Capitolo 3

Mi svegliai in una stanza grigia e scialba, con una maschera premuta sul viso che mi forniva ossigeno umido. Mi allungai per tastarmi la fronte dolorante, le mie dita incontrarono una fasciatura ruvida. La testa mi pulsava come se ci fosse caduto sopra un edificio intero. Qualcosa mi pungeva sul dorso della mano, l’ago di una flebo che mi iniettava liquidi nelle vene. Ero sotto un lenzuolo fresco e una coperta, e indossavo un camice di cotone morbido e dei calzini. Dove erano finiti i miei vestiti? Dov’era la mia borsa? L’avevo data a Pedra.

Potevo vedere una porta aperta che dava su un piccolo bagno, una finestra che si affacciava sui boschi, un ripiano di metallo con sopra un contenitore di caffè di carta che aveva impresso di lato il logo blu del Shadow Café.

In che ospedale mi trovavo? Da quanto tempo ero priva di conoscenza? A giudicare dalla posizione della tenue luce del sole, ero certa che dovesse essere pomeriggio. Una voce distante echeggiò in un citofono, delle scarpe dalla suola morbida scricchiolarono fuori dalla stanza e, nonostante la maschera, annusai, insieme a quello dell’alcol disinfettante, altri odori tipici di un ospedale.

Una voce profonda, familiare, parlava a bassa voce appena fuori dalla porta. Provai a mettermi seduta, ma il mio corpo sembrava fatto di piombo. Ogni tanto mi giungeva qualche parola.

«...devo stare con lei», disse un uomo. «Non so per quanto. È mia moglie».

Mi tolsi la maschera e chiamai: «Johnny!». La mia voce uscì flebile e roca, ma in qualche modo lui mi sentì. Si precipitò nella stanza, lasciando cadere il cellulare nella tasca del cappotto. Sotto la giacca aperta, indossava un’elegante camicia bianca, tutta stropicciata, e portava dei pantaloni neri. I suoi capelli scuri erano tutti in disordine, il suo viso pallido e tirato. Nonostante il suo aspetto disordinato, trasudava virilità da tutti i pori, emanava un carisma ipnotico.

I suoi magnifici occhi blu tradivano tutta la sua preoccupazione mentre si piegava sul letto e mi abbracciava.

«Sarah», disse. Mi baciò la guancia, le labbra, e io gli misi le braccia attorno al collo. Come mi era mancato toccarlo, sentire il profumo di pino della sua pelle.

«Dove sono?», gli sussurrai all’orecchio.

«Sei al Cove Hospital. Hai una commozione cerebrale. Sei stata colpita da una trave».

L’ultima cosa che mi ricordavo era di aver dato Mia a Pedra. «Da quanto sono qui?».

Controllò il suo orologio da polso, il cinturino d’argento scintillante sotto la luce. «Sono quasi le due». Si sedette su una sedia accanto al letto, senza lasciare la mia mano.

Mi sentivo come una foglia secca sul punto di essere spazzata via dal vento. «I Kimball? Chad e Monique?»

«Loro...». Le sue parole si spensero, gli occhi pieni di dolore.

«Che cosa stai cercando di dirmi?».

Scosse il capo, stringendomi la mano. La sua espressione desolata fu più che eloquente. Mi sentii paralizzata, la mia mente si aggrappava a un’immagine di Monique. Il suo sorriso pieno di vita, il suo vestito cangiante, tutto di lei in una sequenza fluida. «No. Non può essere vero».

«Mi dispiace così tanto», sussurrò Johnny.

Ebbi un sussulto, mentre le lacrime mi rigavano le guance. Mi venne in mente un ricordo banale, quello di Chad che toglieva del pepe da un trancio di salmone che Monique aveva marinato per il barbecue. Chad odiava il pepe.

Come era possibile che entrambi fossero scomparsi per sempre? «E Mia?»

«Sta bene».

«Ma è rimasta orfana ora. Lei…».

«È con la nonna». Johnny si distese nel letto accanto a me, il suo peso fece sprofondare il sottile materasso dell’ospedale. Mi strinse tra le braccia.

«E gli altri?»

«I vicini? Stanno tutti bene. Ho mandato un messaggio a tua madre. Sta andando a Nairobi, così può telefonare».

«Non voglio che si preoccupi…».

«Sai che lo farà». Tirò fuori un fazzoletto stropicciato dalla tasca e me lo passò. «Che diavolo è successo?».

Mi asciugai le guance. «Non ne ho idea. Andava tutto bene... un rumore mi ha svegliato».

«Che rumore?»

«Un’esplosione o qualcosa del genere. E casa nostra?»

Intrecciò le sue dita con le mie. «È terribilmente danneggiata. Ok, è andata distrutta».

«Del tutto? Ma i pompieri stavano arrivando…».

«Il secondo piano era già in fiamme. Non hanno potuto fare niente. Al momento, la casa non è agibile».

Ricordai i carboni ardenti trasportati dal vento. Ma come poteva essere accaduto che una casa intera fosse andata distrutta? E che Monique e Chad fossero morti? La stanza si restrinse, delle voci nel corridoio mi infastidirono. «Quando possiamo tornarci? Devo vedere…».

«Devi stare qui per un paio di giorni. Torneremo quando la tua testa sarà a posto».

Mi scappò una risata ironica e senza gioia. «La mia testa non andrà mai a posto, mai più».

«Mi dispiace tantissimo». La sua tasca emise una lieve vibrazione. Estrasse il telefonino, lanciò un’occhiata allo schermo, poi lo rimise via. «Sono quelli dell’assicurazione sulla casa. Li richiamo dopo».

«Hai già preso accordi con loro?». Ma certo che sì. Johnny era sempre stato efficiente. Giocava d’anticipo, un tratto che ammiravo in lui.

«Dovevo accertarmi che ci rimborsassero l’affitto per la nostra sistemazione temporanea», disse. «Ho parlato con la società elettrica, e con quelli della fornitura di acqua e gas. La corrente e l’acqua sono state chiuse. È tutto sistemato».

Ma no, non tutto. Non i nostri ricordi, non l’immagine perfetta della prima volta che avevo messo piede a casa di Johnny. Mi aveva invitato a cena, era il nostro secondo appuntamento, e aveva comprato la mia pianta da esterno preferita, un’ortensia celeste in vaso. Si era dimenticato di togliere il cartellino con il prezzo. Ma mi aveva scaldato il cuore con i suoi sforzi per impressionarmi, soprattutto quando aveva bruciato le lasagne. Avevamo finito per dividerci dei sandwich al burro d’arachidi al lume di candela. Avevo riso alle sue battute, gli avevo raccontato di Miracle. Mi aveva ascoltato rapito, guardando le mie labbra, facendomi sentire brividi d’eccitazione dappertutto, con quei suoi occhi dalle ciglia chilometriche, pieni di promesse. E non c’era voluto molto prima che le nostre chiacchiere cessassero del tutto. Ora avremmo dovuto aggrapparci a quei ricordi, erano tutto ciò che ci permetteva di andare avanti.