Capitolo 33
Johnny mi seguì al cottage con il suo suv, parcheggiò dietro la mia auto e mi condusse verso la casa dei Minkowski. Una pioggia leggera cadeva nell’oscurità.
«Perché siamo qui?», chiesi.
Mi prese la mano. «Volevi sapere che sta succedendo. Ora te lo spiego».
«Quindi è vero, venivi qui per vedere Theresa».
«Dammi una possibilità». Mi guardò con quegli occhi limpidi, sinceri. «Volevo aspettare, ma visto che io e te non dormiamo neanche più sotto lo stesso tetto, devo mostrartelo adesso».
«Che vuoi dire? Mostrarmi cosa?»
«Abbia pazienza». Mi guidò su per i gradini e oltre la porta d’ingresso. Theresa evidentemente sapeva che stavamo arrivando. Sentii di nuovo odore di prodotti chimici e profumo.
«Kadin è uscito col padre», mi comunicò Johnny.
«Ehi, Sarah», disse Theresa venendoci incontro lungo il corridoio. Era favolosa con i capelli legati.
«Che succede?», chiesi, con un sapore amaro sulla lingua.
«Vieni sul retro. Voglio mostrarti una cosa».
Johnny mi lasciò la mano e mi sospinse in avanti.
Seguii Theresa per il corridoio ed entrammo in una spaziosa stanza sul retro. Johnny era sempre dietro di me. Le luci erano soffuse, c’erano delle ampie finestre che si affacciavano sul cortile posteriore. Le pareti erano tappezzate di scaffali e provviste varie: flaconi di detersivi, prodotti chimici, vernici a spirito e colori a olio. Pennelli e colle. C’erano due grandi tavoli da lavoro con una miriade di opere d’arte e oggetti di ceramica danneggiati, o in fase di restauro, a seconda dei punti di vista.
C’era un cavalletto coperto da una tela ruvida. Theresa si fermò in mezzo alla stanza. Poi allargò le braccia e tirò un respiro profondo. «Ecco, questo è il mio laboratorio casalingo». Lei e Johnny si scambiarono un altro sguardo d’intesa. Me lo figurai mentre lasciava il sentiero principale in mezzo al bosco per andare ai suoi appuntamenti segreti con Theresa.
Johnny le fece un impercettibile cenno col capo e lei sollevò la copertura di tela gettandola dietro al cavalletto. La copertura svolazzò a terra. L’odore di vernice divenne più forte. Theresa si fece da parte e scoprì un dipinto che non mi sarei mai aspettata di rivedere. Restai senza fiato, non riuscivo a parlare.
«È a questo che sto lavorando, nei ritagli di tempo», spiegò Theresa. «Johnny me l’ha portato dopo l’incendio».
Fissai la topina Miracle, il dipinto era in parte restaurato. Non c’era la cornice. La parte inferiore, circa un terzo del quadro, era ancora rivestita da una patina di fuliggine, la vernice si era scurita come se sulla tela ci fosse un’ombra diagonale permanente. Ma il buio cedeva il posto alla luce. I primi due terzi del dipinto sembravano nuovi, rigenerati, vivaci.
Mi avvicinai al dipinto al rallentatore, allungai una mano e poi la ritirai. Il colore era ancora fresco. Quella era Miracle, i baffi sembravano veri, si muovevano quasi. Miracle, con i suoi occhiali lucidi, i suoi occhi sapienti. Un orecchio piegato in avanti, gli occhiali tondi che le scivolavano sul naso.
Mi voltai verso Johnny con gli occhi pieni di lacrime. «Quando lo hai trovato? Come ha fatto il dipinto a salvarsi?»
«È l’unica cosa del tuo studio che non è bruciata completamente. Un miracolo».
«Sì», mormorai.
«Era annerito e deformato», disse Theresa. «La tela era crepata. La pittura gravemente danneggiata dal fuoco. Quando Johnny me l’ha portato, non era sicuro che fosse recuperabile, e neanch’io. Ma gli ho detto che ci avrei provato. Mi ha spiegato che questo quadro significa molto per te».
Le lacrime mi rigarono le guance. «Grazie... sì. Lo ha dipinto mia nonna. Pensavo... pensavo che Miracle fosse perduta per sempre».
«Posso schiarire il resto del dipinto, ma ci vorrà un po’», riprese Theresa. «Avevamo in mente di dartelo a dicembre, per il tuo compleanno».
«Solo che tu continuavi a seguirmi», intervenne Johnny. «Io venivo qui a controllare i progressi di Theresa con il lavoro, ma tu hai deciso di metterti a fare la detective».
Cos’era quello? Un flash della vita che avevamo un tempo, un pallido raggio di sole nel buio? «Io... non mi ero resa conto. Theresa, grazie. Tu fai davvero miracoli».
«No. Ma ci provo. Non si può recuperare tutto», replicò lei. «Miracle non tornerà esattamente quella di prima, ma ci assomiglierà parecchio, te l’assicuro».
«Il restauro è la sua specialità», disse Johnny. «Avrei voluto dartelo a lavoro ultimato, ma come vedi non è ancora finito».
Annuì, e Theresa si guardò le scarpe. «Quando hai cominciato a farmi domande, mi hai colto alla sprovvista», continuò lui. «Accumulavo una bugia dopo l’altra. Non ci sono abituato. Non sono perfetto, però non sono un bugiardo».
Mi asciugai le lacrime. «Quasi mi dispiace che non sarà una sorpresa».
«Abbiamo tenuto il segreto finché abbiamo potuto», disse Theresa, sorridendo a Johnny. Lui alzò le spalle e guardò a terra.
Tornammo tutti alla porta d’ingresso e Johnny mi riaccompagnò al cottage.
«Quand’è che possiamo risolvere questa faccenda?», chiese. «Io voglio stare con te».
Lo guardai negli occhi, non sapevo bene cosa ci vedessi. Sembrava sincero, pentito. «Ti credo, e quello che hai fatto... è bello e premuroso».
Si avvicinò. «Non voglio stare lontano da te. Non riesco a dormire. Non riesco a mangiare».
Neanch’io. «Mi serve ancora un po’ di tempo. Per metabolizzare il tutto».
«C’è una chance per noi?», chiese.
Esitai un istante, poi risposi: «Sì, c’è ancora una chance».
Lui tirò un lungo sospiro di sollievo, tutto il suo corpo si rilassò. «Bene». Mi sfiorò la guancia e fece per tornare alla macchina, proprio quando Ryan Greene parcheggiò davanti a casa nostra. Quando scese dal furgone, il suo volto era serio. Sembrava che lo avessero interrotto mentre faceva ginnastica. Indossava le scarpe da jogging e una tuta che si adattava perfettamente alla sua corporatura alta e muscolosa, i capelli erano umidi e scompigliati.
Mi irrigidii all’istante, avrei voluto girarmi e scappare a gambe levate. Se avesse tentato di interrogarmi un’altra volta, mi sarei rifiutata.
«Ho pensato che voleste saperlo», annunciò Ryan. «Crediamo di aver identificato il colpevole dell’incendio».