Capitolo 18
Mi ero aspettata di trovare Johnny pronto per andare al lavoro, ma quando arrivai al cottage, tremando nei miei abiti leggeri, stava fischiettando sotto la doccia. Come poteva comportarsi come se nulla fosse? Forse non aveva niente da nascondere, ed ero io quella che vedeva il mondo attraverso lenti distorte, la mente diffidente colpita dalla tragedia e dal trauma cranico.
L’orologio appeso al muro della cucina mi informava che erano passati solo quarantacinque minuti da quando ero uscita.
Mi era sembrato di essere stata via molto più a lungo. Il tempo aveva rallentato nella foresta. Ma dentro il cottage, il giorno correva veloce. L’aria era densa, calda e umida in modo opprimente. Johnny si faceva sempre la doccia bollente. Il vapore usciva dal bagno e appannava le finestre del soggiorno. Il profumo del sapone alla lavanda riempiva l’ambiente.
Avevo lasciato la fotografia sul tavolo della seconda camera da letto, la stanza che ora lui utilizzava come ufficio, solo che non riuscivo più a trovarla da nessuna parte. Dovevo confrontare l’immagine con il luogo che avevo visto al fiume. Ma la mia ricerca non ebbe un esito fortunato.
Entrai in bagno.
«Sono tornata», dissi con finta allegria. «Com’è andata la tua corsa?»
«Com’è andata la tua passeggiata? Ne hai fatta una bella lunga».
«Mi sono persa», dissi. «Mi sono ritrovata su un sentiero sconosciuto».
«Monella. Non hai portato il telefono».
«Non credevo mi sarebbe servito».
«Porta sempre il telefono».
«La prossima volta lo prenderò».
Fece capolino da dietro la tenda della doccia. I suoi capelli erano pieni di shampoo, l’acqua gli scorreva lungo il corpo, appiattendogli i peli sul petto.
«Sta piovendo là fuori?»
«Sì». Mi guardai gli abiti, e mi resi conto di esser zuppa.
«Salta in doccia con me. Veloce». Mi sorrise in quel suo modo diabolico.
Forza, una sveltina.
Mi tolsi i vestiti e lo raggiunsi sotto il getto caldo e rassicurante.
Il freddo e la pioggia mi erano penetrati nelle ossa; mi appoggiai contro di lui, chiusi gli occhi, e sentii le sue mani che mi accarezzavano il corpo; ogni terminazione nervosa pareva risvegliarsi al calore del suo tocco. Gradualmente, smisi di tremare. «Ti ho visto», dissi, mentre mi baciava sul collo.
«Mmm», replicò, spostando le labbra sulla mia spalla.
«Intendo dire che ti ho seguito», precisai.
Mi baciò di nuovo sul collo, prese i miei seni con le mani. «Perché non mi hai urlato di fermarmi? Ti avrei aspettato».
«Ti ho seguito fino al giardino dei Minkowski e ti ho visto entrare dalla porta sul retro. Ho visto che lei ti faceva entrare».
Le sue mani si allontanarono subito da me. «Ah sì?»
«Che cosa ci facevi là?». Mi voltai per affrontarlo. Lo spazio della doccia era troppo angusto per contenere entrambi. Troppo angusto e scivoloso. Sarei potuta cadere facilmente e avrei potuto battere di nuovo la testa.
Sbatté le palpebre, gli occhi gli si incupirono. «Mi ha chiesto di fare un salto», disse dopo un attimo di esitazione. «Ho dato un’occhiata a Kadin Junior. Sua madre era quasi isterica per quello sfogo. È una reazione allergica. Starà bene».
«È fortunata che tu sia disponibile a fare visite a domicilio».
Mi stava dicendo la verità? Mi resi conto, mentre lo guardavo negli occhi, che non sapevo dirlo con certezza.
«Sarah, non pensi... non puoi...». Mi sollevò il mento, obbligandomi a fissarlo negli occhi. «Credi che io sia andato là per... Ma dai».
«Come faccio a sapere che non è così? Mi sveglio nel cuore della notte e sei là, e ora ti infili in questa strada secondaria nei boschi, come se tu la conoscessi bene».
«Corro nei boschi tutti i giorni», replicò, stringendomi tra le braccia, attirandomi a sé. «Correvo da queste parti prima di conoscerti. Sì, sono finito là un’altra volta prima d’ora. Mi ricordo i sentieri. Niente di cui preoccuparsi. Ha chiamato la clinica e la chiamata è stata passata a me. Ero già fuori. Quindi sono passato di là».
«Tutto qui?»
«Tutto qui, giuro. Perché non ci hai raggiunto? Hai lasciato che la cosa diventasse più grande di quella che è. Ti immagini le cose».
«È il mio lavoro immaginare cose. Sono una scrittrice».
«Una delle molte ragioni per cui ti amo».
«La foto di te sul pontile con quella donna. L’hai fatta sparire?»
«Quale foto? Oh sì. No, perché?»
«Non riesco a trovarla. Non ti ricordi…?»
«No», disse velocemente. Si stava sciacquando ora, e si preparava a uscire dalla doccia.
«Mi sono ritrovata per caso giù al fiume. La foto è stata scattata lì, sul pontile?»
«Mostramela di nuovo... te lo saprò dire». Quando mi guardò, le sue sopracciglia erano aggrottate, la sua espressione guardinga.
«La foto è sparita», dissi.
«Io non ne so niente», disse, il tono di voce ormai sull’orlo dell’irritazione. «Che cosa sono tutte queste domande?»
«C’era una costruzione nella foto, un capanno da pesca. Ne ho visto uno simile oggi. Sembrava lo stesso».
«Potrebbe essere. Non ne sono sicuro».
«Davvero non ti ricordi?»
«Ma perché ti importa? Guarda, sei suscettibile. Lo capisco. Però non ti sto mentendo».
«Non dare la colpa di tutto questo alla mia infanzia», dissi.
«Invece è proprio questo il punto». Uscì dalla doccia, lasciandomi sola sotto il getto che si andava raffreddando.
Le sue parole mi facevano male, ma aveva ragione. Quando mio padre aveva lasciato me e mia madre, si era lasciato alle spalle il suo passato, tutta la sua vita. Sua moglie e sua figlia. Aveva voltato le spalle alla sua famiglia per una modella più giovane. Mi ero detta che non mi importava, che non mi interessava che mandasse biglietti e regali solo in occasioni speciali, quando se ne ricordava. Si era trasferito a Londra, il più lontano possibile da noi. Era come gettare sale su una ferita mai del tutto chiusa, sempre pronta a riaprirsi.