Capitolo 7

Jordan

 

 

 

 

 

 

«Mi prendi per scema?».

Non è un buon inizio. L’invito a colazione non lo ha accettato. A quanto pare si sveglia alle quattro del mattino per preparare i cioccolatini e soddisfare gli ordini dei clienti. Quindi alle nove dorme. A pranzo aveva un impegno con Helena. Ha accettato l’invito a cena, solo perché, al telefono, le ho detto che volevo scusarmi sul serio con lei e che il cioccolatino al peperoncino me lo sono meritato.

È probabile che non se la sia bevuta. È troppo sveglia, ma alla fine ha ceduto quando ho insistito dicendole che avremmo potuto ridiscutere i dettagli della vendita della cioccolateria. Mentivo.

L’ho portata nel più esclusivo locale di Pretty Creek, ma avrei potuto benissimo fermarmi davanti a una locanda di terz’ordine visto che non ha curato minimamente l’abbigliamento. Jeans, maglietta scollata, troppo scollata. Così scollata che si intravede il pizzo nero del reggiseno. E scarpe da ginnastica. Eppure non sta male. Gli uomini continuano a guardarla. Credo sia merito del rosso dei capelli. O dell’aria sicura e sfacciata. O della camminata ancheggiante senza che voglia esserlo.

«Non ti prendo per scema. Questa è un’ottima offerta».

«Anche quella di preparare i cioccolatini per la tua festa sembrava un’ottima offerta e invece hai visto com’è finita male?»

«Per me. È finita male per me. Tu hai avuto i tuoi mille dollari come concordato», le ricordo.

Sbuffa, appoggia i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani. «Non lavorerò ancora per te, Jordan. Sarebbe come firmare un patto col diavolo».

«Non ti sto chiedendo l’anima, Mackenzie, solo un cioccolatino».

«Per me sono la stessa cosa».

Stavolta sbuffo io e mi lascio andare contro lo schienale della sedia. Non ho toccato cibo, mentre lei ha divorato i suoi spaghetti e ora è davanti a un’omelette di spinaci con contorno di funghi. «Che cosa vuoi, Mackenzie?»

«Oltre ai diritti d’autore sulla ricetta e un cospicuo compenso in denaro, e quando dico cospicuo, intendo vergognoso?».

Annuisco mio malgrado. «Esatto. Cosa?».

Lei si porta alla bocca un pezzetto di omelette. Infine qualche fungo. Si prende tutto il tempo. Sorride e io la detesto sempre di più. Sento ogni nervo del corpo in tensione. Le metterei le mani al collo e…

Sembra non stare bene, all’improvviso. Ha un brutto colorito e deglutisce a fatica. Oddio, le sarà andato di traverso qualcosa? «Mackenzie, tutto bene?».

«Non… non lo so». Il pallore diventa rossore, che si estende al collo e giù, fino al seno. Sta andando in iperventilazione.

«Mackenzie, mi stai facendo paura. Se questo è un altro scherzo, non lo trovo affatto divertente. Voglio dire, il peperoncino è una cosa, ma fingere di morire è un altro paio di maniche. Dimmi cosa vuoi senza tante scene, forza». Ma la ragazza non sembra cedere. Quando passa un cameriere gli afferra con forza un braccio e con voce strozzata chiede: «Arachidi? Ci sono arachidi?». Il cameriere la guarda con occhi sgranati. Impallidisce anche lui alla vista di Mackenzie che ora ha cominciato a sudare.

«Non… non ne ho idea. Chiedo allo chef». Il giovanotto si dilegua e torna subito dopo, trafelato e impaurito. Quasi quanto me. «Olio. Olio di arachidi», comunica.

«Merda!», esclama Mackenzie in un soffio. Afferra la mia mano e continua. «Ospedale. Ora».

«Che diavolo…». Mi alzo quando si alza lei, barcollando.

«All-allergia!».

«Cazzo!».

 

In macchina la vedo trafficare nella borsa. «L’autoiniettore… nell’altra borsa…». Non capisco cosa voglia dire, ma non mi preoccupo di questo ora. Arrivo in ospedale in men che non si dica, ignorando i cartelli che indicano il limite di velocità. Al pronto soccorso, un medico, dopo aver chiesto cosa sia successo, scorta Mackenzie su un lettino e tira le tende. L’uomo mi guarda e mi fa cenno di attendere in sala d’aspetto, ma Mackenzie lo fulmina con lo sguardo.

Con le labbra orridamente gonfie, tenta di dire: «Lui resta, è con me. Per favore». Ha un tono implorante. Gli occhi lucidi e rimpiccioliti dal gonfiore le danno un’aria da cagnolino bastonato. Mi fa quasi tenerezza. Quasi.

Il dottore tenta di ribattere con un secco no, ma lei lo afferra per un braccio e lo strattona dicendogli qualcosa che non capisco. Il tizio cede e mi fa cenno di raggiungerli.

«Non stai morendo, allora?», le dico con un sorrisetto.

«Non fedo cofa fi fia da foffidere».

Sto per scoppiare a ridere. È tutto molto esilarante. «Niente, a parte i galleggianti che hai al posto delle labbra».

Il dottore mi guarda e annuisce sotto lo sguardo assassino di Mackenzie. «È una reazione allergica che non ha causato shock, per fortuna, ma preferisco comunque fare un’iniezione di adrenalina. Se la gola le si gonfia ancora rischia un blocco respiratorio», spiega. Santo cielo!

A un tratto Mackenzie fa un cenno deciso con la testa. «No!», esclama a voce alta. «No!».

Non riesco a capire a cosa si riferisca fino a che non vedo il suo sguardo fisso sulla siringa che il dottore sta preparando.

«Signorina, bisogna usare qualcosa di forte».

«Una botta in testa, magari?», mi sfugge dalle labbra, ma invece di inveire contro di me per la mia pessima battuta, Mackenzie mi afferra la mano e mi guarda scuotendo il capo. Sembra sul punto di piangere. Mi dice qualcosa come: «Tienimi la mano per favore, sono terrorizzata dagli aghi».

Si irrigidisce tutta. È un blocco di marmo. «Signorina, sarà più facile se si rilassa». Ma Mackenzie non si rilassa. Mi stringe le dita e sento quasi le falangi spezzarsi. Faccio una smorfia e tento di liberarmi, ma lei stringe di più. Dove diavolo la trova tutta questa forza. È uno scricciolo.

«Mi stai stritolando la mano, per favore».

Scuote ancora il capo, ciocche di capelli rossi le scivolano davanti agli occhi e un leggero rivolo di sudore le scorre su una tempia. Non so se sia l’effetto dell’attacco allergico oppure del terrore che sta provando.

Spalanca gli occhi quando il medico le infila l’ago nel muscolo di un braccio. Ha uno sguardo allucinato. È più forte di me. Scoppio a ridere mentre lei rimane immobile come una statua a subire l’iniezione. Non credo di aver mai riso tanto in vita mia, nonostante fra poco mi ritroverò con un moncherino al posto della mano.

Il giovane dottore le misura la pressione e i battiti. Ha un’espressione preoccupata. La tiene sotto controllo per le successive due ore, mentre io rischio di addormentarmi sul lettino con lei, infine, quando si rende conto che sta meglio, le misura di nuovo i battiti. Ancora tachicardica, pare. «Meglio che le dia un sedativo o non reggerà». Prepara un’altra siringa. Sono pronto a un’altra sana risata, mentre lei cerca di scendere dal lettino, instabile. «La fermi!».

La blocco con entrambe le braccia. «Su tesoro, una punturina e passa tutto». La rimetto seduta sul lettino, mentre lei piega la testa contro la mia spalla girandola da un lato e dall’altro. Continuo a sghignazzare. «La accompagna lei, vero? Questo sedativo è piuttosto forte», chiede il dottore.

Annuisco con rassegnazione. Mackenzie osserva la punta dell’ago con un’inquietudine che sarebbe più adatta a un evento tragico come un terremoto, poi afferra le mie braccia e chiude gli occhi. Non parla più. La paura le ha paralizzato la lingua più dell’allergia.

Stavolta infilarle l’ago è stato più semplice. Non ha fatto troppe storie.

«Ha circa dieci-quindici minuti prima che faccia effetto. Compili il modulo di accettazione e poi vada a casa a riposare», dice il dottore. «E stia lontana dalle arachidi».

Mackenzie scende dal lettino e barcolla. Devo sorreggerla per evitare che cada. Una volta compilato il modulo con le proprie generalità, ci avviamo verso l’uscita. In macchina si rannicchia sul sedile come se volesse dormire e, in effetti, cinque minuti dopo sento il suo respiro pesante.

E ora?

Non ho idea di dove abiti e di certo non posso lasciarla in mezzo alla strada. Decido, in un inusuale attacco di generosità, di portarmela a casa. Una volta parcheggiata l’auto nel viale di ingresso, tento di svegliarla, ma non accenna a muoversi.

Il sedativo deve essere una bomba.

Me la carico tra le braccia. «Ma quanto diavolo pesi?». Eppure sembrava magra.

Quando riesco a entrare in casa, con una certa fatica, la deposito sul divano. Non lo faccio con delicatezza e spero quasi che si svegli, ma lei continua a dormire come se niente fosse. Mi chiedo se quello che gli hanno dato in ospedale fosse legale. Potrebbe, però, tornarmi utile contro i miei mal di testa.

Le tolgo le scarpe. Le butto addosso una coperta leggera e finalmente posso ritirarmi nella mia stanza. La serata non è andata come mi aspettavo. La piccola strega rossa è riuscita a mandare all’aria i miei piani un’altra volta. Mark me lo dice sempre: «Non fidarti mai di una rossa: portano solo guai quelle. E ti bruciano, come se fossero di fuoco».

Mackenzie non mi brucia affatto, ma di sicuro porta guai. Eccome se li porta. Ripenso alla serata: in fondo, mi dico, esiste una giustizia.