Capitolo 10
Pedra mi si avvicinò di corsa e mi abbracciò, emanando il suo caratteristico profumo di gardenia.
«Lo que es una tragedia». Scosse il capo, i suoi orecchini ad anello che scintillavano alla luce del sole. «Prima l’incendio, ora questo...».
«Ora che cosa? Che succede?»
«Si tratta di Mia», gridò Jessie, uscendo fuori a piedi nudi. Si lanciò tra le mie braccia con abbandono, stringendomi in un disperato abbraccio spezzaossa; sapeva di shampoo al limone e gomma da masticare. I suoi occhi erano truccati con la matita nera.
«Che è successo a Mia?», le chiesi, mentre mi scioglievo dall’abbraccio. «Sta bene?»
«Ho chiamato sua nonna», disse Pedra. «Sai, per vedere come se la cavavano».
«Ha messo le mani su un paio di forbici», si intromise Jessie.
«Ha fatto cosa? Si è fatta male?». Pensai a tutti i pericoli che potevano esserci in una casa per un bambino.
«Si è tagliata i capelli», rispose Jessie.
«I bambini qualche volta lo fanno», dissi.
Pedra scosse il capo. «Ma il fatto è che la nonna è troppo vecchia. Non le presta attenzione, o si addormenta».
«Siamo preoccupate», disse Jessie. «Stiamo per andare là a casa sua…».
«Ci vado io», replicai. «Dove abita?»
«A Ferndale Glen. Ti posso dare l’indirizzo esatto». Jessie spedì l’indirizzo dal suo cellulare al mio. I suoi orecchini di rame a forma di foglia brillavano catturando la luce. Qualcosa mi infastidiva di lei, ma non capivo cosa.
«Non dirle che te l’ho detto», disse. Si allontanò da me e si morse il labbro. «Sai, dei capelli».
«Non ti preoccupare», dissi. «Ho le labbra sigillate».
Mentre percorrevo a ritroso la strada da cui ero venuta, incrociai la Buick nera di Adrian, diretto a casa di Jessie. Era la sua macchina che avevo sentito quella notte? Impossibile a dirsi con certezza. Mentre ci passavamo accanto, mi guardò attraverso il finestrino abbassato. Aveva un fisico possente, scolpito e i capelli lunghi legati. Gli occhi privi di espressione. Era quasi inquietante. Affondai il piede sull’acceleratore, misi il telefono in vivavoce e chiamai Johnny.
Rispose quasi subito. «Giornata impegnativa da queste parti. Mi hai beccato in un momento libero tra due appuntamenti».
«Sto andando a trovare Mia. Si è tagliata i capelli da sola. Me l’ha detto Pedra».
La voce di Johnny si fece più acuta. «Sei andata a casa senza di me?»
«Ho trovato delle foto tue con una vecchia fidanzata. Eravate seduti su un pontile al lago. Sul pontile c’è un vecchio edificio. Chi è quella donna?»
«Dovrei vedere la foto per dirtelo. Ce ne sono state così tante». Credeva che quello fosse un semplice scambio di battute.
«Pensavo di sapere tutto di te». Ma dovevo ammettere che anche io mi ero tenuta qualche foto di vecchi fidanzati. Almeno, prima che l’incendio le distruggesse.
«Esiste qualcuno che sa proprio tutto di qualcun altro?»
«È uno scioglilingua?»
«Hai ancora molto da imparare su di me e viceversa. Ti dirò tutto quello che hai bisogno di sapere».
«Tutto tutto?»
«Tu fammi le domande, e io rispondo. Di solito indossavo i boxer normali prima di passare a quelli bianchi aderenti. Non ho niente da nascondere, eccetto... be’, forse poche piccole cose».
«Tipo?», il mio battito accelerò.
«Tipo che avevo l’acne a dodici anni. Delle pustole gigantesche. Quello è il vero motivo per cui ho scelto di fare il dermatologo».
«Te lo stai inventando».
«Hai ragione. La verità è che mio nonno è morto di melanoma».
«Mi dispiace tanto. Perché non me l’hai mai detto?». Sapevo che suo nonno era morto a cinquant’anni, ma non sapevo perché. Che altro non mi stava dicendo Johnny?
«Non volevo parlarne. Vorrei averlo potuto salvare».
«Ora hai dedicato la vita a rimediare, cercando di salvare gli altri».
«Qualcosa del genere».
«Stai facendo un ottimo lavoro. Oh, sono quasi arrivata. Ti saluto».
Chiusi la chiamata mentre svoltavo in Ferndale Glen e parcheggiai davanti alla casa di Harriet Kimball: un bungalow rosa con un garage doppio e delle spesse tende di pizzo alle finestre. Il giardino era pieno di cespugli di rose, ben curati ma dormienti, in attesa del ritorno del sole primaverile.
Percorsi il vialetto e bussai alla porta di Harriet.
Quando venne ad aprire, pareva essersi impegnata molto per celare la sua età. Il suo viso appariva liscio ma non più giovane, come se avesse stirato ogni ruga per sottometterla, per farla sparire. Uno spesso strato di fondotinta le copriva le guance. Indossava la stessa parrucca castana che ricordavo dalle sue visite a Sitka Lane. Solo che ora era evidente che quella che mi era sembrata una parrucca erano i suoi veri capelli, che spuntavano proprio dalla sua testa. I suoi occhi erano cerchiati di rosso e gonfi.
«Sarah», disse con una voce gutturale.
«Mi dispiace così tanto...».
Le labbra di Harriet tremarono, e si asciugò le lacrime, rovinandosi il trucco. «Dispiace tanto anche a me. Mi dispiace per la tua casa. Non ti potrò mai ringraziare abbastanza per aver salvato Mia».
«Vorrei aver potuto fare di più». Mi sentivo esposta, vulnerabile.
Senza nemmeno pensarci, strinsi forte Harriet, sorpresa dalla sua fragilità. Come poteva essere crudele la vita, come poteva essere priva di senso. Un madre non sarebbe dovuta sopravvivere a un figlio, rimanendo con una manciata di ricordi e una nipotina di cui prendersi cura da sola.
«Hai fatto più che abbastanza». Harriett mi fece entrare, chiuse la porta e si mise un dito sulle labbra. «Sta dormendo», disse piano.
Le mie labbra mimarono un “Oh” e mi guardai attorno, osservando l’arredamento accogliente; tutto era vissuto, ma sontuoso. La casa di Harriet rispecchiava il suo amore per le rose: il divano con rose stampate sopra, sedie del colore delle rose, rose finte in un vaso. Bambole, libri illustrati e fazzoletti appallottolati erano abbandonati qui e là tra le rose.
«Non ha dormito granché», disse Harriet, camminando faticosamente verso il divano e sedendosi allo stesso modo.
Rimasi in piedi sulla soglia del soggiorno. Nell’aria c’era il profumo dolciastro di acqua di rose e di crema Nivea. Guardai in fondo al corridoio semibuio alla mia sinistra e immaginai Mia che piangeva per i suoi genitori e si tagliava i capelli mentre Harriet dormiva. «Posso vederla ora?»
«Magari quando si sveglia». Harriet mi indicò una sedia. «Vuoi sederti? Avrei dovuto offrirti del tè».
Mi tolsi le scarpe e camminai in calzini fino alla sedia per non sporcare il tappeto rosa pallido, anche se delle piccole macchie segnalavano che aveva avuto giorni migliori.
Mi sedetti su una poltrona logora. «Mia sta bene? Tu stai bene?»
«Ce la caviamo».
Dall’altra parte della stanza, un’alta libreria conteneva un vasto assortimento di romanzi, compresa una serie di indagini di Miracle. Mentre Harriet si alzava a fatica e con passo malfermo andava alla libreria, per un attimo mi ricordò la nonna. Mi si chiuse la gola e mi vennero le lacrime agli occhi. Nei suoi ultimi giorni, la malattia aveva ridotto mia nonna, un’artista forte e schietta, a un guscio vuoto e silenzioso. Fino a ora, avevo sempre avuto il quadro di Miracle a ricordarmi la nonna nei suoi giorni migliori.
Quando Harriet si piegò a prendere un vecchio album di foto dalla mensola più in basso, la somiglianza scomparve. I suoi capelli erano troppo scuri, le spalle troppo strette. Si sedette di nuovo sul divano e picchiettò il cuscino accanto a lei. Mi andai a sedere dove aveva indicato.
«Avevo delle foto incorniciate sparse per tutta casa», disse con voce tremula. «Ma le ho messe via. Chad è quasi in tutte. Mi sembra di tradire il mio bambino. Ma non riesco a sopportare di guardarle». Prese un fazzoletto stropicciato dalla tasca del maglione e asciugò altre lacrime dalle guance.
Da qualche parte, un orologio segnalò lo scoccare dell’ora. «Sono sicura che capirebbe. Non dobbiamo guardare le foto».
«Mi sento un tantino coraggiosa, ora che sei qui con me». Le dita di Harriet tremarono mentre apriva l’album e indicava la foto grande tutta la pagina di un bambino che dormiva avvolto in soffici coperte. «Questo è il mio bimbo», sussurrò.
«È bellissimo», replicai. Era. Come riusciva a guardare suo figlio appena nato?
«Lo è sempre stato». Mentre girava le pagine, da neonato biondo e paffuto si trasformò in un robusto bambino dai capelli color sabbia. Ma Mia non gli assomigliava molto. Nella prima adolescenza, aveva acquisito la forma fisica tozza di un giocatore di football in erba. Mia aveva ereditato i tratti delicati di sua madre. Harriet chiuse l’album e si lasciò scappare un sospiro. Le mani le tremavano solo per il dispiacere, o c’entrava anche qualcos’altro?
«Sono davvero delle belle foto», dissi. «A Mia devono mancare molto la mamma e il papà».
Il viso di Harriet si fece duro. «Sua mamma. Chad ha perso la testa per quella donna. Non potei fare nulla per impedirlo. Almeno ho Mia. È una benedizione».
«Potrei vederla ora?», chiesi.
«Va bene, ma ha fatto una marachella».
«Oh, no, cosa ha combinato?», finsi sorpresa.
«Vedrai. Vieni». Harriet mi condusse lungo il corridoio e indicò l’interno di una camera in disordine, tutta dipinta di blu. La stanza doveva esser appartenuta a Chad. Le bambole, i libri e i peluches di Mia creavano un forte contrasto con i poster di Hazzard e Star Wars ancora appesi sui muri. Una scrivania logora e un armadio portavano tutti i segni e le cicatrici dello scorrere del tempo.
Mia dormiva in un lettino accanto alla finestra, sdraiata sulla schiena. Il petto saliva e scendeva con un ritmo irregolare, aveva le guance leggermente arrossate. Indossava dei jeans con le toppe e una maglietta rosa. Un parrucchiere pazzo doveva essersi avventato sulle sue ciocche dorate, tagliando a caso. I ciuffi seguivano una linea irregolare.
«Ha preso le forbici dall’armadio», sussurrò Harriet.
«I bambini sono veloci quando non li stai osservando».
Entrai in punta di piedi nella stanza. Mentre mi avvicinavo, la piccola Mia sospirò e si mosse. Nel sonno, la sua somiglianza con Monique era ancora più impressionante. Naso affusolato con la punta leggermente all’insù, una spruzzata di lentiggini chiare, mento delicato.
Mi sedetti accanto a lei e le baciai la guancia. Sapeva di borotalco. Fece un respiro profondo ma non si svegliò. La sua fronte era fresca e leggermente umida sotto le dita. Dal momento che si era tagliata i capelli, la cute era più visibile. Non pareva avere dei traumi recenti, nessun livido o ferita sulla pelle. Una cicatrice biancastra si intravedeva vicino all’attaccatura dei capelli, forse un taglio guarito o una voglia, simile a quella di Johnny. Le sue palpebre si sollevarono. Si mise a sedere, disorientata, mi gettò le braccia al collo.
Disse qualcosa piano, qualcosa di soffocato.
«Che c’è, tesoro?», chiesi.
Mia ripeté quel che aveva detto, stavolta più forte. «Mamma».