respira quando incombe una tempesta.

Mi sdraiai e chiusi gli occhi, ma il sonno tardava ad arrivare. Il vento scuoteva i rami delle conifere e, al di sotto del suo fruscio, si udì il rombo cupo di una macchina che avanzava furtiva lungo la strada. Il motore si spense e calò il silenzio. Probabilmente si trattava di una coppia di adolescenti che si appartava. Il loro coprifuoco era passato da un pezzo, proprio come il mio.

Finalmente scivolai in un sonno agitato, per svegliarmi poi nell’oscurità. La forza del vento aveva fatto sbattere la finestra e l’eco sordo di un rumore mi risuonava nelle orecchie, forse il ritorno di fiamma di un pickup. La sveglia digitale sul mio comodino mi informò che era l’una e diciassette del mattino. Un bagliore soffuso color arancio danzava sui muri e nell’aria si percepiva odore di fumo.

Accesi la lampada sul comodino e la stanza mi comparve davanti agli occhi: la mia foto preferita del matrimonio sul cassettone, una felpa gettata su una sedia, flaconi di crema idratante sul comò. Pareva tutto come al solito, ma il cuore mi batteva all’impazzata. Mi alzai e sbirciai fuori dalla finestra. Ci volle un po’ prima che il mio cervello addormentato registrasse la scena. Fumo e fiamme si levavano dalla casa accanto, dalle finestre del primo piano dei Kimball. Il loro allarme antincendio si era attivato con un suono acuto e intenso.

Le grida di un bambino spaventato squarciarono la notte. Mia. Era intrappolata nella sua camera al secondo piano, proprio sopra l’incendio divampante.