Capitolo 19

«Johnny ha una relazione clandestina. È questo che vuoi che ti dica?». La voce di Natalie gracchiò, come se fosse ben più lontana che in India, come se fosse sulla luna.

«Mi stai facendo passare per una paranoica». Le lacrime erano pronte a scendere da un momento all’altro.

«Te le stai facendo tutte da sola, le paranoie», disse Natalie. «Credi davvero che andrebbe a letto con la vostra vicina incinta?»

«Ha detto che non ci è andato a letto».

«E allora non ci è andato».

«Hai ragione. Devi avere ragione». Misuravo a grandi passi il cottage, sistemando quelle poche cose che avevano creato disordine: fogli e penne, tazze e piatti, e le copie patinate del nuovo libro di Miracle, che erano arrivate quella mattina in una scatola. Di norma, sarei stata contentissima di stringere tra le mani il mio nuovo libro stampato, ma quel giorno sentii solo un’emozione vaga.

«Johnny non ti tradirebbe mai. Ti ama più della sua stessa vita. Ti ricordi quella tipa con cui andava a scuola, quella che si è ubriacata e ci ha provato con lui al vostro matrimonio?»

«Preferirei scordarmela», dissi.

«Ha occhi solo per te, è sempre stato così. Ti ama così profondamente, e io sono tanto gelosa».

«Ma la moglie è sempre l’ultima a venirlo a sapere».

«Tua mamma è stata l’ultima, ma non significa che lo sarai anche tu. Non ogni uomo sulla faccia della terra è assente come quella mina vagante di tuo padre. Non c’è niente da venire a sapere su Johnny. Hai scelto lui per una ragione».

«Ma le nostre vite sembrano fragili, Nat. Abbiamo perso tutto. Non posso perdere anche lui».

«E non sarà così».

«È una delle tue premonizioni?»

«Una buona per una volta».

Mi sentivo come se qualcuno avesse infilato una mano nella mia testa e mi sbatacchiasse il cervello. «Mi fido. Ma se facessi meglio a non farlo?»

«Devi pensare a guarire, rimetterti in sesto, trovare una casa».

Quando riattaccai, tornai a misurare la stanza. Non avevo intenzione di andare da Theresa. Avrei potuto rischiare di fare il terzo grado a una vicina incinta, innocente e gentile. Natalie aveva ragione. Io e Johnny dovevamo trovare un altro posto in cui stare. Chiamai Eris per accettare la sua proposta di mostrarci delle case in vendita.

Entro venerdì pomeriggio, Eris ci aveva mostrato diverse case incantevoli, nessuna delle quali però sembrava fare al caso mio. Un bungalow blu con una spiccata vena artistica, che abbracciava la spiaggia di Moon Cove, aveva troppe finestre. Gli odori dell’esterno filtravano attraverso le fessure, l’odore salato dell’oceano e di un falò vicino che emanava un puzzo nauseante di legno bruciato. Un tempo, l’avrei trovato confortante, mi avrebbe ricordato fuochi da campo e marshmallow infilati nei biscotti, ma non adesso.

In bagno, guardai in alto attraverso il lucernario e osservai le nuvole che si muovevano in fretta sopra la mia testa, mentre Eris e Johnny chiacchieravano in camera da letto.

«Dixondale voleva tutte queste finestre affacciate sull’acqua», stava dicendo Eris. «Alte vetrate per far entrare più luce».

«Art Dixondale ha progettato questa casa?». La voce di Johnny si era fatta più acuta per l’ammirazione. Avevano discusso un architetto dopo l’altro, e poi Eris ci aveva mostrato una casa a due piani a Green Spot; la taverna era collocata dentro la collina, le sue stanze erano buie, il piano terra leggermente umido e muffito. Se si escludeva la vista sul traghetto che sbuffava sul Puget Sound, la casa non aveva offerto niente degno di nota. Eravamo punto e a capo. Ci avremmo messo un bel po’ di tempo a trovare la casa giusta.

Johnny aveva cominciato a correre in strada, evitando i boschi.

Sembrava che stesse volutamente seguendo i sentieri più battuti in piena vista, per rassicurarmi. I miei mal di testa cominciarono a diminuire, ma i miei incubi iniziarono ad avere vita propria, e tutto quello che riuscii a fare quel venerdì pomeriggio fu di stamparmi un sorriso in faccia per badare a Mia.

I suoi capelli avevano cominciato a ricrescere, ma la cicatrice bianca sulla fronte faceva ancora capolino tra le ciocche. Lungo la strada da casa di Harriet al cottage, Mia cantò una canzone di Taylor Swift che davano alla radio.

«Davvero notevole», dissi. «Sai che cosa significa davvero il testo della canzone?»

«Parla di due che si lasciano».

«Sei piena di sorprese», dissi, mentre svoltavo in Shadow Bluff Lane.

«Sono piena di... colazione!».

«Ottimo, così possiamo iniziare subito a divertirci».

Quando Johnny tornò al cottage quella sera, Mia sedeva sul pavimento del soggiorno, coperta di glassa per biscotti, con i capelli raccolti e le unghie dipinte. Giocava tranquilla con le sue Barbie.

Johnny appese il cappotto nel piccolo armadio nell’ingresso e venne da noi.

Ero seduta sul divano, fingendo di leggere, ma in realtà guardavo Mia, persa nel magico mondo di Barbie. Le sue labbra continuavano a muoversi, le sue parole erano appena sussurrate mentre impegnava le bambole in conversazioni segrete.

«Mia, è arrivato lo zio Johnny», dissi.

Mia non diede segno di avermi sentita, si limitò semplicemente a continuare a giocare e a sussurrare tra sé.

«Ciao, Mia». Johnny si inginocchiò accanto a lei, raccolse una Barbie bionda fasciata in un tutù rosa. «Chi è questa?»

«Quella è Barbie Ballerina». Non lo guardò.

«Tu chi vuoi essere?»

«Io sono una principessa».

«Lo sei certamente. Bel taglio di capelli».

Lei alzò lo guardo su di lui e sorrise, le fossette comparvero sulle sue guance da cherubino.

«A casa ho Barbie Fata Turchina. A casa mia, non a casa della nonna».

«Capisco». Johnny mi guardò, e io scossi il capo. Nessuna delle bambole di Mia era sopravvissuta all’incendio.

Lui mise giù la bambola. «Dovremmo comprarne un’altra forse».

«No, ne ho già una. Me l’ha comprata la mia mamma. Mi comprerà più bambole fate». Si mise a svestire un’altra Barbie che si era portata da casa di Harriet. «Voglio Barbie Principessa e la Pop Star».

«Ah sì?». Johnny guardò la pila di libri illustrati sul tavolino. «Hai portato anche qualche storia della buonanotte?»

«Il mio papà mi legge le storie». Le labbra di Mia si piegarono all’ingiù, e, per un momento, sembrò sul punto di scoppiare a piangere. Si stava ricordando l’incendio? «Il mio papà mi comprerà dei regali. Ho Barbie Rocker. Di quella Barbie c’è anche un libro da colorare. Ho bisogno di più pastelli. Il mio colore preferito è il verde della mela».

«Okay, compreremo il verde mela». Si alzò e andò in cucina. Lo seguii. Passò al setaccio la posta, aveva le spalle tese.

«Per quanto hai detto che rimane?», chiese.

«Per la notte», sussurrai.

«Crede ancora che tornerà a casa».

«Ha solo quattro anni».

Mia si zittì all’improvviso in soggiorno, come se fosse in ascolto.

«Eris mi ha parlato di una casa in vendita a Kingstone», disse. Aprì le buste e gettò i volantini nella spazzatura.

«Porto Mia a fare shopping domani», lo informai. «Jessie viene con noi».

«Bello», replicò Johnny in tono assente.

«Devi lavorare».

«Sì, lavorare». Parlava come se fosse su un altro pianeta.

Tornai in soggiorno, soffocando un moto di irritazione, e sorrisi a Mia. «Vuoi andare sulla ruota prima che faccia buio?».

Mia saltò in piedi nel modo spensierato tipico dei bambini, membra sciolte, testa piegata di lato mentre teneva Barbie Ballerina a testa in giù. «Può venire anche lei?»

«Certo che sì. Ma potresti aver bisogno di tutte e due le mani sull’altalena».

«Okay». Mia lasciò cadere Barbie per terra. «Dice che vuole la Casa dei Sogni di Barbie. Ha una cucina con un forno che si illumina e altre cose».

«Forse dovrebbe chiedere a tua nonna». Presi la mano di Mia, e fu una missione impossibile infilarle le scarpe. Johnny scappò nella seconda camera da letto e chiuse la porta. Mia parlò ininterrottamente delle bambole che aveva a casa. Mi disse tutti i loro nomi.

Nel giardino sul retro, aiutai Mia a salire sulla ruota.

«È un’altalena a forma di ciambella!», esclamò, dandosi la spinta con le gambe. La stavo spingendo solo da qualche minuto quando Mia indicò la strada. «Guarda! Un cagnolino!».

«Non abbiamo nessun cane qui». Ma il labrador giallo di qualcuno stava trotterellando per il giardino, con la lingua a penzoloni, il corpo tutto uno scondinzolio.

«Bel cagnolino!», disse Mia, per nulla intimorita.

«Deve essere di un vicino. Rimani qui». Corsi davanti alla casa. Eris passeggiava per la strada accanto a un uomo alto, vestito casual, che teneva un guinzaglio in mano. «Ehi, Sarah!». Mi chiamò e mi fece un cenno di saluto. Era il suo nuovo fidanzato? Li incontrai sul marciapiede, il cane che zigzagava tra le loro gambe. Da vicino, l’uomo aveva un fascino gentile e ammodo.

Richiamò il suo cane, «Briana!», in tono secco, e agganciò il guinzaglio al collare.

Eris accarezzò la testa di Briana, poi mi sorrise, con le guance in fiamme.

«Sarah, ti presento Steve Wessler».

Sorrisi e gli strinsi la mano. «Piacere di conoscerti».

Steve annuì in modo sbrigativo, le labbra serrate, come una crepa orizzontale nell’asfalto. «Dobbiamo rientrare», disse a Eris.

«Abbiamo delle questioni da discutere».

«Sì, questioni da discutere». Eris mi fece l’occhiolino e la coppia si avviò verso casa, con il cane al guinzaglio.

Quando tornai sul retro, trovai la ruota che oscillava gentilmente, senza Mia seduta dentro. La chiamai mentre controllavo che non fosse dietro una catasta di legna, dietro il piccolo capanno al limitare del giardino. La porta era chiusa con un catenaccio. Guardai sul limitare dei boschi. Okay, non farti prendere dal panico.

Infine, sentii un piccolo singhiozzo all’altezza del portico anteriore.

Mia si era nascosta lì, accovacciata con le braccia attorno alle gambe. «Eccoti qui», dissi, mentre tiravo un sospiro di sollievo.

«Ho paura», disse.

«Non ti succederà nulla. Te lo prometto». Ma potevo davvero fare una tale rassicurazione? «Che cosa ti farebbe avere meno paura?».

Mia mi guardò. «La mia mamma che mi dà un bacio per proteggermi».

Gli occhi di Monique apparvero nella mia mente, ma non riuscivo più a immaginare i dettagli del suo viso. «Un doppio bacio protettivo per te», dissi, e le lanciai un bacio. «Esci ora?»

«Forse», replicò.

«Se aggiungessi del gelato al bacio?».

Annuì e lentamente strisciò fuori da sotto il portico. La tenni stretta, accarezzandole i capelli morbidi.

Johnny non si era fatto vedere per tutto il tempo. Si era rintanato nel suo ufficio, e più tardi quella sera, mentre stavo sulla porta della stanza, ascoltandolo leggere a Mia Nel paese dei mostri selvaggi, non mi sentii più così sicura di lui come futuro padre.

Per la precisione in che momento i miei sentimenti avevano cominciato a cambiare? L’avevo sempre immaginato così, mentre leggeva le favole a un bambino. Era cambiato lui, o semplicemente ero io a essere meno sicura di lui?

«Leggilo di nuovo», disse Mia quando Johnny arrivò alla fine del racconto.

«L’abbiamo già letto due volte», disse guardingo.

«Ancora». Che ossessione avevano i bambini per la ripetizione? Ricordavo che da bambina tiravo fuori dalla libreria sempre gli stessi libri di Curioso come George, ancora e ancora, cercando conforto in quelle familiari copertine gialle. Se solo avessi potuto provare ancora quel conforto.

«Okay, ma questa è l’ultima volta, poi si fa la nanna», disse Johnny. Lesse ancora la storia, la sua voce profonda era una ninnananna rassicurante. Gli occhi di Mia si concentrarono sulle illustrazioni fantasiose, grandi tutta la pagina. La bambina aveva la testa appoggiata sulla spalla di Johnny. I suoi occhi pian piano si chiusero.

Quando finì di leggere, Mia non si mosse. Russava piano. Johnny si districò lentamente dalla sua presa e si alzò dal letto. Non avevo mai visto un uomo della sua stazza muoversi così silenziosamente. Mia non si svegliò. Johnny appoggiò il libro sul tavolo, andò in punta di piedi alla porta, e spense la luce.

Di ritorno nella nostra stanza, dopo aver lasciato entrambe le porte leggermente socchiuse, Johnny mi abbracciò e mi accarezzò i capelli. «Allora, che ne pensi? Sono un papà perfetto?»

«Sei stato grandioso», sussurrai di rimando.

«Ma non perfetto», disse lui.

«Nessuno è perfetto».