Capitolo 13

Quando arrivai a casa di Harriet il pomeriggio successivo, l’ordine aveva ceduto il passo ai capricci di una bambina che aveva versato succo di frutta sul tappeto, lasciato un mucchietto di briciole sul bancone e tolto dei libri illustrati dalla libreria.

Le sue impronte appiccicose avevano battezzato ogni superficie disponibile, incluso il telecomando del televisore, maniglie e il tavolo della cucina. Una spruzzata di farina sui banconi mi suggerì che di recente c’era stato un esperimento culinario. I pezzi di un puzzle erano sparsi sul tavolino da caffè, l’immagine di un animale della giungla cominciava a emergere dal caos.

Harriet era uscita di corsa, in ritardo per la sua visita, lasciandomi istruzioni vaghe: far fare un pisolino a Mia se ne aveva bisogno, darle dei cracker a forma di animale e succo di frutta se aveva fame. La bambina sedeva sul tappeto del soggiorno. Un mucchio di pastelli era disposto sul tavolino e lei, con la lingua fra i denti, stava scarabocchiando su un libro per colorare della Disney.

Quel giorno i suoi capelli sembravano tagliati ancora peggio, come se un impazzito tagliaerba in miniatura si fosse avventato sulla sua testa.

Mi sedetti sul divano, distratta.

Quando io e Johnny eravamo tornati al cottage la sera prima, gli avevo menzionato il biglietto nell’ortensia, con le sue frasi così simili alle parole d’amore che ci eravamo scambiati per quasi tre anni. Johnny aveva detto di non sapere nulla di quei fiori.

E perché avrebbe dovuto saperne qualcosa? Si era scusato per non avermi mandato dei fiori, e il mattino dopo mi aveva portato il caffè con il latte di soia normale. Sapeva esattamente quello che mi piaceva. Toast dorati, mai bruciati. Burro d’arachidi liscio e cremoso, senza l’aggiunta di sale.

«Guarda, gli occhi della regina sono... viola!». Mia stava colorando fuori dalle righe, creando forme nuove oltre i confini del mondo Disney.

«Buon per lei», dissi.

Mia lasciò cadere il pastello viola, prese l’indaco, cominciò a colorare la gonna della principessa.

«E blu».

«Conosci i colori».

«Questo disegno è per la mia mamma».

Mia strappò la pagina dal libro e la sollevò perché io la guardassi.

Sorrisi tristemente. «Bellissimo».

Mia girò la pagina, mostrando i contorni di coniglietti felici e cerbiatti.

«Questo è per il mio papà».

«Così tutti hanno un disegno. Che bello».

«Anche la nonna», disse Mia solennemente.

«Anche la nonna, sì». Monique viveva ancora nel movimento del braccio di Mia, mentre si allungava a prendere un pastello verde per gli alberi. Disegnò un cuoricino e qualche ghirigoro sopra la foresta. «E uno è per te».

«Grazie», dissi piano.

Lei indicò gli scarabocchi. «C’è scritto: ti voglio bene».

«Ti voglio bene anche io, tesoro».

Mi fece un gran sorriso, poi strappò un’altra pagina. «Uno è per la mia maestra».

«Non puoi dimenticarti la maestra!». Con le lacrime che mi pizzicavano gli occhi, mi alzai e sistemai i libri nella libreria, raddrizzandoli.

La camera di Harriet, proprio di fronte a quella di Mia, era ancora in ordine: copriletto decorato con delle rose, tende rosa, persino un tavolo da toeletta con una rosa intagliata nel legno sopra lo specchio.

Nella camera degli ospiti dall’altra parte del corridoio, un letto singolo era addossato al muro, un tavolo con una macchina da cucire era sistemato nell’angolo opposto, tessuti e modelli impilati su una sedia accanto a un tavolo e a uno schedario.

Controllai Mia di nuovo. Stava ancora colorando, quindi tornai alla camera degli ospiti, attirata dalla pila di fogli, biglietti di cordoglio e documenti.

Consapevole di ficcare il naso e pur sentendomi vagamente colpevole, non mi trattenni dal dare un’occhiata ai biglietti di dottori, insegnanti, vecchi amici di Harriet, la sua famiglia che viveva sull’East Coast.

Una cartelletta marrone attirò il mio sguardo. Aveva un’etichetta con scritto “Mia”. Dentro c’erano delle copie della sua cartella medica, e sotto il suo certificato di nascita. Mia pesava tre kg e duecento grammi. Era nata alle 2:35 del mattino al Cove Hospital, il tredici febbraio. Sua madre era Monique Beaumont ma il nome del padre non era segnato. Non c’era nemmeno una riga vuota al posto del nome del padre.

Non c’era proprio nulla.