Capitolo 6

Jordan

 

 

 

 

 

 

Sono nervoso. Tengo costantemente d’occhio l’ingresso del salotto immaginando la pazza che entra urlando: “Jordan Peterson è un insensibile che mi vuole indigente e senza casa”. Diventerei lo zimbello del paese e più di un giornale ne parlerebbe, visto che fra gli invitati ci sono un paio di amici giornalisti che per una notizia del genere non si farebbero scrupoli a tradire anni di buoni rapporti.

Per non parlare del banchiere più influente di tutto il Vermont. L’amicizia, o quello che è, con sua figlia, mi serve. Mi serve Priscilla, non solo perché è una donna sexy, educata e disinteressata ai miei affari quanto basta per non infastidirmi, ma anche perché è piena di soldi che investirà nella mia azienda.

Con la crisi dell’ultimo periodo siamo andati un po’ a fondo. I liquidi scarseggiano e qualche transazione azzardata ha contribuito a rendere la barca ancora più instabile. Non sono sempre stato un buon amministratore, soprattutto nei primi anni alla guida dell’azienda che il nonno paterno ha lasciato nelle mie mani. Mio padre non si è mai interessato di affari, per questo mio nonno ha preferito che fossi io a guidare il suo impero, un giovane di belle speranze laureato con il massimo dei voti a Yale. E come tutti i giovani di belle speranze, a volte, ho preteso troppo da questa attività e da me stesso. Poi ho trovato un equilibrio e le cose per un po’ sono andate bene, ma adesso… adesso che la concorrenza è diventata più spietata, le banche più spilorce e io non ho più idee, l’azienda vede un nuovo periodo nero. Non tanto al punto di chiudere, per ora, ma se continuiamo così, il rischio è alto.

Non mi preoccupo per me, ma per i miei operai. Hanno mogli, mariti, figli piccoli o che vanno al college. Se l’azienda dovesse fallire sarò responsabile della vita di centinaia di persone. Non posso permettermelo. Ecco perché mi serve un’idea che porti nuovi introiti. Un nuovo prodotto. Non basta più lo sciroppo d’acero. Troppe sono le aziende che se ne occupano, soprattutto quelle a conduzione familiare che producono uno sciroppo a chilometri zero, anche se il nostro resta il migliore sul mercato.

Mark insiste nel dirmi che Mackenzie Morgan è la manna dal cielo. Mackenzie e la sua cioccolata. Io nutro profondi dubbi su questo, anche se, osservando il volto degli invitati alla festa, mentre assaggiano i suoi cioccolatini, mi verrebbe da pensare che ha ragione. Goduria è quello che avverto nei gemiti di piacere quando le loro bocche incontrano i cioccolatini. Ho potuto sperimentarlo anch’io e so che è così. Nonostante la sua vena folle, Mackenzie Morgan ha un potere straordinario nelle mani e la cioccolata è il suo elemento naturale.

Mi ricorda un po’ la tizia del film Chocolat, solo meno elegante, più sgarbata e con un rosso di capelli davvero straordinario.

Come se l’avessi evocata, eccola spuntare dalla porta del salotto. Mi fissa con uno strano sorriso. Enigmatico. Forse impertinente. Si avvicina con passi lenti. Lascio un gruppo di ospiti e copro la distanza che ci divide.

«Sono stata sgarbata prima, scusami», esordisce prima che io possa dire qualcosa.

Incrocio le braccia sul petto. «Accetto le tue scuse».

Lei sorride e sbatte le ciglia. «Davvero, a volte sono intrattabile. Per farmi perdonare…». La sua mano si allunga verso la mia e posa sul mio palmo un cioccolatino. «Per te. Un cioccolatino speciale. E no, non sto cercando di fregarti. Sono sinceramente pentita».

Non ne sono del tutto convinto. Ma forse è sincera. Forse ha capito chi sono. Annuisco e butto il cioccolatino in bocca. Mastico quasi con ingordigia, mentre lei continua a sorridere. Poi, a un tratto, il suo sorriso diventa quasi un ghigno, nello stesso istante in cui i miei occhi iniziano a lacrimare, la mia gola a bruciare e io a morire.

«Pepe-peperoncino», sussurro con voce strozzata.

«Nella quantità necessaria a farti sapere che nemmeno tu sai con chi hai a che fare». Strizza l’occhio e prosegue raggiungendo Helena e Mark. Mi tuffo in cucina, scansando gli ospiti e cercando di non mostrare loro le lacrime agli occhi. Apro il frigo e afferrò come un disperato una bottiglia d’acqua. Incurante dello sguardo incuriosito dei camerieri, trangugio il liquido fresco come se non ci fosse un domani, fino a che non sento una mano su una spalla. Mi volto con gli occhi arrossati e le labbra gonfie.

«Merda, ti ha conciato per le feste, ma forse te lo meritavi, eh?»

«Fottiti, Mark», dico quasi senza voce.

«Certo che ti si frega con niente. Bastano due tette e una folta chioma rossa».

«Ri-fottiti».

Mark annuisce con espressione grave. «Dovrai chiederle scusa».

«Come? Io?». Non credo alle mie orecchie. E non sono certo di aver sentito bene perché bruciano anche quelle. «Non le ho fatto proprio niente».

«A parte trattarla come la tua cuoca. Anzi no, alla tua cuoca fai anche il regalo per il compleanno e quello per Natale».

«Ciò che mi ha fatto lei era premeditato. Dubito che abbia trovato del peperoncino in cucina e abbia avuto il tempo di preparare un cioccolatino. Se lo è portato da casa».

«Perché sapeva quanto puoi essere imbecille».

«Anche tu?»

«Lo sei, lo sei. Inoltre le hai tolto la sua attività. Ti odia, Jordan». Il mio bastardissimo cugino continua ad annuire come se io avessi torto marcio.

«È la sua amica che ti sta convincendo che io sia il nemico?».

Mark allarga le braccia. «Be’, amico, quel corpo potrebbe convincermi di molte cose, anche di questa, sì».

«Mi fai pena». Bevo ancora e ancora e ancora. Il bruciore non passa. Maledetta strega.

«Anche tu, ora. Parecchio». Mark mi passa un canovaccio per detergere il sudore dalla fronte. «Devi scusarti», insiste.

«Neanche morto. Può andare a farsi fottere».

«Non credo avrebbe difficoltà a trovare chi lo farebbe. Guarda là…».

Mi sporgo oltre la porta della cucina e la scorgo attorniata da un capannello di uomini che le sorridono e che mangiano i suoi cioccolatini con espressioni goduriose. «Patetici leccaculo».

«Ecco, esatto. Proprio quello devi essere: un patetico leccaculo e risolleveremo le sorti dell’azienda, grazie alla maga del cioccolato».

«Forse non hai capito, Mark». Lo guardo con aria minacciosa, per quanto mi riesca. «Io. Odio. Quella. Donna».

«Perfetto. È un’ottima base da cui cominciare. Ci sono tutti i presupposti per creare una relazione stabile». Mi scoppia la testa. La gola mi brucia. Lo stomaco è in subbuglio. E ho voglia di uccidere mio cugino. «Domani partirò per Londra. Per quell’indagine di mercato, ricordi?», continua lui. «Gli ultimi dati indicano un alto gradimento della mia idea. E sono bastati due giorni per capirlo. Inoltre, i dati raccolti qui, a questa festa, con i tuoi ospiti che hanno finito più di cinque chili di cioccolatini come se fosse il loro ultimo pasto, confermano la mia tesi. Abbiamo in mano la gallina dalle uova d’oro. Lavoratela. Corteggiala. Diventa suo amico. Portatela a letto se è necessario. Con quell’aria da bello e dannato potresti conquistare anche lei e quando ti aprirà il suo… cuore, allora sarà fatta».

«Tu sei pazzo!».

«Sono solo sveglio».

«Dimentichi un particolare importante».

«Sarebbe?»

«Priscilla».

Mark sorride e scuote la testa come se avessi appena detto una cosa senza importanza. «Okay, non te la scopare. Resta fedele al tuo ghiacciolo, ma compi il tuo dannato dovere, cugino. E il tuo dovere è portare l’azienda del nonno di nuovo in alto, fuori dalle acque tempestose. Purtroppo sei tu il capo, ma io sono il tuo braccio destro e ho tutta l’intenzione di far valere la mia posizione. Me la porterei io a letto se non volessi già farmi la sua amica, quindi tocca a te».

«Sei disgustoso».

«Vuoi dire che non te la faresti?»

«Non ho detto…».

«Ma l’hai vista? E poi non sei curioso di sapere se è rossa naturale? Si capisce se la guardi nelle mutande».

Mio cugino deve aver bevuto decisamente troppo. «Togliti questa folle idea dalla testa. Non mi porterò quella ragazza a letto, per nessuno scopo».

Mark allarga le braccia. «Va bene, va bene, mi arrendo. Resta il fatto che dovrai scusarti e tentare di convincerla che lavorare per noi sia la cosa migliore che le capiterà nella vita».

«Devo convincermene ancora io».

«Non ho idee migliori di questa. A meno che non inventi uno sciroppo che faccia venire gli orgasmi, siamo nella merda, caro cugino. E quello che più si avvicina a farti venire un orgasmo sono i cioccolatini di Mackenzie Morgan».

Mark mi lascia, con la bottiglia d’acqua in una mano, il canovaccio nell’altra e il frigo aperto. E con i camerieri che fingono di affaccendarsi in cucina. Torno a guardare la pazza. Si sta divertendo, la stronzetta. Tutta sorrisi e moine. Si passa le mani tra la folta chioma rossa e la appoggia di lato. Pendono tutti dalle sue labbra e dai suoi cioccolatini. Strega. Strega dallo straordinario, spaventoso potere. Non posso fare a meno di immaginarla rotolarsi tra le lenzuola. Bianche o nere, cosicché quel rosso di capelli possa spiccare come i raggi del sole al tramonto.

Dannato Mark. E dannato peperoncino. Mi hanno fatto venire delle voglie assurde. Lei mi guarda con un sorriso sfacciato. Vorrei strozzarla o punirla portandomela a letto. Controllati, Jordan.

Controllo. Il controllo è sempre stato il leitmotif della mia vita. Imposto dal mio stato sociale, da mia madre e dal mio lavoro. D’altra parte è quello che ho sempre desiderato, no? Avere il controllo su tutto, solo che a volte… a volte vorrei provare l’ebbrezza di lasciarmi andare un po’, solo un po’, e fare qualche dannata follia. L’unica volta che l’ho fatto, con Katherine Hutchinson, mi è andata male e ho preso uno storico due di picche.

Forse la follia sarebbe proprio chiedere a Mackenzie Morgan di lavorare per me. D’accordo, farò come dice Mark. La ragazza non potrà rifiutare la mia offerta.