Capitolo 3

Mackenzie

 

 

 

 

 

 

Helena e le sue visioni. È convinta che sia il cielo a mandargliele, io credo che sia quel bicchierino di troppo che butta giù prima di andare a dormire la sera. Si è messa in testa che Mark Peterson sia l’uomo della sua vita. Lo ha visto una sola volta, non ci è nemmeno uscita e già predice un futuro con abiti da sposa in stile meringa e una vagonata di figli.

Torna a rinchiudersi in bagno dove tenterà in tutti i modi di assomigliare il più possibile all’idea che ha di se stessa: quella di una donna in carriera con l’indole da casalinga. Bevo il caffè, l’ennesimo, sul tavolo in cucina. Mi servirebbe dell’alcol per superare l’idea della cena che dovrò affrontare tra non molto.

Il linoleum chiaro sotto le mie scarpe è appiccicaticcio e macchiato in qualche punto. Nel lavello ci sono i soliti piatti sporchi, un canovaccio unto di grasso pende dalla spalliera di una sedia. Schiaccio briciole di pane e un acre odore di fritto impregna ancora l’aria. Sul davanzale esterno della finestra in cucina, la pianta di basilico che Helena ha tanto voluto e di cui ha promesso di prendersi cura, si è afflosciata. Le foglie sono annerite. La ricordavo rigogliosa, ora è solo… morta.

«Hai preso qualcosa per la cena? Non possiamo presentarci a mani vuote, sarebbe da maleducate», mi urla Helena dal bagno.

Sbuffo sollevando gli occhi al cielo. «Ci mancava solo questa. Sai quanto mi importa di essere educata con quell’idiota di Peterson».

«A me importa, quindi vai».

«Cosa diavolo dovrei prendere?»

«Non lo so. Inventati qualcosa».

«Dovevo immaginarlo», borbotto afferrando la borsa a tracolla e uscendo dall’appartamento.

Raggiungo il supermercato del paese e compro un po’ di cioccolata, della meringa e dei pasticcini con crema chantilly. Magari l’idiota si addolcisce. Mi fermo a parlare con una delle commesse e non mi accorgo del tempo che passa, quando il mio cellulare prende a squillare con insistenza rivelando che a chiamarmi è Helena.

«Sono a casa fra poco», le rispondo e, senza lasciarle il tempo di replicare, interrompo la comunicazione. Quando Helena parte con una delle sue filippiche, sono interminabili minuti di improperi e insulti di vario genere.

Con il sacchetto della spesa fra le braccia percorro le vie di Pretty Creek, sempre poco trafficate a quest’ora della sera.

Sono quasi a casa, quando, svoltando un angolo mi ritrovo impiastricciata di crema chantilly. In un gesto istintivo lascio cadere il sacchetto dove è contenuta la spesa e, sollevato lo sguardo, incontro di nuovo quello dell’uomo con cui mi sono scontrata questa mattina. Jordan Peterson.

Stessa faccia scura, stessa espressione arrogante. Mi trattengo dal proferire scurrilità davanti a lui, ma le uniche parole che mi passano per la mente in questo momento starebbero bene solo in bocca a uno scaricatore di porto ubriaco.

Non da meno sembra essere la voglia che ha lui di dirmene quattro, comunque non resisto e sbotto: «Dovresti cercare di stare più attento quando cammini. La strada non è solo tua, benché tu lo possa pensare».

Mi guarda con malcelata irritazione. Fa un lungo respiro e, con un fazzolettino di carta tirato fuori dalla tasca dei pantaloni dal taglio elegante, tenta di ripulire il disastro di crema che i pasticcini hanno lasciato sulla sua maglietta firmata.

I suoi occhi scuri – non riesco a capire se siano castani o neri – mandano scintille, la linea dura della mascella si contrae. «Tu hai dei seri problemi». Il suo sguardo si posa sul mio volto. Sembra disgustato. Continua a pulirsi, ma non fa che peggiorare la situazione. «Dovresti almeno pagarmi la tintoria».

«Stai scherzando?», gli dico allargando le braccia. «Non l’ho fatto mica apposta. È stato un incidente, questa non è Notting Hill e tu non sei Hugh Grant, purtroppo». Mi guarda come se fossi impazzita. Probabile che si chieda di che diavolo parlo. «La scena in cui lui versa il succo d’arancia sulla maglietta di Julia Roberts», gli spiego.

«Quindi, in teoria, se la scena è andata così, io dovrei essere Julia Roberts».

Ora sono io a guardarlo come se fosse impazzito.

«Hai detto che Hugh Grant versa il succo d’arancia sulla maglietta di Julia Roberts. Sei tu che hai spiaccicato quei dolci sulla mia maglietta».

«Oh be’, se ti senti meglio nei panni di Julia Roberts…».

«Non ho detto…».

Sollevo le spalle con fare indifferente. So benissimo cosa intendeva, ma voglio divertirmi un po’ visto che mi ha servito la battuta su un piatto d’argento. «Ehi, chi sono io per giudicare i tuoi gusti? Insomma, magari con un pulloverino azzurro pastello e una gonna fino al ginocchio stai pure bene». La sua espressione è tutta da godere.

Decido di averne abbastanza, perciò dico: «Avanti Julia, se mi segui ti aiuto a darti una ripulita. Scordati che ti paghi la tintoria. Lavare un capo del genere mi costerebbe un occhio della testa e io devo fare economia, visto che ho perso il lavoro».

«Non mi sento affatto in colpa», mi fa sapere con alterigia.

«Non mi aspettavo niente di meno da uno come te».

Raccolgo quello che è rimasto dei dolci, lo butto in un cassonetto poco distante e gli faccio cenno di seguirmi, ma lui non si muove.

«Devo trainarti?».

Lui accenna un paio di passi. «Non chiamarmi più Julia», dice risentito.

«Peccato: ti donava». Ridacchio sommessamente. «Jordan Peterson».

«Jordan Bentley. Jordan Bentley Peterson per te». Stavolta sento un certo orgoglio nella voce.

«Bentley? Come l’auto?»

«Bentley come Bentley e basta».

Rigido come un bastone di scopa nel culo.

«Va bene Bentley come Bentley e basta, per te sono Mackenzie Mable Morgan. E se fossi un’auto sarei un maggiolino».

«Parli troppo per i miei gusti e dici cose prive di senso. Preferirei che stessi zitta se ti è possibile».

E che cavolo! «Come sua signoria comanda». Scuoto la testa e sollevo gli occhi al cielo. Potevo andare a sbattere contro qualcuno di meno arrogante, ma quando mai la mia vita è stata semplice? D’altra parte, se lo fosse, dove starebbe il divertimento?

Mi segue in religioso silenzio fino a quando non arriviamo al mio appartamento, poco distante dal supermercato.

«Dove siamo?», mi chiede.

«Mi casa. Avanti entra».

«Per fare che?»

«Una partita a ramino?». Di nuovo quell’espressione cupa. Non che ne abbia usate molte differenti da questa negli ultimi dieci minuti. «Vuoi o non vuoi che ti ripulisca la maglietta? Per me puoi anche andare in giro guarnito come una tortina di pasta frolla. Magari un poco di zucchero ti addolcisce».

Tace e, spingendomi da parte, afferra le chiavi di casa ed entra. Maschio prepotente e presuntuoso.

Lo raggiungo prima che muova un altro passo. Lo trattengo per un braccio e lo tiro indietro. «Tipico atteggiamento da macho esaltato che se ne va in giro con una maglietta che costa più dell’affitto del mio appartamento. Sta’ dietro di me, questa è proprietà privata e tu non sei un ospite, ma un tizio che per mia sfortuna è capitato sulla mia strada. Due disgraziatissime volte».

Lui inspira a fondo. Sembra un toro nell’arena e io sono il torero malvagio che ha bisogno di una dura lezione.

«Di ritorno, finalmente!», esclama Helena, ma le parole le muoiono in bocca quando scorge Jordan e le condizioni in cui è ridotta la sua maglietta.

«Ho sporcato il capo griffato di questo qui», dico indicando Peterson dietro di me.

«Oh!». Helena sorride. «Lo fa sempre, non farci caso. Sporca le magliette dei ragazzi carini per rimorchiarli, poi li porta qui, li chiude in bagno e… hai visto Hostage? Quel film dove tutti vengono fatti a pezzettini?».

Invece di rimproverare Helena, le do man forte. «Non ha visto nemmeno Notting Hill, figurati se ha visto Hostage».

«Oh!», esclama di nuovo Helena fingendo sconcerto. «Meriterebbe di essere fatto a pezzettini solo per questo».

«Credo che per stavolta lo risparmierò. Ho portato ad affilare la mannaia e con il coltello a seghetto le incisioni della carne vengono male. Sai quanto io sia precisa».

«Sei un uomo fortunato. Mackenzie non è mai così clemente».

Jordan si tocca la fronte. Sembra che stia sudando. «Possiamo venire al dunque?», chiede quasi sopraffatto.

Annuisco. «Aspetta qui». Raggiungo la lavanderia. Mi munisco di spazzola e sgrassatore spray e, una volta tolto il tappo, lo spruzzo sulla sua maglietta, mentre lui se ne sta tutto rigido. Lo ripulisco per bene, anche se, dalla tintoria credo ci debba passare lo stesso, visto che è rimasto un grosso alone sul tessuto pregiato.

«Fatto. Come nuovo», dico osservando soddisfatta il mio operato.

«Non direi proprio», mi fa notare lui.

«Dettagli», ribatto.

«Va benissimo così, pur di non finire sotto il tuo coltello a seghetto».

Helena annuisce con forza. «Eh, già. Saggia decisione».

«Vorrei poter dire che è stato un piacere, ma non è così», aggiunge lui.

«Idem», rispondo incrociando le braccia. «A più tardi, allora».

«Purtroppo».

«Oh, passa dal supermercato e compra cioccolata, meringa e pasticcini ripieni di crema chantilly. Erano il nostro presente per essere state invitate a cena. Una cena a cui non vedo l’ora di partecipare».

Mi guarda come se volesse mandarmi a quel paese. Gli sorrido con arroganza e lui, senza dire altro, se ne va. In fretta. Come se avesse il diavolo alle calcagna.

«Bello è bello. Un po’ stronzo, ma notevole», mi dice Helena avvicinandosi.

«Bentley. Jordan Bentley Peterson», ripeto a me stessa per ricordare bene il nome del mio nemico.

«Come l’auto?».

Sollevo le spalle. «Come Bentley e basta».

«Dove lo hai incontrato?», continua sempre più curiosa.

«Poco fa, svoltando l’angolo».

«Due volte. Lo stesso giorno. È un segno».

Scuoto la testa. «Ah no, no, no, Helena. No!». Mi allontano da lei. «Niente congetture, niente “è il destino che ti manda dei segnali”. Le tue teorie sulle anime gemelle sono delle stronzate. Soprattutto se riguardano l’anima di quello».

«Non è vero e lo sai», replica piccata. «Glielo dica anche lei, signora Potter», grida per farsi sentire dalla vecchina che, mi accorgo solo ora, aspetta seduta in cucina.

L’anziana donna, mangiando con gusto le praline al cioccolato bianco che mi ha ordinato, annuisce decisa. «Le anime gemelle si trovano con strani e curiosi modi. Esse sono state divise al principio perché, attraverso la guida dell’amore, si trovassero nel mondo», conclude la vecchietta masticando la pralina a bocca aperta. Helena lo sa che la signora Potter non ci sta tanto con la testa, ecco perché, quando desidera essere assecondata, è a lei che si rivolge.

«Signora Potter, lei crede di essere la nonna dispersa del mago più famoso della letteratura a causa del suo cognome, come può pensare che io le dia retta?»

«Poco importa», dice. «Posso avere un’altra pralina?», chiede allungando lo sguardo e la mano nel sacchetto sul tavolo.

Sorrido. «Prenda tutte quelle che vuole, signora Potter. Sono sue. Le ha ordinate lei. Ne prenda anche qualcuna per suo nipote Harry».

La signora annuisce e sorride di rimando. «Ne sarà felice».

Quando se ne va, Helena sospira e dice: «La vecchia ci seppellirà tutti».

«A me di sicuro».

«Figo è figo, su», commenta cambiando improvvisamente discorso.

«Figo. Mah… Passabile».

«Falsa e tarocca come le mie finte Jimmy Choo. Ti è sempre piaciuto».

Ripenso al figo quando Helena mi lascia sola. Me ne vado in camera mia e mi stendo due minuti sul letto.

Figo. Okay. Alto molto più della media. Capelli castani pettinati in modo ordinato, con un taglio sportivo, non troppo alla moda né troppo preistorico. Fisico asciutto e allenato. Occhi castani, simili al colore del cioccolato, ho appurato quando l’ho avuto un po’ più vicino mentre gli ripulivo la macchia di crema. Mi sono sempre chiesta di che colore fossero esattamente quegli occhi. Ciglia scure, forse un po’ troppo lunghe per un uomo. Dio, devo usare quintali di mascara per averle come le sue. Naso dritto. Labbra severe, ma non strette.

Figo, va bene. E sì, mi è sempre piaciuto. È lo scapolo più appetibile di Pretty Creek. Ma è stronzo. E nell’ordine delle mie priorità su quale sia la qualità che diminuisce l’importanza dell’altra, stronzo batte figo.

Improvvisamente mi vengono idee per nuovi dolci, nuove praline al cioccolato. Menta, arancia, limone, vaniglia, zenzero e cannella. Salto da un pensiero all’altro, li confondo. Harry Potter mi passa una mannaia che non ho idea di come usare, infine la uso per sfasciare una maglietta firmata scura macchiata di crema. All’improvviso un tizio dagli occhi color cioccolato e dallo sguardo severo si ritrova con addosso il grembiule con cui preparo i miei dolci e sotto dei bermuda colorati retti da un paio di bretelle. Mangia praline al cioccolato bianco. La signora Potter lo imbocca. Sorrido. Helena mi parla di destino, di cupidi e anime gemelle. Penso sia una cosa meravigliosa. Poco credibile, ma meravigliosa. Mi sistemo il cuscino sotto la testa. O è una coperta? Non lo so, so solo che fra poco sarò a cena dall’idiota e io ho sonno. È colpa sua se non dormo più, in fondo. Troppe preoccupazioni. Finalmente dormo, alla faccia sua.