Capitolo 2

Afferrai il mio cellulare dal comodino, chiamai il 911. Mi tremavano le dita. Pensavo di esser sul punto di svenire. Mi rispose la voce nasale di un operatore. «Shadow Cove, dov’è la sua emergenza?»

«La casa dei miei vicini è in fiamme! Venite! La loro bambina…».

«Qual è il suo nome, signora?»

«Sarah Phoenix. I miei vicini sono i Kimball, Chad e Monique. La loro figlia, Mia. Ha solo quattro anni. Sta piangendo nella sua cameretta…».

«Qual è il loro indirizzo, signora?»

«Il loro è Sitka Lane 595. Noi siamo al 599, proprio accanto. Fate in fretta».

«I soccorritori stanno arrivando».

«Quanto ci impiegheranno?»

«I primi soccorritori sono in arrivo dal comando centrale».

A quindici minuti di strada. Chiusi la comunicazione, feci il numero dei Kimball, ma mi diede subito occupato.

Non potevo starmene con le mani in mano. Mi infilai dei pantaloncini e delle scarpe da ginnastica, misi in tasca il cellulare, e corsi in corridoio. Ero a metà delle scale, quando inciampai, rotolai giù per i gradini e atterrai piatta nell’ingresso. Stupida, stupida. Le persone facevano questi capitomboli solo nei film.

In un attimo, ero di nuovo in piedi e, come d’abitudine, presi la borsa dal tavolo e me la misi a tracolla, mentre mi dirigevo alla porta.

I cedri altissimi ondeggiavano nella notte burrascosa. Il fuoco scoppiettava e ruggiva come una creatura viva. Il vicinato risplendeva in un gioco di ombre arancioni, l’aria era satura dell’odore acre del legno bruciato e della plastica. L’allarme dei Kimball non aveva smesso di suonare e i lamenti di Mia giungevano attraverso la cortina di fumo. Si udirono delle grida dall’altra parte della strada. Le porte si aprivano e chiudevano rumorosamente.

Tutto il primo piano della casa dei Kimball era avvolto dalle fiamme.

I genitori di Jessie, Don e Pedra Ramirez, si precipitarono sul luogo dell’incendio in tenuta da notte. Jessie li seguiva in jeans e felpa. Il vicinato confluì nel giardino dei Kimball. C’erano Feliz e Maude Calassis e i Frenkel con i loro gemelli adolescenti in pigiama. Don provò ad aprire la porta d’ingresso dei Kimball, ma era chiusa a chiave. Lukas Frenkel si fece largo tra la folla e diede un calcio alla porta, poi barcollò all’indietro, tossendo, in una nuvola di fumo. Lenny aprì la pompa dell’acqua in giardino e sparò il getto verso le fiamme.

«Ho chiamato il 911», gridò Orla Frenkel sopra il baccano, i tratti spigolosi irrigiditi dalla preoccupazione. La sua camicia da notte sottile di seta svolazzava nel vento.

«Anche io», le urlai di rimando. «Dobbiamo entrare!».

«Non possiamo passare dal davanti», disse Lukas, ancora scosso da colpi di tosse.

«Ma Mia!», ribattei io. «Chad e Monique. Dove sono?»

«Sono ancora dentro!», gridò Don. Lui e Verne Frenkel corsero sull’altro lato della casa. Lenny continuò a innaffiare il lato anteriore, ma il debole getto d’acqua pareva solo alimentare le fiamme.

Mi precipitai alla veranda sul retro, tirando la porta scorrevole di vetro.

«Non entrare là dentro!», disse Orla alle mie spalle, trattenendomi per la manica. «Non è sicuro».

Tornammo di corsa al lato della casa dove, al secondo piano, la cameretta di Mia si affacciava sulla mia camera. Pedra Ramirez si avvicinò con indosso una leggera vestaglia bianca e delle ciabattine rosa. «Dìos mio. Dove sono i Kimball? Dov’è Johnny?»

«A San Francisco», le risposi, senza fiato. Come avevano fatto i miei pantaloncini a bagnarsi?

Jessie aveva aperto la pompa del nostro giardino e l’aveva trascinata fino al vialetto dei Kimball, sparando un inutile getto d’acqua sul fuoco.

Don ci raggiunse di corsa, il viso fuligginoso e cupo. «Non riusciamo a trovare un modo sicuro per entrare. Ho chiamato di nuovo il 911. I soccorsi sono a otto minuti da qui».

Come poteva esser passato così poco tempo? Indicai la finestra della cameretta di Mia. «Prendi una scala. Veloce!».

«Non puoi salire lassù», disse Pedra, con gli occhi spalancati.

«La scala l’abbiamo noi», gridò Don. Lui e Jessie attraversarono di corsa la strada, diretti alla loro abitazione.

Tolsi il telefono di tasca e chiamai Johnny al cellulare. Quando non rispose, chiamai il numero verde delle pagine gialle per avere il telefono del suo hotel e parlai con una donna con una voce briosa alla reception. «Mi dia il numero della camera del dottor Johnny McDonald, per favore. Si tratta di un’emergenza».

«Attenda un attimo, per favore. Gliela passo». Ma il telefono suonò a vuoto. La voce della receptionist tornò in linea. «Non risponde. La metto in comunicazione con la sua segreteria telefonica».

Gli lasciai un messaggio agitato e misi giù, proprio mentre Don e Jessie tornavano con la scala. Don la appoggiò al lato della casa dei Kimball, sotto la finestra di Mia. Un gruppo di vicini si raccolse lì attorno, altri trascinarono altre pompe per la strada, sparando getti d’acqua che si incrociavano nelle fiamme.

«Tieni la scala», dissi con il cuore che galoppava. Infilai il mio telefonino nella borsa e la consegnai a Pedra.

«Tu non ci vai lassù», mi disse Don.

«Posso infilarmi in casa passando dalla finestra», ribattei.

«Anche io», replicò Jessie.

«Tu stai qui. E non discutere». Mi feci strada sgomitando fino alla scala, presi un mattone dal giardino laterale dei Kimball e lo infilai nella tasca della felpa mentre iniziavo a salire.

«Aspetta!», gridò Pedra. «Lascia che ci vada Don».

«Va tutto bene», urlai verso il basso. «Vedete se c’è un altro modo per entrare, qualcosa che ci è sfuggito».

«Ci stiamo lavorando», mi rispose Don, e corse ancora sul retro.

Verne Frenkel si fece avanti e mi tenne ferma la scala.

«A questa ci penso io», disse lui.

«Fai attenzione lassù», mi urlò Jessie.

«Non lasciate andare la scala». Tenni lo sguardo puntato in alto. Le mie ginocchia divennero gelatina, mi sudavano le mani. Strinsi i denti, determinata a ignorare la mia paura dell’altezza. Il fumo aumentava, facendomi bruciare gli occhi e tossire.

In cima, trovai la finestra di Mia aperta di qualche centimetro, ma bloccata. Dentro, una lucina notturna mostrava le forme di un cassettone, di una sedia a dondolo, e di un lettino. Ma Mia non si vedeva. L’allarme si era spento. Un filo di luce segnava il contorno della porta della cameretta. Il fuoco fremeva dall’altra parte, un mostro che cercava di guadagnarsi l’accesso.

«Mia, dove sei?», gridai, attraverso la zanzariera.

Una piccola forma strisciò fuori da dietro il letto. «Sono qui. Voglio la mia mamma!».

«Non ti muovere. Sto venendo a prenderti». Staccai la zanzariera.

«Attenzione là sotto!» Lasciai cadere la zanzariera al suolo. «Allontanati, tesoro».

Mia obbedì e strisciò indietro.

Tenendo la scala con la mano sinistra, agitai il mattone nella destra e infransi il vetro. Lanciai il mattone nella stanza di Mia, sul pavimento, poi mi allungai e aprii la finestra. Un attimo dopo, ero in piedi nella cameretta di Mia e una coltre di calore mi premeva addosso. Avanzai, facendo scricchiolare il vetro con la suola delle scarpe e presi in braccio Mia. Mi parve ben più pesante dei suoi tredici chili. «Aggrappati al mio collo. Non lasciarlo».

Quasi mi strangolò con la sua presa. Due passi dopo, eravamo alla porta della cameretta, il calore quasi ci spingeva indietro.

«Chad! Monique!», urlai. Nessuna risposta. «Ho Mia con me!». Ancora nessuna risposta. Tornai alla finestra e scavalcai il davanzale, una manovra per nulla semplice con una bambina tra le braccia. «L’ho presa!», gridai. «Sto scendendo!».

«Ti teniamo!», Verne mi urlò da sotto. «Fai in fretta».

Mentre scendevo la scala, Mia diventava ogni secondo più pesante, sebbene fosse piccola per la sua età.

«Mammina», piagnucolò. «Le mie scarpette di Cenerentola».

«Te ne compreremo di nuove», dissi. Dov’erano Chad e Monique?

Speravo che Don li avesse trovati, che fossero riusciti a mettersi in salvo.

«Ho paura», sussurrò Mia, guardandomi negli occhi.

«Anche io. Ma andrà tutto bene». Strinsi il corpicino di Mia tra le mie braccia, sperando di non farla cadere. Il puzzo nauseante di prodotti chimici che bruciavano si diffuse nell’aria, e, all’improvviso, qualcosa esplose sopra la mia testa. Una tempesta di detriti mi piovve addosso attraverso il fumo. Le fiamme guizzarono dalla finestra di Mia, carboni ardenti portati dal vento atterrarono sul nostro tetto, facendo prendere fuoco alle tegole di cedro.

Jessie stava gridando di sotto. «La tua casa ha preso fuoco. Sarah, sbrigati!».

In un istante, dei pensieri folli mi vorticarono in mente. Il mio manoscritto, le foto del matrimonio, il mio diario, documenti, passaporti. Il quadro di Miracle. Intagli nel legno della popolazione Kamba spediti da mia madre, che era nei Corpi di Pace in Kenya. La mia fede sul comò. Mi toglievo sempre la fede di notte. Dovevo tornare in casa, ma non potevo essere precipitosa.

Cinque pioli dopo, arrivammo a terra. Mentre lasciavo Mia nelle braccia di Pedra si sentì da lontano l’ululato delle sirene. Il fuoco era divampato sul nostro tetto. La camera da letto era illuminata dall’interno, accesa da un bagliore surreale visibile attraverso il lucernario. Altri detriti precipitarono verso il basso e quando guardai in alto, un enorme oggetto nero si stava dirigendo verso di me al rallentatore, una meteora, un rottame spaziale che rotolava inesorabilmente verso il basso, sempre più giù. Poi non vidi più nulla.