Capitolo 35

«Dov’è zio Johnny?», chiese Mia non appena mise piede nel cottage, con la sua Barbie Principessa in mano. Portava un nuovo paio di scintillanti scarpine da principessa. Il pomeriggio era grigio e umido, il cielo minaccioso ci avvisava della tempesta imminente.

«Non c’è», risposi. «È a Seattle».

«See-at-ul», ripeté Mia, saltando su e giù nell’ingresso. «E quando torna?»

«Tardi». Ma sarebbe arrivato. Quella sera sarebbe tornato a vivere con me. L’impazienza mi scombussolava, non riuscivo a concentrarmi.

Mentre eravamo in auto, dopo aver lasciato Harriet in ospedale, avevo lanciato qualche occhiata furtiva a Mia, cercando di scovare una qualche somiglianza con Johnny. Forse i pollici snodati? O il modo in cui cacciava fuori la lingua? Poteva aver ereditato una di queste caratteristiche da lui?

No, avevo concluso, mentre portavo in casa il pesante borsone di Mia. La bimba aveva una piccola fossetta sul mento, identica a quella di Chad.

«Voglio sentire una storia da zio Johnny», insistette Mia, pestando i piedi. «Buonanotte luna».

«Sei davvero una principessina, eh?»

«Zio Johnny». Mia s’imbronciò leggermente e cominciò a tirare fuori dal borsone una nuova serie di libri di Dr. Seuss. Ecco perché quel coso pesava tanto.

«Sta facendo lezione all’università. Potrebbe tardare». Era stato invitato come oratore a una conferenza di dermatologia pediatrica. Nell’ultima settimana non avevo quasi avuto modo di parlargli, se non per dirgli che ero pronta a sedermi a tavolino per discutere del nostro futuro. La sua voce era diventata allegra e speranzosa. «Non appena torno a casa», aveva detto.

Stasera, stasera, stasera... Non era una canzone?

Mi mancava il suono della sua voce, mi mancavano i giornali sparsi sul tavolo e le briciole sotto la sedia. Mi mancava la passione con cui cucinava i piatti indiani. La sua abitudine di leggermi qualcosa prima di andare a letto. Il fatto che si soffermasse a toccarmi, come se non avesse nessun altro posto dove andare e nient’altro da fare per il resto della sua vita. Il cottage sembrava stranamente grande e vuoto senza di lui.

I Minkowski erano partiti, la loro casa era sbarrata, le imposte chiuse. Erano andati in Florida, perché il padre di Kadin era morto all’improvviso. Il dipinto della topina Miracle era ancora nel laboratorio, in attesa che Theresa finisse di restaurarlo. Eris c’era, ma spesso usciva per andare a un appuntamento o per concludere qualche remunerativo accordo immobiliare.

Il chiacchiericcio incessante di Mia era una piacevole distrazione. La bambina trovava sempre nuovi modi di giocare, non si stancava mai. Mi aiutò a preparare una torta piuttosto complicata, e sparse la farina per tutta la cucina.

Alla fine si sdraiò sulla brandina per fare il sonnellino pomeridiano. Il suo petto si alzava e si abbassava con un ritmo regolare, il suo volto era angelico. Nella luce fioca della lampada somigliava a Monique da giovane. Pareva che avesse cominciato a rivivere il passato, a ricordare la paura provata durante l’incendio. La notte si svegliava piangendo. Ma da quando era arrivata al cottage non avevo notato alcun segno di tristezza in lei.

Mi sedetti sul divano a scrivere con il mio portatile, grata di avere la compagnia di Mia. Probabilmente anche a sua nonna faceva piacere averla intorno. Quella mattina Harriet era sembrata più fragile del solito. Aveva accennato alla sorella che viveva in Vermont. Prenderà l’aereo e verrà, se avrò bisogno di lei. E non aveva forse bisogno di lei in quel momento?

Era da sola in ospedale. Io e Mia eravamo rimaste lì per un po’, ma Mia era diventata irrequieta, così l’avevo portata a casa. Saremmo tornate a trovare Harriet più tardi. Avevo lasciato il mio numero all’infermiera.

Mia dormiva da appena un quarto d’ora quando il mio cellulare s’illuminò. Il cuore mi balzò in gola. Johnny. Forse aveva finito prima del previsto. Ma non era lui. Era Jessie.

«Puoi venire a prendermi?». Aveva la voce stridula e impastata dal pianto.

Risposi in tono sommesso. «Mia sta dormendo. Che succede? Sei con Adrian?»

«No. Sto venendo a piedi a casa tua. Puoi venire a prendermi?»

«Stai venendo a piedi da dove?»

«Sono su Cedar Drive, mi mancano tipo tre chilometri e sta piovendo».

«Non posso lasciare Mia da sola. Non puoi chiamare i tuoi genitori? Che sta succedendo?»

«Sarah, per favore. Non posso chiamarli». Jessie scoppiò a piangere a singhiozzi.

«Stai bene? Vuoi riattaccare e chiamare il 911?»

«No, voglio... voglio te».

«Puoi prendere un taxi fino a casa?»

«Ho preso un taxi fino a qui, ma poi ho finito i soldi».

«Continua a camminare lungo la Cedar. Ti troverò».

Chiamai Eris per chiederle di venire a occuparsi di Mia e dopo qualche minuto me la trovai sulla porta, che scrollava l’ombrello con indosso un paio di jeans e un impermeabile. Si tolse gli stivali infangati. «Dov’è la bambina?», sussurrò. Sembrava pallida, aveva delle occhiaie scure sotto gli occhi.

«Stai bene?», le chiesi.

«Benissimo». Ma non sembrava affatto. Forse aveva litigato con il fidanzato. Erano un po’ di giorni che non si vedeva da quelle parti.

«È in camera da letto». Le mostrai Mia che dormiva sulla brandina. «Torno presto».

«È in buone mani, tranquilla», disse Eris.

«Grazie per essere venuta». Presi le chiavi e la borsa. «Non so cosa sia accaduto a Jessie, ma a sentirla direi niente di buono».

«Hai chiamato i genitori?», chiese Eris sottovoce.

«Ho lasciato un messaggio a sua madre».

«Vai, allora, sbrigati».

Guidai lungo Cedar Drive scrutando i marciapiedi attraverso la pioggia torrenziale. Finalmente scorsi una figura ricurva. Accostai e aprii la portiera del passeggero. Jessie salì, sembrava un pulcino bagnato in quella felpa con il cappuccio, era completamente zuppa. Le tremarono le mani quando appoggiò lo zaino fradicio sul sedile. Mi allungai verso di lei e chiusi lo sportello. Puzzava di sigarette speziate e lana bagnata.

«Allacciati la cintura», le ricordai.

Jessie agganciò la cintura con le dita tremanti.

Mi allontanai dal marciapiede e feci un’inversione a U.

Jessie mi guardò da sotto il cappuccio, il viso adombrato. «Dove andiamo?»

«Ti porto a casa».

«Pensavo che saremmo andate da te».

«Non posso portarti a casa mia. Devi parlare con i tuoi».

«Ma non posso». Si prese il volto fra le mani, le spalle scosse dai singhiozzi.

«Perché no?»

«Ecco perché». Si tolse il cappuccio e si scoprì il viso, rivelando un livido nero sulla guancia, un occhio gonfio, un labbro spaccato e sanguinante.

Restai senza fiato e per poco non andai a finire nel canale di scolo. «Io lo ammazzo quello stronzo».

Jessie non disse nulla, le tremavano le labbra.

«Ti porto in ospedale», dissi.

«No, Sarah, per favore».

«Non discutere».

«I miei genitori lo scopriranno».

«Risolveremo tutto, okay?». Puntai dritto verso il Cove Hospital, le dita strette intorno al volante. Mi trattenni dall’imprecare ad alta voce. «Devi sporgere denuncia».

Jessie si asciugò il naso con il palmo della mano. «Mi odio».

«Non dire così. Non devi dire così».

«Sono così stupida».

«Non sei stupida. Lui dov’è? Devi chiamare la polizia».

«Non voglio. Non so come, ma lui l’ha saputo».

«Che cosa?»

«Di Chad. Qualcuno glielo ha detto».

«Oh, Jessie. Chi altro poteva saperlo? Forse ci è arrivato da solo».

«Non voglio andare in ospedale».

«Ti servono dei punti». Entrai nel parcheggio del Cove Hospital. «Coraggio. Andiamo».

Scesi dalla macchina e digitai il numero di Pedra, mentre la pioggia mi batteva addosso. Accompagnai Jessie dentro il pronto soccorso. «Díos mio», esclamò Pedra al telefono. «Arrivo subito».

Dopodiché chiamai Eris. Restò sbalordita, e imprecò a fior di labbra. «Non ci posso credere. Tienimi aggiornata».

Dieci minuti dopo, Pedra si precipitò nella sala d’attesa con Don al seguito. Erano entrambi pallidissimi. «Jessie, cos’è successo?». Pedra prese il viso di Jessie fra le mani.

Le lacrime rigarono le guance di Jessie.

Presi da parte Don. «Io devo andare. Sto facendo da babysitter a Mia. L’ho lasciata con una vicina».

Lui annuì, lo sguardo sconcertato e furioso. Avevo paura di quello che avrebbe potuto dire a Jessie, temevo che se la sarebbe presa con lei. Ma dovevo andare a casa. Abbracciai Jessie, le strinsi la mano, quindi richiamai Eris mentre tornavo alla macchina.

«Mia è sveglia?»

«Sì. Stiamo facendo un gioco». La sentivo gracchiante e lontana, come se stesse parlando in vivavoce. «Stai tornando?»

«Sarò lì tra dieci minuti».

Quando arrivai, il cottage era buio e silenzioso, si sentiva solo il lieve ronzio del frigorifero e della ventola del mio computer, che per la fretta avevo lasciato acceso. Nessuna traccia di Mia ed Eris. Mia doveva essersi svegliata. Eris doveva averla portata a casa sua. Chiamai Eris sul cellulare, ma partì subito la segreteria.

Nella camera principale trovai il mio diario sul letto. Il diario su cui avevo meticolosamente annotato tutto quello che era accaduto dopo l’incendio, ogni mio pensiero e ogni mia emozione. Non mi ricordavo di averlo lasciato sul letto, ma evidentemente era così.

Ancora con l’impermeabile e gli stivali, mi precipitai fuori e presi il sentiero che attraverso gli alberi portava a casa di Eris. Bussai alla porta, ma non rispose nessuno.

Riprovai a chiamare Eris. Segreteria. La sua auto era ancora nel vialetto, ma in casa era tutto buio. Seguii il viottolo che portava sul retro e sbirciai dalle finestre. Non si vedeva nessuno. Quando bussai alla porta secondaria da cui si accedeva alla cucina, non ottenni risposta. La porta non era chiusa a chiave, così entrai. «Eris! Mia!», esclamai. Sul bancone c’era un piatto pieno di briciole di pane tostato, accanto a una tazza da caffè e a un cucchiaino. Nella sala da pranzo si sentiva l’odore di cera per mobili all’arancio.

«Eris! Mia!». Nessuna risposta. Dal piano di sopra arrivava una delicata musica classica. «Eris! Mia!». Ancora nessuna risposta.

Salii al secondo piano e seguii la musica fino alla stanza che Eris usava per rilassarsi. Dall’interno arrivavano le note attutite di un concerto brandeburghese. Bussai, ma non rispose nessuno. Girai la maniglia e la porta si aprì con estrema facilità. «Siete qui?», chiesi nella penombra. Dall’unica finestra filtrava una luce fioca, che illuminava un copriletto sgualcito e lasciava intravedere le sagome di un comò, di una sedia e di una libreria. Forse Eris aveva portato lì Mia per farla calmare. Ma di nuovo non rispose nessuno.

Nell’aria si sentiva un forte odore di incenso e profumo. Schiacciai l’interruttore accanto alla porta e sul soffitto si accese una fila di faretti. Restai senza fiato e per poco non caddi all’indietro. Il concerto continuava, anche se era un insolito accompagnamento per la scena assurda che mi trovai davanti. Non c’era nessuno lì dentro, tuttavia Eris aveva trasformato la stanza in un santuario, in un tempio, ma non in onore di una divinità. No, in quella stanza Eris venerava Johnny.