Capitolo 8

Mackenzie

 

 

 

 

 

 

Sento la bocca impastata, come se avessi bevuto litri e litri di alcol. Non ho voglia di aprire gli occhi. Non mi interessa nemmeno sapere che ora è. Probabilmente tardi, perché la luce del giorno trapassa il sottile strato di pelle delle palpebre. Ora che ci penso, come mai non ho chiuso le imposte alle finestre ieri sera?

Con uno sforzo che allo stato attuale ritengo sovrumano, apro prima un occhio, infine l’altro. Il mio sguardo si scontra con un’immagine a cui non ero affatto preparata. Una vetrata a tutta parete mi sorprende, mostrandomi l’incanto di un bosco d’aceri che pare essersi appena svegliato, proprio come me. Mi sollevo in piedi, accorgendomi del divano su cui fino a poco fa ero distesa. Mi guardo intorno e la mente si fa lucida. In un lampo ricordo la cena, la corsa in ospedale, gli aghi e poi il sonno, tanto sonno, così tanto che credo di essere svenuta.

Tutto molto bello, certo, ma il padrone di casa dove diavolo è?

Cerco il cellulare nella borsa. Lampeggia come un forsennato. Mi accorgo che ci sono circa cinque messaggi vocali, una decina di imprecazioni su WhatsApp, e un paio di sms. Decido che è più saggio non richiamare Helena in questo momento, così mi limito a mandarle un messaggio vocale.

 

Tutto okay, non preoccuparti. Sono viva e vegeta, non mi è successo niente. Solo un piccolo imprevisto con dell’olio di arachidi durante la cena col belloccio. Mi ha accompagnata in ospedale e adesso sto bene, come puoi sentire. Devo essermi addormentata di schianto per colpa del sedativo e dell’antistaminico e il belloccio mi ha parcheggiata sul suo divano. Ci sentiamo più tardi.

 

Poco dopo giunge un messaggio di Helena che sbraita parole irripetibili, chiudendo con

 

Te lo fossi portato almeno a letto, e invece nemmeno quello. Sei una buona a nulla. A dopo.

 

Evito di risponderle per non innescare un botta e risposta senza fine e mi infilo le scarpe. Mi aggiro nella magione di Jordan e aspetto che dia segni di vita. Butto uno sguardo all’orologio e mi accorgo che sono solo le sette e quaranta del mattino. Uno come lui a quest’ora sarà ancora arrotolato nelle lenzuola a dormire della grossa.

Ho fame. Torno in cucina. Frugo nella dispensa e nel frigo alla ricerca di qualcosa di buono da mangiare. Trovo delle fragole, del succo d’arancia, delle uova, qualche biscotto integrale, farina, zucchero, latte. Preparo dei pancake, li cospargo con abbondante sciroppo d’acero. Su uno scaffale c’è della crema di cioccolato. Ecco la pace dei sensi.

Trito i biscotti integrali e li impasto insieme a del burro sciolto. Con il composto fodero una teglia da crostata e lo ficco in frigo. Fra una ventina di minuti dovrebbe essere abbastanza solido. Intanto preparo la crema con della panna spray che ho trovato in frigo. Non è il massimo ma è sempre meglio di niente. La mischio a una cucchiaiata abbondante di cioccolato spalmabile assaggiando di tanto in tanto. Alla faccia delle calorie. Taglio le fragole a metà e le lascio da parte. Mi spruzzo la panna spray direttamente in bocca mentre attendo che il composto in frigo si solidifichi per bene. Infine lo riempio con la crema di panna e cioccolato, lo ricopro con la panna spray, lo decoro con le fragole tagliate, sciolgo un po’ di più la crema di cioccolato nel microonde, ne raccolgo un’altra abbondante cucchiaiata e la lascio cadere a filo sulle fragole. Torta fredda finita.

«Sei brava Mac, sei brava», mi dico pregustando il manicaretto improvvisato.

«E piuttosto presuntuosa». Mi volto di scatto verso “La voce”. Il belloccio se ne sta appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate sul petto. Vestito come se dovesse andare a fare trekking, con una maglietta sportiva, un paio di jeans e degli scarponcini, mi guarda con l’aria soddisfatta. «Speravo che fossi scappata e invece…».

«Se mi avessi dato più tempo, forse…».

«Magari dopo colazione?»

«Ho fame. E da qui a casa mia è un bel viaggio. Ho bisogno di forze. Gradisci?».

Jordan si avvicina al tavolo, mi affianca, mi scruta dall’alto del suo metro e che ne so. Spera di mettermi a disagio con la sua aria da duro. Non mi fa alcun effetto. Solo il profumo mi fa pizzicare un po’ il naso.

«Visto che ci sono». Allunga la mano e afferra un pancake. Lo mangia in un paio di bocconi. «Che c’è?», domanda notando il mio sguardo perplesso. «Ho fame anch’io».

«Con tutto questo ben di Dio, ovvio. Scommetto che la tua colazione tipo è caffè e…».

«Caffè. Punto», mi interrompe, mentre si siede. «Non mangio mai molto la mattina. Non ho tempo».

«Oggi ti sembrerà il paradiso, allora».

Annuisce mentre infila in bocca un altro boccone di pancake. «Qualcosa del genere. Spero non dovrò pagarti anche per questo».

Scuoto il capo. «Consideralo un ringraziamento per ieri sera».

«A proposito, come stai?»

«Bene. Sgonfia. In ottima forma come puoi vedere».

Jordan mi squadra da capo a piedi e commenta: «Non c’è male, capelli a parte».

Con un gesto istintivo mi metto le mani sulla testa. «Cos’hanno di strano i miei capelli?»

«Sembrano i tentacoli di Medusa. Follia rossa».

«I miei capelli almeno sono disordinati al naturale, cosa che non si può certo dire della tua barba».

«Che hai contro la mia barba?», chiede lisciandosela come se fosse qualcosa di prezioso.

«Niente. Solo che devi passare ore e ore davanti allo specchio per far finta che sia trasandata in quel modo…».

«In quale modo?»

«Quel modo».

«Chiarisci».

«Avanti. Quel modo».

«Fammi luce sui tuoi pensieri, Mackenzie».

Sollevo gli occhi verso il soffitto e, mentre mi accingo a tagliare una fetta di torta, gli spiego cosa intendo, anche se non sono del tutto convinta che non abbia capito. «Quel modo che voi uomini sapete fa impazzire le donne. Il finto trasandato va tanto di moda ultimamente e attira molto più del tirato a lucido». Gli passo la sua fetta di torta e finalmente si siede. Sorride o meglio, ghigna. Forse gongola, il belloccio. Credo di avergli appena fatto un complimento e lui, ovviamente, se ne rallegra.

«Pensi che la mia barba sia sexy?».

Lo guardo di sbieco. «Speri davvero che ti risponda?»

«In realtà hai già risposto. Sì, lo credi».

«Ti piacciono le lusinghe, vero?», tergiverso. Non ammetterò mai che la sua barba è dannatamente sexy. Sarebbe come dire che il peccato è bello. Che poi lo sia davvero è un altro discorso.

Si porta alla bocca un pezzetto di torta e poco dopo chiude gli occhi e sospira. «Devo ammetterlo: sai come conquistare lo stomaco di un uomo».

La divora in pochi secondi e se ne serve subito un’altra porzione. Provo muta soddisfazione nel vederlo così. Sento di avere un potere non indifferente. Credo che questo sia il momento di tornare all’attacco.

«Quindi, che mi dici della cioccolateria? Siamo d’accordo? Io creo il cioccolatino dei tuoi sogni e tu lasci aperto il mio negozio».

Fa un largo sorriso, un sorriso che la dice lunga su quello che pensa davvero e credo di sapere cosa pensa. Non mi piace. Neanche un po’.

«Ho del lavoro da sbrigare», dice. Come pensavo. Aggira l’ostacolo con nonchalance, come se non avesse udito una sola parola. Bel vigliacco. È davanti ad atteggiamenti simili che viene fuori la me dei momenti peggiori.

«Perché? Tu lavori?»

«Ti sorprenderebbe scoprire quanto».

Infilzo un pezzo di torta e me lo porto alla bocca con un sorriso sarcastico. «Quando esattamente? Fra una capatina dal barbiere di fiducia e l’happy hour?»

«Per essere una che protesta incatenandosi per difendere un suo diritto, hai dei preconcetti piuttosto stupidi».

«Allora lo ammetti? È un mio diritto difendere il mio lavoro».

«Mai detto il contrario. Ma non è un tuo diritto impedire la vendita di una proprietà che non ti appartiene». Maledetto. Doveva capitarmi l’osso più duro di tutta Pretty Creek. «Ora, se hai finito, ti va di venire con me a vedere come lavoro?», continua. «Ovviamente dopo essere passati dal mio barbiere di fiducia. Ti prometto che sarà istruttivo. Oh, e porta tutto quello che hai preparato». Non aspetta risposta e si avvia fuori, lasciandomi come un’idiota. E io, come un’idiota, mi procuro un portavivande e ci infilo dentro pancake e quello che è rimasto della torta.

“Complimenti Mackenzie, complimenti per la coerenza”, mi dice la ragione.

“Non stressarla, è solo curiosa”, ribatte il cuore.

«Da vicino si studia meglio il nemico», commento, una volta salita in macchina.

«Puoi dirlo forte», risponde lui prima di mettere in moto e partire.

 

Dopo aver lasciato la statale, raggiungiamo, attraverso un sentiero che costeggia il lago, l’interno di una foresta. Ci fermiamo in una zona che, a quanto pare, fa parte delle proprietà dei Peterson. Ci sono due grossi camion con i rimorchi carichi di tronchi. Un altro più piccolo, invece, porta degli alberelli.

«Fammi indovinare: disboscamento controllato».

«Esatto», annuisce lui con un tono carico di orgoglio. «Per un certo numero di piante abbattute, la mia azienda si impegna affinché ne vengano ripristinate di nuove».

Devo dargli atto del fatto che questa è una dannatissima buona cosa. Lo odio. Non voglio che mi stia simpatico, per niente al mondo.

«Che ci facciamo qui?»

«Accontentiamo madre natura e le diamo nuovi alberi da far crescere».

«Che romantico», lo prendo in giro. Lui sorride. Sorride troppo per i miei gusti. Lo preferivo quando metteva il muso.

Un secondo dopo mi sta presentando ai suoi quattro operai. «Ragazzi, questa è Mackenzie Morgan. Ci aiuterà con le piante, oggi».

Gli uomini mi guardano seri per un attimo, poi si esibiscono in svariati saluti. Percepisco un: «Bel colpo con la rossa, capo!».

Punto lo sguardo sul tizio alto e nerboruto che ha proferito tale sconcezza. «Ti riferisci alla silfide, vero?»

«La che?»

«La silfide simpatica. Priscilla Templeton, l’amichetta del capo».

L’uomo, il cui nome sembra essere Thomas, scuote la testa come se si stesse riprendendo da una botta, poi scoppia a ridere. «Bel colpo, capo, bel colpo con la rossa linguacciuta».

Linguacciuta? Tanto per aggiungere un nuovo complimento alla già fornitissima collezione che vanto.

«Andiamo, strega». Jordan mi afferra delicatamente per un braccio e mi spinge verso una vasta zona scoperta. Sollevo lo sguardo in alto. Mi trovo nel mezzo di un cerchio delimitato da alti alberi con foglie vive e rigogliose. Il cielo pare tuffarsi all’interno di esso ed è come se i colori intorno a me schizzassero via quasi fossero la schiuma di una cascata. Da qui mi sembra davvero di vedere tutti i colori del cielo. Anche il grigio che minaccia pioggia.

«Silfide, eh?». Jordan mi passa un impermeabile che ha recuperato da non so dove. «Indossalo. Quella scollatura distrae troppo i miei ragazzi».

«I tuoi ragazzi, eh?», rispondo con lo stesso tono dubbioso. Sorride di nuovo. Sento di odiarlo con tutta me stessa. Mai una volta che ammetta una debolezza. Dovrà pur avere un punto debole quest’uomo, no? «Vuoi farmi lavorare sul serio?».

Annuisce e mi passa una vanga. «Il lavoro nobilita l’uomo», dice con superbia.

«Forse avrei preferito il barbiere e l’happy hour».

Cinque ore dopo sono: sudata, affamata (i ragazzi hanno mangiato tutto quello che ho preparato, compreso Jordan), bagnata da uno scroscio di pioggia improvviso, sporca fino all’inverosimile, credo di avere terra persino nei capelli, neanche ci fossi rotolata nel fango, e stanca come se fossi in piedi da due giorni.

In compenso, Jordan non sembra più tanto finto trasandato. Sembra trasandato e basta. Sudato e sporco anche lui. E oserei dire stremato. Più di una volta l’ho beccato a massaggiarsi la schiena o a fermarsi per riprendere fiato. A lavoro ultimato, quando liberiamo la zona dagli attrezzi, i macchinari e i camion, possiamo risalire in macchina.

«Ti riporto a casa».

«Scherzi?». Mi guarda sorpreso, prima che gli dica: «Adesso viene il meglio». Scendo dall’auto e mi avvio a passo spedito lungo il sentiero. Un centinaio di metri più in giù rispetto a dove siamo noi, c’è il lago. Dopo la pioggia, solitamente, l’aria è pregna di profumi così intensi da farti girare la testa. L’odore dell’erba vicino alla riva, piccoli ciuffi misti alla sabbia. Quello degli alberi che lo circondano, giganti che abbracciano il cielo e sembrano tirarlo giù fin dentro il lago, finché non si mischia all’acqua.

Jordan mi segue mentre ad alta voce domanda: «Dove diavolo vai?»

«A fare un tuffo».

«Sei fuori di testa? Ti sembra normale?»

«È il due agosto, siamo pieni di terra fin nelle orecchie. Credi che mi importi di sembrare normale? E poi mi scappa la pipì».

Proseguo senza curarmi di lui. Oggi è un giorno qualunque e la pioggia ha tenuto i bagnanti lontano dal lago, perciò non trovo nessuno. Tutta questa meraviglia è per me, solo per me. Mi volto indietro e non vedo Jordan. È probabile che sia tornato indietro. Mi affretto sul pontile, mi libero delle scarpe, della maglietta, dei jeans e rimango in biancheria. Di che dovrei imbarazzarmi? In bikini non sarei esposta allo stesso modo, più o meno?

Una volta sul margine del ponte, provo l’acqua immergendoci un piede. È fredda, ma non mi lascio scoraggiare. Torno indietro, prendo la rincorsa e con un profondo respiro mi lanciò verso l’acqua. Raccolgo le gambe e mi tuffo in quello che si chiama “stile a bomba”.

Sott’acqua le mie movenze rallentano, sento le bolle solleticarmi il corpo, i capelli mi circondano il viso, riemergo con la visuale coperta. Li scosto dalla faccia e scorgo Jordan sul ponte con una coperta in mano. Scuoto il capo. «E quella?», gli chiedo.

«Ce l’avevo in macchina».

«Sei previdente, belloccio».

«Sai com’è: potrebbe capitare che un’irresponsabile ragazza decida di fare il bagno nel lago con circa venti gradi di temperatura».

«Saranno almeno ventidue. È rinvigorente. Fa bene alla circolazione».

«In realtà potrebbe bloccarla».

«Così grande e grosso e sembri un cucciolo smarrito, povero Jordan».

«E tu sembri solo pazza».

«Mi scorre un po’ di sangue irlandese nelle vene. La follia è quasi un marchio di fabbrica e ne vado fiera». Gli sorrido immergendo la testa sott’acqua per lisciare i capelli all’indietro. «Avanti, tuffati in questo paradiso».

«Stai scherzando?». Jordan scuote il capo con forza. «È meglio se esci o ti buscherai un malanno».

«Non fare il pappamolle, vieni dentro».

«Neanche morto».

Sospiro. «E va bene. Aiutami a uscire». Mi arrampico sul pontile. Lui mi tende una mano e mi issa sul ponte. Si volta da un lato mentre mi porge la coperta. Mi copro con cura. «Non guardare ancora», gli dico. Lui obbedisce da perfetto gentiluomo. Mi metto al suo fianco, gli do una spallata. Non se lo aspetta e perde l’equilibrio. Una spintarella ben assestata e Jordan è in acqua. Riemerge con un urlo strozzato. «Ti uccido, lo giuro!».

Rido piegandomi su me stessa mentre lo vedo sbattere un pugno contro la superficie del lago. «L’acqua è abbastanza fresca?»

«È gelata, dannazione!».

«Spostati, pappamolle». Lascio cadere la coperta sul ponte.

«Che… che vuoi fare?», chiede con l’aria terrorizzata.

«Bomba in arrivo». Non lascio che dica altro e ripeto il mio perfetto tuffo schizzando acqua da ogni parte. Risalgo in superficie a pochi centimetri da lui, scostandomi i capelli dagli occhi.

«Bene: ora posso affogarti e farlo sembrare un incidente», mi minaccia, ma non sembra serio.

«Devi solo provarci, belloccio».

«È un invito?»

«Una sfida».

Jordan piega il capo da un lato con un mezzo ghigno, infine si dà uno slancio, le mani si posano sulla mia testa e preme giù. Finisco sott’acqua prima di prendere fiato. Mi ha colta di sorpresa. Mi tiene giù e mi manca l’aria. Posso solo difendermi sferrando a mia volta un attacco inatteso. Gli sollevo la maglietta e gli do dei pizzicotti sui fianchi, così forti che lascia la presa sulla mia testa e mi permette di riemergere. Non gli do modo di sfuggirmi e lo ripago con la stessa moneta. Con tutto il mio peso, gli salgo sulla testa e lo spingo sott’acqua.

«Beccati questa, belloccio».

Sento le sue braccia avvolgermi i fianchi e stringere. Mi tira giù, è molto più forte di me. Cerco di resistere sferrando calci a destra e a manca, fino a che lo sento mollare la presa e riemergere con un’imprecazione. Tossisce e ingoia acqua, ne ingoia così tanta che tossisce ancora e ancora ingoia acqua. Sembra in difficoltà. Lo afferro per un braccio e lo tiro su.

«Che diavolo ti prende?», domando preoccupata.

«Mi… mi hai dato un calcio nelle palle». Impreca di nuovo e annaspa.

«Sarà meglio uscire», dico alla fine. Nuoto fino alla riva con Jordan che mi segue sulla battigia piegato in due.

«È la seconda volta che cerchi di uccidermi». È ancora piegato, con le mani sulle ginocchia. Sembra faticare a respirare.

«Mi dispiace, non l’ho fatto apposta. Questa volta». Solleva lo sguardo su di me. Un occhio semichiuso, l’espressione di chi ha appena realizzato di avere a che fare con una specie aliena. «Davvero», mi affretto ad aggiungere.

Finalmente si risolleva, fradicio dalla testa ai piedi. Quando l’ho buttato in acqua non ho pensato che avesse ancora i vestiti addosso. D’altra parte, spogliarlo e poi spingerlo nel lago non avrebbe avuto lo stesso effetto sorpresa.

Rimango stupita quando lo sento ridacchiare, prima in modo silenzioso, poi sempre più forte. Un sorriso istintivo mi spunta sulle labbra e la sensazione di aver fatto qualcosa di buono mi avvince.

«Dopotutto, è stato divertente, a parte il calcio nelle palle». Il suo tono di voce ora è rilassato.

«Quindi», comincio con un intimo inno alla speranza, «la cioccolateria rimarrà aperta?».

Jordan sorride mentre si strizza la maglietta, si piega verso di me e a un palmo dal mio naso sussurra: «No».

Ho uno scatto d’ira che mi costringe a un gemito strozzato. Questo tipo è più testardo di me. Jordan si allontana, raccoglie i miei vestiti, la coperta abbandonata sul ponte e, tornato indietro, me la mette sulle spalle. Gentiluomo nei gesti, molto meno nelle intenzioni.

«Tu non capisci, Mackenzie. Aprire una beauty farm in città significherà dare occupazione almeno a una trentina di persone», mi spiega con energia. «Più posti di lavoro di quanti ne preserverei se lasciassi aperta la cioccolateria». Sacrificare il bene minore per uno maggiore. È questo che mi sta dicendo. E il bene minore sarei io. «Pensaci, Mackenzie: ti sto offrendo una possibilità che non capita tutti i giorni. Non avrai la cioccolateria, ma potrai continuare a creare i tuoi cioccolatini e sarai pagata profumatamente, molto più di quanto guadagneresti tenendo aperta la cioccolateria, le cui spese saranno di certo maggiori dei guadagni. Lo so. La signora Tantlebaum me ne parlava spesso».

Non posso negarlo. La cioccolateria non è mai stata redditizia. Gwendolyn Tantlebaum poteva permettersi di tenermi lì perché lo stipendio che mi dava era il minimo sindacale previsto.

«Che ne dici di lasciar perdere l’orgoglio? Fatti furba».

Non rispondo. Non mi va di dargli ragione. Non mi va di arrendermi così. Mi pare di vendermi. «Sarà meglio andare, ora», dico invece.

Jordan sospira e mi precede borbottando: «Stupida ragazza testarda».

 

In auto io me ne sto bella avvolta nella mia coperta, mentre Jordan sembra un pesce fuori dall’acquario. Bagnato, col muso e con lo sguardo serio dritto davanti a sé.

«Goccioli», dico per rompere la tensione. Non credo serva. Questo tipo di tensione è dura come il ghiaccio.

«Ma dài?», mi risponde con sarcasmo, senza guardarmi.

«Rovinerai i sedili di pelle della tua bella auto», insisto, anche se secondo me sto sbagliando qualcosa. Forse. So benissimo di provocarlo, ma che ci posso fare se ci provo un gusto fuori dal comune?

«Mi preoccupo di più per la mia salute. Non vorrei prendermi un malanno. Non posso permettermi ferie non previste».

«Devo ammetterlo: ti sai dare da fare».

«Oh! Ho la tua approvazione?»

«È un evento. Segnalo sul calendario».

«Lo farò senz’altro. Questo sarà un giorno da ricordare».

Restiamo in silenzio per un paio di minuti. È lui a romperlo esordendo con: «Sangue irlandese, hai detto?»

«Sì, mia nonna veniva da Dublino. Ho ereditato i suoi colori. Capelli rossi, carnagione chiara predisposta agli arrossamenti, carattere di cacca e la passione per la cioccolata. Ho imparato tutto da lei, soprattutto come rendere utile il mio carattere di cacca».

«Devo dire che hai imparato bene», dice Jordan voltandosi a guardarmi. «La tua famiglia?»

«Vive a Montpelier, a meno di un’ora da qui. Padre, madre e tre rumorosi fratelli più grandi. Ho imparato presto a difendermi dai bellimbusti e, se ti stai chiedendo come sono finita a Pretty Creek, è presto detto: Gwendolyn Tantlebaum e mia nonna erano molto amiche. Dopo aver affinato le mie arti di cioccolataia in una scuola di cucina, Gwen è venuta a cercarmi proponendomi di lavorare con lei e aiutarla in negozio, così ho accettato senza esitazione».

«È quello che hai sempre voluto fare?»

«Lavorare con la cioccolata? Sì. Amo farlo più di quanto ami fare qualunque altra cosa».

«È bello poter seguire le proprie aspirazioni. Sei fortunata». Avverto parole nascoste dietro questa sua frase. Parole non dette. Pensieri che tiene segreti. Chissà quali sono. Mi scopro, mio malgrado, curiosa. Oppure vedo del mistero dove non ce n’è.

Restiamo in silenzio fino a che non giungiamo nella sua villa. «Pensavo sarebbe stato meglio tornare qui. Vorrei cambiarmi e tu dovresti mettere qualcosa addosso prima che ti riaccompagni a casa. Puoi usare il bagno in una delle stanze degli ospiti. Se vuoi asciugare la biancheria, c’è l’asciugatrice nella lavanderia».

«Grazie, credo sia una buona idea».

Mi accompagna prima in una delle stanze degli ospiti. Attende fuori che mi spogli e mi metta addosso un accappatoio trovato nel bagno. Infine mi guida verso la lavanderia dove metto ad asciugare la biancheria. Che casino per un bagno nel lago. A pensarci bene, non è che io abbia avuto proprio un’idea geniale.

Mentre aspetto in cucina che tutto sia pronto, lui sale al piano di sopra per cambiarsi. Intanto spalmo della crema di cioccolata su una fetta di pane e la mangiucchio sovrappensiero. Jordan mi raggiunge poco dopo.

«Fra qualche anno tutta quella cioccolata te la farà pagare».

«Me ne preoccuperò quando accadrà», e incurante continuo a mangiare. Per tutta risposta, lui si prepara una fetta più grande della mia e appoggiandosi con i gomiti sull’isola della cucina, mangia e mi guarda. Lo imito. Mangio e lo guardo. A un certo punto decido di dichiarare la resa. «E va bene».

«Va bene, cosa?», chiede visto che mi sono fermata sul più bello.

«Va bene, accetto la tua proposta».

Lui smette di mangiare, di masticare, forse di respirare. Cavolo, mi fa quasi tenerezza. Appoggia la fetta di pane sul piano della cucina e, in modo del tutto inaspettato, ci gira intorno e viene ad abbracciarmi. Mi stringe forte, sollevandomi di qualche centimetro dal pavimento. Però! Ci teneva davvero a questa cosa, oppure è davvero disperato. Delle due, la seconda credo.

«Grazie!».

«Ehi… ehi… non esagerare, potrei pensare che ti piaccio», gli dico con delle poderose pacche sulle spalle. La classica reazione a un forte imbarazzo.

Lui mi lascia andare e si passa una mano fra i capelli, tutto sorridente. «In questo momento mi piaci moltissimo, sì. Moltissimo».

«Non è perché sotto sono nuda, vero?». Dio, perché ho detto una cosa del genere? Delle volte penso che il mio cervello non sia affatto collegato alla bocca.

Lui apre e richiude la labbra, imbarazzato. «Scusa… mi dispiace».

«Ehi, belloccio, rilassati, scherzavo».

«Credo che le tue cose siano pronte». Torna il Jordan tutto d’un pezzo. «E scusami ancora se ti ho abbracciato in… in quel modo».

«No, è stato…», piacevole?, «carino».

«Carino, certo». Sorride prima di sparire dalla cucina portandosi dietro la sua fetta di pane. Torna pochi secondi dopo. «Ho pensato che sarebbe più appropriato che fossi tu a recuperare la tua biancheria dalla lavanderia». Arrossisce e, santo cielo, mi scappa da ridere.

Dieci minuti dopo sono presentabile. Jordan mi riaccompagna a casa e, durante il tragitto, mi illustra le sue idee. «Dimmi solo cosa ti serve».

«Tempo, Jordan, mi serve tempo per trovare l’ispirazione».

«Va bene, ma tieni a mente che dovremmo essere sul mercato per febbraio».

«San Valentino, cioccolatini… già».

«Esatto. E di cos’altro hai bisogno?», chiede ancora con una premura che mi sconvolge.

«Una cucina abbastanza grande che possa ospitare l’attrezzatura nel laboratorio della cioccolateria. Non venderai anche quella, vero?».

«No, quella è tua. E per la cucina… puoi usare la mia. C’è tutto lo spazio che ti serve e in tutta sincerità l’hai usata più tu in questi ultimi giorni di quanto abbia mai fatto io. Non sarai disturbata da nessuno, neppure da me».

“Peccato”, penso. In fondo il belloccio mi diverte come pochi.

«Quando pensi di poter cominciare?». Tamburella con le dita sul volante, una volta che ha parcheggiato davanti all’indirizzo che gli ho indicato.

«Dammi un paio di giorni per riprendermi da tutto questo, poi fatti vivo. Intanto prepara la cucina».

«Sarà fatto. Discuteremo anche i dettagli del tuo… compenso».

«Sarà la prima cosa di cui mi preoccuperò». Scendo dall’auto dedicandogli un ghigno degno di Crudelia De Mon.

Lui socchiude gli occhi. «Questo è il carattere di cacca che esce fuori, vero?».

«Io la chiamerei prudenza. Stammi bene, belloccio».

«A presto, strega, e a buon rendere».

La sua auto si allontana spedita. Mi rintano in casa e, dopo una doccia, mi spalmo sul divano e accendo la tv, mentre aspetto che Helena torni dal lavoro. Ne avrò di cose da raccontarle. Non vedo l’ora di vedere tutta la gamma delle espressioni umane palesarsi sulla sua faccia.