Capitolo 1

Mackenzie

 

 

 

 

 

 

Legami per bene. Il lucchetto non deve aprirsi».

«Non si aprirà».

«E dammi le chiavi: le ingoio. Non sollevare gli occhi al cielo».

«Non sto sollevando gli occhi al cielo».

«Ah no? Cos’era quello, allora? Una muta preghiera, un’invocazione silenziosa?»

«Va bene, ho sollevato gli occhi al cielo».

«Sto difendendo i miei diritti e quelli dei cittadini di Pretty Creek».

«Il diritto alla cioccolata?».

Stavolta sono io a sollevare gli occhi al cielo. Helena non comprende. Non può. D’altra parte lei non sta per perdere il lavoro.

«Avanti, Mackenzie, non puoi fare sul serio». La fulmino con lo sguardo. «Okay, fai sul serio, ma questo non ti giustifica. Farti legare come un salame all’ingresso della cioccolateria. Per favore! Ci guardano tutti, lo vedi?»

«Le nobili cause pretendono dei sacrifici». Sollevo il mento con orgoglio. Un nutrito gruppo di persone si è fermato davanti alla cioccolateria per osservare la scena che sto imbastendo con l’aiuto della mia migliore amica, nonché coinquilina. Non so ancora per quanto condividerò un appartamento perché, se perdo il lavoro, non potrò più pagare l’affitto e, qui a Pretty Creek, non c’è nemmeno un fottuto ponte sotto cui ripararsi.

«Le catene devono passare nelle maniglie… sì, così».

«Sto facendo del mio meglio, ma hai preso delle catene troppo grosse. Neanche avessi dovuto legare un elefante». Dopo circa un minuto sento il clic del lucchetto. Helena fa dondolare le chiavi sotto il mio naso. «Mangiale».

«Infilale in tasca e non perderle».

La mia amica sospira e, di nuovo, solleva gli occhi al cielo. «Non so chi delle due è più fuori testa. Tu che ti fai legare con delle catene per non perdere il lavoro, o io che mi rendo tua complice». Si appoggia al muro accanto alle porte di ingresso della cioccolateria, scarta uno snack e comincia a mangiarlo. Mi ricordo di non aver fatto colazione stamattina.

«Me ne dai un po’?». Helena allunga lo snack verso la mia bocca, ma prima di addentarlo chiedo: «Non ci sono le arachidi, vero?». Per la cronaca, sono allergica.

Lei scuote il capo spingendo lo snack contro le mie labbra. «Altrimenti non te l’avrei dato, anche se uno shock anafilattico sarebbe utile a farti desistere dai tuoi stupidi intenti». Lo addento ignorandola e mastico con gusto, mentre i gemelli di Donna Parson ridacchiano, mostrando chiaramente la mancanza dei due incisivi. Stupidi mocciosi.

«E ora che si fa?», mi chiede Helena che ha finito il suo snack e ne ha scartato un altro. La passione di questa donna per gli snack al cioccolato ha del patologico.

«Aspettiamo. Il farabutto verrà, vedrai. Sono certa che gli è già arrivata voce di quello che sta succedendo».

«Ti farà arrestare», precisa Helena. Credo abbia ragione, ma non ho niente da perdere. E pensare che fino a un mese fa ero convinta di aver risolto tutta la mia vita. Gwendolyn Tantlebaum, pace all’anima sua, nel testamento aveva espresso la volontà che fossi io a gestire il suo negozio, visto che la poverina era morta senza figli o nipoti. Cominciavo a fare progetti seri. Una volta messo qualcosa da parte, avrei potuto ampliare la cioccolateria, magari affittare il locale a fianco e invece… Invece lo stabile che ospita il negozio sta per diventare una dannatissima beauty farm perché, secondo il suo proprietario, questo porterà nuove opportunità di lavoro alla cittadina e ci sarà un incremento del turismo. Avrei avuto circa un mese per sloggiare, così mi hanno comunicato i suoi impomatati avvocati, poi il contratto d’affitto sarebbe scaduto e la cioccolateria chiusa. Ed eccomi qui, a impedire che avvenga, a costo di finire in galera. Dicono che non è poi così male se ti abitui al cesso a vista.

«Merda!», esclama Helena. «Eccolo, è lui!».

Allungo lo sguardo verso la strada. La folla si apre, mentre il suo macchinone nero, brillante sotto i raggi del sole, si arresta davanti al negozio. Lo sportello dal lato del passeggero si apre e ne scende un uomo che non conosco. Il tizio, in tenuta sportiva, come se avesse appena fatto jogging, saluta il mio pubblico come se fosse una star. Sorride. Poi mi guarda e scuote il capo, ma continua a sorridere. Poco dopo si palesa il mio peggiore incubo. Sbatte lo sportello dell’auto con violenza. Marcia verso di me come un tir pronto a schiacciarmi, nella sua mise casual composta da un paio di jeans scuri e un’aderente maglietta blu. Ogni muscolo del suo corpo è messo di proposito in evidenza. La barba scura e incolta gli copre il viso. Incolta, si fa per dire. È uno di quelli che ci passa le ore dal barbiere per ottenere l’effetto da uomo trasandato/stanco/tremendamente sexy.

Sì, è sexy, e allora? Tutti gli uomini stronzi più o meno lo sono. Difficile trovare uno stronzo che sia anche cesso. Sarebbe un accanimento del destino.

Jordan Peterson mi guarda da dietro gli occhiali da sole. La mia immagine si riflette sulle lenti scure che rimandano una me completamente disfatta. Un classico. Ma non sono qui per piacere al figaccione. Sono qui per difendermi…

«Che diavolo hai intenzione di fare?», tuona togliendosi gli occhiali e lanciando saette come un fottuto dio dell’Olimpo. O come Scott degli X-Men. Dannazione, un po’ mi fa paura. Solo un po’. Respiro a fondo. Mi impettisco per quanto le catene con cui sono legata me lo permettono, e sostengo il suo sguardo con altrettanta rabbia e determinazione. Helena continua a sgranocchiare il suo snack, perfetta con il suo leggero vestitino estivo, i capelli biondi legati in una coda bassa e i sandali alti. Sembra una diva anni Cinquanta. Ammicca. Ammicca al tizio che è arrivato con Jordan Peterson che la guarda e sembra gradire, visto che non le toglie gli occhi di dosso. Tipico. Io sono qui ad abbrustolirmi al sole delle undici per difendere il mio lavoro e devo essere testimone di, non lo so, qualsiasi cosa stia avvenendo fra questi due.

«Signor Peterson, sono qui per…».

«Non mi interessa». Mi investe la sua voce. «Levati di qui, immediatamente. Questa è una proprietà privata».

Stringo i denti. Odio la gente prepotente e la odio perché riesce a zittirmi, quasi sempre. Non questa volta, però. «Signor Peterson, non intendo andarmene. Quello che vuole fare è ingiusto». Brutto cazzone borioso.

“Diglielo Mackenzie, avanti, diglielo”, mi ordina il cuore. “Digli quello che pensi di lui, digli quanto lo detesti”.

“Non azzardarti, Mackenzie. Sei già incatenata, dai ancora ascolto a quel piccolo inutile muscolo che hai fra i polmoni e ti ritroverai nella merda fino al collo”, mi rimprovera la ragione.

Le conversazioni con me stessa stanno diventando preoccupanti.

«Non me ne vado. Chiami pure la polizia, non m’importa». Perché mai gli sto dando dei suggerimenti?

«Ho già provveduto. Lo sceriffo sarà qui tra poco». Si volta quando entrambi sentiamo uno stridore di gomme. «Anzi, eccolo qui». Il tizio che gli è accanto scuote il capo pensieroso. Intanto continua a guardare la mia amica. Lo sceriffo Dalton scende dalla volante sudato come un maiale appena rotolatosi nel fango. Si toglie lo stetson detergendosi il sudore dalla fronte e mi guarda come se fossi l’ennesima rottura della giornata. «Mackenzie Morgan, devo chiederti di farti togliere le catene e lasciare la proprietà del signor Peterson».

Così. Senza neanche un ciao.

«Lede i miei diritti», comincio.

«Non vanti nessun diritto su questo posto», mi interrompe il belloccio barbuto.

«Fanculo Peterson!», esclamo, mettendo una croce sulla buona educazione. Donna Parson abbraccia i gemelli con l’espressione scioccata. Il tizio accecato dalla bellezza di Helena ridacchia.

Jordan lo fulmina con lo sguardo. «Lo trovi divertente?»

«A dire il vero, sì», risponde il tizio che non ho ancora capito chi sia.

Peterson non gli dà retta e si rivolge allo sceriffo Dalton. «Arresti questa pazza». Dalton sospira pesantemente. Mi si avvicina e mi fa cenno di consegnargli le chiavi. Stringo le labbra.

«Credo sia meglio obbedire, Mac», mi sussurra Helena all’orecchio. «Fidati di me, sono un avvocato, so come vanno queste cose».

«Sei una praticante».

«Non cambia molto. La teoria è come la pratica in questo mestiere».

Stringo di nuovo le labbra. Fisso lo sguardo in quello di Jordan Peterson. «Fanc…». Stavolta mi ferma prima che possa mandarlo a quel paese, indicandomi i gemelli di Donna. Non mi faccio impietosire. «Che razza di uomo! Non puoi farmi arrestare. Con quali accuse?».

«Mackenzie!». Helena mi intima di smetterla con un muto rimprovero.

«Disturbo della quiete pubblica, tanto per cominciare», dice lui incrociando le braccia sul petto.

«Cosa?».

«Violazione di proprietà privata?».

«Lo domandi a me?».

Intanto Helena sta consegnando le chiavi del lucchetto allo sceriffo. «Traditrice!», esclamo.

«Credimi Mac, è meglio così».

«Andiamo, Houdini». Dalton mi libera dalle catene. Resisto, tento di liberarmi, ma lui mi trattiene.

«Resistenza a pubblico ufficiale!», esclama Peterson.

Maledetto, lo distruggo! Con una giravolta che neanche Walker Texas Rangers si sognerebbe di fare, riesco a sfuggire alle mani dello sceriffo. Con uno scatto raggiungo Jordan Peterson e gli batto un pugno sul petto. Lui accusa il colpo con una smorfia di dolore, infine mi afferra il polso e mi blocca il braccio, ma l’altro è ancora libero e con la mano raggiungo il suo volto tentando di colpirlo.

«Mackenzie!», urla Helena.

«Aggressione», aggiunge Jordan alla mia collezione di violazioni della legge, mentre si scosta per non essere colpito. Gli riesce facile perché è dannatamente alto, il farabutto. Lo sceriffo mi riafferra e senza che me ne renda conto mi ritrovo ammanettata.

Ammanettata! Come una qualunque criminale.

«Okay, basta», sento dire dal tizio sportivo. «Le tolga le manette, sceriffo. Sono certo che Jordan non vuole davvero che la ragazza finisca in galera per una cosuccia del genere, vero?». Silenzio. «Vero?», insiste il tipo.

«Una notte al fresco potrebbe raffreddarle i bollenti spiriti», risponde il belloccio barbuto.

«Ti fulmini il cielo!», è la mia risposta.

Alla fine, però, Jordan fa cenno allo sceriffo di liberarmi. Mi massaggio i polsi quando sono finalmente liberi, non perché mi facciano male sul serio, ma perché farlo rende tutto più enfatico.

Lo sportivo mi si avvicina e allunga una mano. «Piacere. Mark Peterson, cugino del villano».

«Piacere. Mackenzie Morgan, disoccupata e fra poco senzatetto perché non sarò più in grado di pagare l’affitto grazie al villano qui presente».

Jordan Peterson non sembra per niente colpito. Essere senza cuore.

«A dire il vero…», inizia Helena, ma la blocco con un’occhiataccia. So cosa sta per dire. Che per l’affitto non c’è problema. Che posso continuare a dividere l’appartamento con lei fino a che non troverò un nuovo lavoro e bla bla. Ma non posso permettermi di sembrare meno disperata. Recepisce il messaggio e vira. «A dire il vero… è peggio di quel che appare».

«Risolviamo la cosa da persone adulte, che ne dite?», domanda Mark. Nessuno sembra dargli retta, tranne Helena che annuisce con convinzione e lo osserva come se fosse una specie di rivelazione divina.

Dio, il potere degli ormoni fin dove può arrivare?

«Propongo di cenare tutti insieme e discuterne davanti a un buon piatto di sushi». Helena fa un cenno di dissenso. «Uno di aragosta?». Un altro cenno di diniego. «Pasta al pomodoro?».

Helena annuisce. «Apple pie e tanto cioccolato», aggiunge. Anche Mark sembra soddisfatto. Ci avrei giurato.

«Quando avete finito, gradirei andarmene». Jordan guarda il cugino che a sua volta lo osserva con sguardo implorante. Mentre Helena mi dice: «Ricordati che nella difficoltà io ci sono stata, sempre. Ricordatelo».

«Davvero?». Allargo le braccia e un sorriso stupito mi nasce sulle labbra. «Davvero? Qui si sta consumando una… tragedia e voi… voi vi siete dati un appuntamento?»

«Dal mio amorevole e delizioso cugino», precisa Mark.

«Non ci posso credere!».

Per tutta risposta Jordan risale in macchina. Lo sceriffo scuote ancora il capo mentre si allontana. «Alle otto? Se mi dai l’indirizzo vengo a prendervi». Ci mette il carico da undici, Mark Peterson. Helena non perde tempo. Afferra il cellulare che l’uomo le porge e memorizza numero di telefono e indirizzo, suppongo. E poi sono io la pazza. Jordan mette in moto con lo sguardo cupo, minaccioso. Ho quasi pietà per Mark. Quando il cugino lo raggiunge in macchina, riparte sgommando. «L’ho fatto per te». Helena mi mette una mano su una spalla.

«Cosa, esattamente? Sbavare su Mark Peterson da quando gli hai messo gli occhi addosso, oppure consegnarmi al nemico?»

«Non esagerare. Nessuna delle due. A cena potrai perorare la tua causa senza rischiare di essere arrestata».

«Questo lo dici tu».

«Dài, andiamo a prepararci».

«Sono le undici e trenta del mattino. Mancano quasi nove ore alle otto».

«Appunto, dobbiamo sbrigarci!».

A testa bassa, raccolgo le catene e quello che rimane del mio orgoglio. Questo doveva essere un momento glorioso della mia vita. È stato solo umiliante e niente altro.

Donna Parson porta via i gemelli. Lo spettacolo è concluso e cala il sipario.