Capitolo 14
Sulla via del ritorno a Shadow Bluff Lane, mi ritrovai a fare una piccola deviazione e a svoltare nel vialetto di Eris. Cercai di ragionare su ciò che avevo appena scoperto su Mia. Avevo dato per scontato che Chad fosse il padre biologico della bambina, ma se la mia supposizione fosse stata sbagliata? Monique mi aveva raccontato di un matrimonio celebrato in fretta e furia quattro anni prima, il che voleva dire che Mia doveva già esser nata quando Chad e Mia si erano sposati. In ogni caso, la genealogia di Mia non riguardava nessuno.
Quando Harriet era tornata a casa, mi aveva chiesto di tenere Mia per una notte il weekend successivo. Doveva tornare all’ospedale per fare dei test più approfonditi. Sembrava tesa e stanca, appesa a un filo.
Avevo acconsentito subito. Ma non avevamo giocattoli o libri a casa, e non c’era un posto per far dormire Mia al cottage, perciò avevo chiamato Eris per chiederle se poteva prestarci un letto. Ecco perché ero lì ora. Quando mi avvicinai al portico appena ridipinto, trovai Todd Severson che sistemava le ringhiere, con un martello in mano. I suoi capelli scuri, il suo viso spigoloso, sembravano assorbire la luce del sole.
«Entri, è al piano di sopra, sta facendo ginnastica», disse. Mi lanciò un’occhiata lunga e penetrante.
«Grazie», dissi. «Forse non dovrei disturbarla?»
Si appoggiò sui talloni. «Ha intenzione di portar via il letto da sola?».
Mi avvamparono le guance. «Non ci avevo pensato».
«È pesante. Mi ha detto che avrei dovuto aiutarla io».
«Lo apprezzo molto. Volevo chiederle cosa intendeva…».
«Riguardo cosa?»
«Mi stava per dire qualcosa prima».
«No. Non me lo ricordo». Riprese di nuovo a lavorare con il martello.
E va bene, allora. Forse non aveva avuto niente da dirmi. Aprii la pesante porta d’ingresso ed entrai. La casa di Eris era fresca, ventilata. Un odore travolgente di lucido all’arancia aleggiava nell’aria, un ricordo dei sabati mattina a Sitka Lane, quando preparavo succo d’arancia appena spremuto. La memoria mi accompagnò su per l’ampia scalinata fino al secondo piano.
Una musica con un ritmo battente, ripetitivo, proveniva da una stanza in fondo al corridoio. Svariate foto incorniciate erano appese ai muri. Paesaggi – foreste e vedute sull’oceano – e una fotografia di Eris adolescente, in piedi tra un uomo e una donna con volti gentili, probabilmente i suoi genitori.
Da una stanza sulla sinistra proveniva della dolce musica classica. Bussai, ma non ottenni risposta. La porta era chiusa a chiave. Attesi un momento, con le orecchie tese in ascolto.
Generi opposti di musica provenivano da lati opposti del corridoio.
Il ritmo battente si interruppe ed Eris emerse dalla stanza. «Sarah! Non ti avevo sentita entrare».
«Scusami. Io… Todd ha detto che…».
«Certo, il letto». Eris sorrise mentre mi si avvicinava, saltellando sulle punte dei piedi. Indicò con la testa la stanza chiusa a chiave. «Quella è la stanza per rilassarmi. Prima ero in quella di zumba». I suoi pantaloni di lycra attillati per fare esercizio luccicavano, aveva una fascia attorno alla fronte. «Avanti. Seguimi». Eris mi condusse dall’altra parte del corridoio, in una camera da letto in più che era diventata uno sgabuzzino. Estrasse un lettino da dietro una grande foto incorniciata dello Space Needle di Seattle. «È un lettino da campeggio, vedi, si allunga».
«Perfetto», dissi. «Ti ringrazio moltissimo».
«Lo stavo tenendo da parte per il mio fidanzato. Credo che adori andare in campeggio». Mi fece l’occhiolino mentre trasportavamo il lettino oltre degli ostacoli, verso la porta.
«Oh? Hai un fidanzato?».
Eris mi lanciò un’occhiata cospiratoria. «Non dirlo a nessuno. Sono ancora nel bel mezzo del divorzio. Lo so, mi sono ripresa in fretta».
Sorrisi. «Buon per te. Congratulazioni».
«Lui è ancora imbrigliato in una situazione difficile. Ma alla fine si sistemerà tutto, e staremo insieme». Raggiunse la porta, la aprì con una spallata.
«Spero che vada tutto per il meglio».
«Anche io».
Trasportammo il lettino al piano di sotto e fuori sulla veranda di legno. Era incredibilmente pesante. Todd se lo caricò in spalla e si avviò al suo pick up.
«Possiamo vederci più tardi, se hai tempo, per una passeggiata nei boschi», disse Eris. «Posso farti vedere il sentiero che conduce al fiume».
«Fantastico. Ci vediamo dopo».
Salutai Eris e tornai al cottage, con Todd che mi seguiva nel pick up. Portò il lettino in casa e lo montò nella camera in più. Prese una fotografia dal tavolo. Era una foto di Monique, Chad, Johnny e me che pattinavamo sull’unica pista di pattinaggio in città, due inverni prima. Mi ero dimenticata di quella foto. Johnny l’aveva tenuta nel suo portafoglio. Todd la fissò e aggrottò le sopracciglia, incupendosi.
«L’incendio emanava un calore maledettamente torrido». Potevo quasi vedere le fiamme riflesse nei suoi occhi. Poi, la sua faccia si accartocciò, e una lacrima gli scivolò sulla guancia.
Non avevo idea di cosa dire. Nessuno sconosciuto era mai scoppiato a piangere davanti a me. «Mi dispiace», fu tutto quello che riuscii a tirar fuori. «Hai fatto tutto quello che potevi», commentai, passando al tu.
«Sì». Si asciugò gli occhi e si avviò alla porta, la faccia rossa per l’imbarazzo. «Scusa. Sono stato un idiota».
«Non ti preoccupare. È tutto a posto. Siamo esseri umani».
Aprì la porta, poi si voltò a guardarmi. «Avete già trovato una sistemazione?». Guardò verso la casa con il tetto spiovente dei Minkowski, poi di nuovo me.
«No. Perché?»
«Quando la trovate, accertati che sia il più lontano possibile da questa città».
«Perché dovrei voler fare una cosa del genere?». Un torpore si diffuse verso l’interno della mia mano a partire dalle dita. «Sai qualcosa sull’incendio? Perché dovremmo voler lasciare la città?».
Sembrò uscire da uno stato di trance. Mi guardò, gli occhi iniettati di sangue, tormentati. «Se fossi in te, e sapessi che qualche folle figlio di puttana ha cercato di farmi bruciare viva, me la darei a gambe levate». Si avviò al suo pick up, e io lo rincorsi.
«È questo che volevi dirmi prima?».
Montò sul pick up, accese il motore con la portiera ancora aperta. «Non dire a nessuno che l’ho detto, ok?»
«Ma perché?».
Sospirò, chiudendo la porta. Abbassò il finestrino. «Tutto quello che so, è che se fosse capitato a me, sarei già bello che sparito». E poi se ne andò.