Capitolo 17

Ripresi il cammino attraverso i boschi. Il cielo divenne scuro, la pioggia formava una cortina semitrasparente sul sentiero. Minuscole gocce d’acqua colpivano le foglie a ritmo intermittente, come passi leggeri di creature invisibili. Il fiume scorreva impetuoso in lontananza, alimentato in abbondanza dalle colline attorno al lago Wakhiakum. Ora, unito al suono della pioggia, il rumore della cascata sembrava provenire da diverse direzioni, come se il suo corso cambiasse con il vento.

Forse avrei dovuto imboccare un sentiero diverso. Avevo già infranto una promessa seguendo di nascosto mio marito. «Ti puoi sempre fidare di me», aveva detto durante la luna di miele. «Non mettere mai in discussione il mio amore per te». Avevo risposto: «Te lo prometto» e lui mi aveva stretto la mano, il suo sguardo limpido e deciso. «Voglio che questo matrimonio funzioni, perciò devi comunicare con me. Dimmi tutto quello che ti passa per la testa. Subito. Non nascondermi nulla. Non omettere alcun dettaglio». Johnny avrebbe avuto una buona spiegazione per tutto.

I sentieri ramificati parevano moltiplicarsi sotto la pioggia battente. Che svolta aveva preso? Eris si era saputa orientare bene, ma del resto, era da un po’ che abitava da queste parti. Noi ci eravamo appena trasferiti nel cottage. Se Johnny avesse voluto parlare con Theresa, perché non era semplicemente tornato di nuovo sulla strada?

Senza il navigatore sul cellulare, avevo perso del tutto il senso dell’orientamento.

Di solito, il mio cervello aveva più o meno presenti il nord, il sud, l’est e l’ovest, ma senza il sole o dei punti di riferimento, e senza la mia solita lucidità di pensiero, dovevo aver passato il bivio giusto. Una fitta di mal di testa mi trafisse il retro del cranio. I postumi della commozione contribuivano ad annebbiarmi la mente. Mi facevano smarrire la retta via.

Giunsi a un acero giapponese, una spruzzata di rosso acceso nella tetraggine autunnale. Non ero passata davanti a quell’albero all’andata, o forse sì, ma non l’avevo notato, così concentrata com’ero a non perdere di vista Johnny. Gli aceri giapponesi prosperavano nel giardino di mia madre a Portland, un’oasi di natura selvaggia fuori dai confini della città.

«Adoro i colori dell’autunno dei boschi di qui!», mi aveva detto Natalie al telefono, dopo che si era trasferita a Shadow Cove per lavorare all’ospedale locale come nutrizionista. All’epoca io vivevo ancora a Seattle, avevo appena firmato il mio primo contratto con un editore, e non desideravo altro che lasciare la città e tornare nella foresta, dove la mia mente poteva trovare spazio per creare delle storie. «Ti troveresti benissimo qui», aveva detto ancora Natalie. «Ci sono così tanti fiori e alberi, proprio in riva all’oceano». E così mi ero trasferita a Shadow Cove, dove la mia carriera era sbocciata, dove avevo conosciuto il dottor Johnny McDonald. Io avevo compiuto da poco venticinque anni. Lui di anni ne aveva trentaquattro e aveva appena aperto una clinica dermatologica con due colleghi maschi. Il dottor Johnny McDonald, un single affascinante, amico del marito di Natalie, Daniel Kemp, medico di famiglia. Erano andati tutti insieme all’annuale Polar Bear Plunge, dove la mia offerta di un asciugamano a Johnny era stata l’inizio della nostra storia d’amore. Ci eravamo sposati quasi due anni dopo.

Ora potevo sentire il fiume scorrere più in basso. Avevo preso un sentiero stretto e sconosciuto che scendeva su un terreno roccioso fino alla riva. Stavo andando dalla parte sbagliata, ma se riuscivo a raggiungere la riva, potevo svoltare a sinistra e costeggiare il fiume fino al percorso principale.

La pioggia si era attenuata quando raggiunsi la fine del sentiero roccioso. Ero sbucata fuori troppo in là, a valle rispetto alla pericolosa cascata.

Qui, il fiume si allargava in una pozza apparentemente tranquilla e trasparente, sebbene potessi intravedere la corrente sotterranea, distinguibile dalle lievi increspature della superficie. La cascata rumoreggiava e ruggiva in lontananza sulla mia sinistra lungo la strada per il cottage.

Al mio ritorno Johnny di sicuro sarebbe già stato pronto per andare al lavoro. Sarebbe stato lui quello con mille domande. Me lo immaginavo mentre giocherellava con le chiavi della macchina in mano, come faceva quando era impaziente, pronto a uscire. Dove sei stata? Mi stavi seguendo?

Sulla riva del fiume, il sentiero si appiattiva, segnato da diverse impronte. Una fune spessa era appesa a un albero che si piegava sull’acqua. La sponda scendeva dolcemente verso una piccola spiaggia sabbiosa. Sulla riva opposta, una canoa di legno abbandonata era ribaltata sull’erba, con la vernice blu scrostata. Diversi metri a destra rispetto all’imbarcazione, c’era un pontile improvvisato con un edificio diroccato appollaiato sopra. C’era qualcosa di familiare in quella scena: il pontile, l’edificio, i cedri e gli abeti sullo sfondo. Il capanno era di legno, vecchio e muffito, il tetto pericolante in diversi punti, le piccole finestre quadrate parevano orbite vuote. Un vecchio capanno da pesca, pensai. Un tempo c’erano migliaia di salmoni keta in queste acque, che ogni inverno tornavano dal mare per riprodursi nel fiume. Spinti da qualche oscura forza della natura, si accoppiavano, deponevano le loro uova, e morivano. I salmoni sarebbero tornati ancora tra un mese o due, ma il loro numero si era ridotto.

Anche il mio senso della realtà si era ridotto, fluttuando al limite del sogno. Mi resi conto in quel momento perché il panorama mi sembrava familiare. Se avessi sostituito la foschia con un luminoso cielo blu estivo, avrei potuto vedere Johnny seduto su quel pontile, con i piedi immersi nell’acqua e una donna stupenda con un bikini nero seduta accanto che gli sfiorava il braccio. Potevo vedere il capanno da pesca in secondo piano. Ma no, non poteva esser proprio questo il luogo in cui era stata scattata la fotografia. C’era molti fiumi in questo Stato, centinaia di laghi, innumerevoli capanni fatiscenti. Johnny si sarebbe ricordato se la foto fosse stata fatta qui, così vicino al cottage, sul fiume Shadow.