65
Mentre Victor si avvicinava alle porte, vide che quella più vicina poteva essere scartata. La stanza al di là era zeppa di cianfrusaglie: sedie rotte, scatole e altro ciarpame rendevano il passaggio impraticabile. Victor si avviò alla seconda.
Attraversò il corridoio al di là, lentamente, con cautela, un passo silenzioso dopo l’altro. La luce era fioca ma sufficiente a fargli vedere i dettagli delle pareti: vecchia carta da parati scrostata, cavi elettrici che penzolavano dai punti in cui un tempo si trovavano le lampade, fori per ganci. La moquette era stata strappata via da terra, ma sulle assi del pavimento era rimasto uno strato isolante. Il tetto doveva ancora rompersi e il pavimento era asciutto. C’erano due porte chiuse, la più vicina sulla sinistra, la più lontana a destra, prima che il corridoio si aprisse su un’altra zona. In base all’ampiezza del piano sfalsato, Victor immaginò che le porte chiuse portassero a piccoli uffici. Al di là dello spazio aperto di fronte a lui, doveva esserci l’altra scala. L’aria fresca che giungeva da là gli fece capire che c’era una grossa apertura, forse una finestra rotta. Udì il picchiettare incessante della pioggia su superfici rigide.
Victor ignorò le porte. Un assassino Kidon non si sarebbe mai intrappolato in un ufficetto con una sola via d’uscita. Sarebbe andato nell’area in fondo al corridoio o al di là. Altri dodici passi e Victor vi sarebbe giunto. Un divano putrescente e un erogatore d’acqua senza bottiglione rivelarono che un tempo quello spazio era stato una sala d’attesa o un salotto. La pioggia impregnava le assi del pavimento sotto un buco enorme al soffitto. Il divano era senza cuscini, le molle erano visibili e arrugginite.
Un’entrata priva di porta sul lato opposto del salotto portava a una cucina. Victor vide i resti di elementi componibili e credenze tinti di bianco. Entrò alla svelta nell’area, guardando prima a sinistra, poi a destra, muovendo la Beretta. Non c’era traccia di un assassino o di un qualche riparo dove potesse essersi nascosto. Schegge di vetro di bottiglie rotte e lattine schiacciate erano disseminate sul pavimento. Da una porta aperta alla sua destra, Victor vide un balcone di metallo e un’altra scala. La porta che dava sul balcone era spalancata e lasciava entrare un fascio di luce fioca dal cielo notturno. Pezzi di vetro sporgevano dalla porta attorno al foro quadrato di una finestra rotta. Victor avanzò, per poter vedere la cucina e avere una visuale migliore del balcone, ma c’erano ancora dei punti ciechi che si potevano rivelare solo se si fosse avvicinato a uno, dando le spalle all’altro. Sapeva che l’assassino doveva essere nascosto in uno di quei posti, ma quale?
La porta che dava accesso alle scale poteva essere aperta da prima, non avere niente a che fare con i nemici, o forse l’avevano aperta per attirare là Victor e tendergli un’imboscata da dietro. O forse l’assassino si era nascosto sul balcone, immaginando che Victor l’avrebbe ritenuta una trappola e si sarebbe diretto in cucina. Andando oltre, c’erano bluff doppi e tripli, un flusso infinito di potenziali inganni. La tattica non serviva a niente. L’esperienza non era di alcun aiuto. Alla fin fine, era tutta una questione di probabilità.
Victor doveva scegliere, in fretta. Non poteva indugiare. Il secondo assassino Kidon si stava avvicinando. Il terzo, che si trovava all’esterno, forse era stato chiamato dentro, adesso che Victor era intrappolato sul piano sfalsato. Si diresse alla porta sul balcone, in modo tale che se si fosse sbagliato e l’assassino lo avesse attaccato dalla cucina sarebbe uscito dal nascondiglio con il chiaro di luna negli occhi. Victor avanzò di lato, per poter continuare a guardare a sinistra, verso la cucina.
A mezzo metro dal balcone si fermò. Avvicinandosi ancora, si sarebbe rivelato un attimo prima di vedere il nemico. Allo stesso tempo, si sarebbe rivelato a chiunque si fosse trovato in cucina. Tuttavia, non poteva guardare in contemporanea in entrambe le direzioni.
Agguantò la porta del balcone e la chiuse di scatto, creando al contempo un ostacolo e un sistema di allarme, se si fosse sbagliato. Prima di lasciar andare la porta, ruotò su sé stesso, mirando all’ingresso della cucina.
Non si era sbagliato.
La donna bassa con la faccia insignificante e i capelli maschili uscì dall’oscurità, la pistola sollevata, stretta in entrambe le mani, le braccia leggermente piegate in corrispondenza dei gomiti. Stava già strizzando gli occhi, per prepararsi a guardare nella luce, aspettandosi di trovare il suo obiettivo di spalle.
Victor fu il primo a sparare, al baricentro, per non azzardare un colpo alla testa su un bersaglio in movimento e al buio.
Il bossolo usato tintinnò sulle assi del pavimento. L’israeliana emise un lieve grido, incespicò all’indietro e cadde in cucina. Non era morta, probabilmente grazie a un giubbotto antiproiettile. Una pallottola di 9mm non era in grado di penetrarlo, ma il trauma da impatto allo sterno l’aveva tramortita, paralizzandole il diaframma e lasciandola senza fiato.
Victor si affrettò a raggiungerla per completare l’uccisione e toglierle l’arma e la ricetrasmittente, ammesso che ne avesse una, ma udì un rumore, alla sua sinistra, proveniente dal corridoio da cui era giunto; così si voltò e scagliò la Beretta verso l’entrata.
La pistola colpì l’israeliano alla fronte mentre questi usciva dal buio. La fronte era la parte più dura del cranio, ma anche vuota la Beretta pesava quasi un chilo.
L’assassino vacillò per l’impatto, agitando le braccia, dando a Victor il tempo di colmare la distanza. Usando la mano sinistra, afferrò la Beretta dell’israeliano mentre questi la teneva con una sola mano, serrò il pollice attorno all’estremità dell’indice dentro il guardamano e premette l’unghia del tizio contro il bordo duro del metallo, torcendo al contempo la mano all’indietro e in senso contrario all’articolazione.
L’israeliano lasciò andare l’arma. Victor la afferrò per la canna con la mano destra, cercò di aggiustare la presa, ma l’assassino gli diede una spallata, facendolo sbattere alla parete, bloccandolo al muro con la forza del corpo, intrappolando le sue braccia in modo tale che non potesse attaccare. Il nemico era solo qualche centimetro più alto di lui, ma con venti chili di muscoli in più. L’israeliano sbatté un avambraccio sul polso di Victor, e lui lasciò cadere la pistola prima che gli venisse strappata via. L’arma cadde rumorosamente sulle assi del pavimento bagnate.
Victor poggiava il peso del proprio corpo sulla gamba sinistra, perciò alzò la destra, la avvinghiò alla gamba che sosteneva il peso del nemico e la staccò da terra. L’israeliano cadde, atterrando di schiena, mentre Victor finì sopra di lui e rotolò via, per prendere la pistola, carponi, tagliandosi con i vetri rotti.
Agguantò la Beretta e si voltò.
L’assassino si scagliò su Victor prima che lui potesse prendere la mira, tirando la pistola da un lato e dandogli un pugno in faccia. L’israeliano non usò tutta la sua forza, ma il pugno colpì Victor alla mascella, lasciandolo dolorante e disorientato. Si fece togliere l’arma senza resistenza.
A quel punto afferrò una manciata di vetri rotti dal pavimento e li lanciò sul volto del nemico mentre la bocca dell’arma si girava nella sua direzione. L’assassino grugnì, colpito da un lato, schegge di vetro conficcate nella guancia e sulla fronte.
Un forte calcio al polso lo costrinse a mollare la Beretta, che scivolò sulle assi del pavimento. Victor saltò in piedi e si mosse, schivando il nemico, diretto all’arma. L’israeliano si alzò con altrettanta rapidità e intralciò il percorso di Victor, bloccandolo prima che potesse avvicinarsi alla pistola.
L’assassino caricò, le braccia protese, pronto al corpo a corpo, cento chili di forza e destrezza. Victor calcolò il momento giusto per attaccare, aspettando che l’israeliano abbassasse la testa per colpirlo sotto il baricentro, e a quel punto gli piantò il ginocchio in faccia. Lo colpì sotto la mascella, ma l’israeliano, spinto comunque in avanti dallo slancio, finì per scontrarsi con Victor, che a sua volta sbatté di spalle contro la parete. L’intonaco si incrinò. Victor diede una gomitata alla nuca all’israeliano, ma il colpo non fu sufficiente a impedirgli di agguantare Victor, staccarlo dalla parete e scaraventarlo lontano.
Il sicario sbatté a terra, crepando le assi del pavimento, fece una capriola all’indietro e tornò in piedi. L’israeliano aveva il volto coperto di sangue, pioggia e sudore. Il chiaro di luna faceva risplendere le schegge di vetro conficcate nella sua guancia.
Victor fece una serie di respiri profondi. Il combattimento corpo a corpo era estenuante con un nemico delle sue dimensioni, figurarsi con uno più grande e più forte. L’assassina si contorceva sul pavimento della cucina, ancora ansimante, ma non lo sarebbe rimasta a lungo. Victor individuò l’arma. Era troppo lontana perché potesse prenderla prima che l’avversario fosse su di lui. Ne lesse l’espressione. Neppure lui voleva rischiare.
Tuttavia, non ce n’era bisogno.
L’israeliano afferrò un pezzo di vetro da una finestra rotta della porta affacciata sulla scala, e lo impugnò come fosse un coltello. Era sottile e stretto, lungo dodici centimetri. Lo stringeva forte, senza curarsi del fatto che gli tagliasse il palmo e le dita.
Attaccò con pugnalate veloci l’addome di Victor, per non rischiare di rompere il vetro contro le costole. Victor si spostò verso sinistra, massimizzando la distanza tra lui e l’aggressore destrorso. L’israeliano si girò con Victor, aggredendolo al collo. Victor schivò la lama e guizzò via.
Il nemico era composto, paziente, manteneva il vantaggio di portata tenendo la scheggia protesa davanti a sé, il braccio quasi del tutto esteso. Aveva comunque le braccia più lunghe, ma con quei centimetri di vetro in più il raggio di azione di Victor era troppo ridotto per poter assestare un colpo significativo senza avvicinarsi troppo al coltello di fortuna.
Arretrò, girando in circolo, sfruttando lo spazio del salotto. Si guardò attorno alla svelta, in cerca di armi. Il divano non serviva chiaramente a nulla, l’erogatore d’acqua era troppo grosso e pesante per poter essere brandito. Il resto delle schegge attorno alla finestra rotta erano troppo piccole per essere armi efficaci.
Victor schivò gli attacchi dell’assassino, muovendosi sempre in circolo, in attesa di un’occasione per replicare, ma lo spazio d’azione si faceva sempre più ridotto man mano che l’israeliano lo spingeva verso la parete. Il sudore e l’acqua piovana gli cadevano sugli occhi. Sbatté le palpebre. L’acido lattico gli provocava dolore ai muscoli.
Finse un barcollamento e l’israeliano scattò per approfittarne, avanzando di un passo in più dallo slancio, dando così a Victor il tempo di farsi da parte e afferrarlo per la mano destra. Victor strinse, con forza.
L’israeliano grugnì, il sangue che gli colava tra le nocche, mentre la mano era serrata sui bordi affilati della scheggia di vetro. Alzò il gomito libero, colpendo Victor alla tempia prima che questi potesse allontanare la testa. La botta gli fece perdere stabilità. Si afflosciò.
L’israeliano liberò la mano destra, lasciando cadere la scheggia di vetro, che atterrò sul pavimento, intatta, coperta di sangue. Afferrò Victor per la camicia e lo spinse indietro, mentre era ancora sbilanciato e stordito dal colpo alla tempia. Posizionò per bene i piedi, piantò la spalla nel petto di Victor, mosse le anche e spinse con le gambe finché non lo fece cadere per terra.
Il sicario sbatté con forza sulle assi del pavimento, goffamente, reagendo troppo tardi per attutire la caduta. Gli girò la testa. L’israeliano gli balzò sopra, le ginocchia sui fianchi, il pezzo di vetro nella mano sinistra. La scheggia scese in fretta, la punta pronta a penetrare nel volto di Victor. Questi si riprese appena in tempo per afferrare il nemico per il polso con entrambe le mani, arrestando la scheggia cinque centimetri sopra il suo occhio sinistro.
Subito l’israeliano aggiunse forza con la mano destra ferita. Era piena di tagli e non poteva essere usata appieno, ma non ce ne fu bisogno. Lui era più forte, più pesante, e aveva dalla sua la posizione e la forza di gravità. La pressione faceva tremare le braccia a Victor. La scheggia scendeva verso il suo occhio. Non riusciva a fermarla, solo a rallentarla. Il volto dell’assassino era sopra il suo, la guancia e la fronte trafitti dal vetro.
Victor mise giù il piede sinistro, all’esterno del ginocchio destro dell’avversario, e spinse in su con i fianchi, per cercare di rotolare verso sinistra, ma le gambe dell’israeliano erano troppo forti e resistettero senza problemi alla mossa. Victor cercò di sbattere il ginocchio sui reni del nemico, ma la posizione dell’assassino era buona e i colpi di Victor non erano abbastanza potenti da essere efficaci.
La scheggia continuava ad abbassarsi e adesso era a meno di tre centimetri dal suo bulbo oculare. Scendeva anche la faccia dell’israeliano, sempre più vicina a quella di Victor. Il sangue della mano ferita correva lungo il bordo del vetro. La punta proseguiva la sua discesa. Con il passare dei secondi, Victor sentiva i muscoli ardere sempre di più.
Il vetro scintillò sopra l’occhio di Victor. Quando sbatté le palpebre, le ciglia sfiorarono la punta. Gli occhi dell’israeliano erano spalancati, desiderosi di uccidere. Il suo volto era pochi centimetri sopra le sue mani, il corpo sporto in avanti per sfruttare al massimo il peso. Sudore e sangue gocciolavano sulla pelle di Victor. Il dolore che provava ai gomiti era terrificante. Entro pochi istanti la punta del vetro gli avrebbe forato la cornea, si sarebbe conficcata nel bulbo oculare e fin nel cervello.
Victor sentì venir meno la forza del braccio ferito. Gli restavano due secondi di vita.
Uno.
Girò la testa verso sinistra e allo stesso tempo smise di fare resistenza. La scheggia scese in verticale, senza che l’assassino avesse il tempo di aggiustare la mira. La punta colpì Victor su un lato della testa, all’attaccatura dei capelli, incidendo una linea sul cuoio capelluto e l’orecchio e finendo sul pavimento.
L’israeliano cadde in avanti, ma reagì in tempo per evitare di sbattere la faccia contro quella di Victor. La ferita sulla testa di Victor cominciò a perdere sangue. La punta della scheggia era piantata su un’asse del pavimento bagnata. Il sicario aveva entrambe le braccia bloccate sotto il corpo dell’israeliano. Non aveva la forza di liberarle. Sarebbe stato una facile preda, ora che aveva le braccia intrappolate.
Tuttavia, l’israeliano era esattamente dove voleva Victor. Gli attaccò un morso al naso, strappandogli la pelle, rompendogli la cartilagine e spezzandogli l’osso.
Tra le grida dell’assassino, Victor fu schizzato di sangue. Furono grida potenti. Acute. L’uomo si tirò indietro, staccando gli ultimi brandelli di tessuto che collegavano l’estremità del suo naso alla faccia.
Victor sputò il naso e si alzò in piedi. L’assassino barcollò all’indietro, in preda al dolore, allo shock e alla paura, le mani premute sul volto, il sangue che gli zampillava tra le dita. Urlava. Victor si avviò di corsa verso la Beretta ma, prima che potesse prenderla, scorse un movimento con la coda dell’occhio. Un movimento che veniva dalla cucina.
L’assassina, che si era ripresa a sufficienza per muoversi, stava tentando a fatica di recuperare la propria arma. E sarebbe stata la prima a raggiungerla.
Victor cambiò direzione, spingendo da una parte l’israeliano urlante, spalancò la porta del balcone e si precipitò giù dalle scale. Udì uno sparo silenziato dietro di lui, il vetro andare in frantumi, e scese con un salto gli ultimi scalini.
Atterrò e si scagliò in avanti, incespicando per tenersi in equilibrio, sapendo che quando la donna si fosse messa in piedi e avesse attraversato la porta del balcone lui sarebbe già scomparso nel buio.
L’assassina sparò comunque, sperando di andare a segno alla cieca, con una scarica di colpi, rapidi scoppi che riecheggiarono in tutta la fabbrica. I proiettili ronzarono nell’aria, caddero con un tonfo sordo sul terreno o tintinnarono contro i pilastri e i macchinari. Victor non rallentò, sfrecciando dritto in cerca di velocità, perché le grida dell’israeliano senza naso sovrastavano i suoi passi e perché la sala principale della fabbrica era enorme e le possibilità che una pallottola minuscola potesse attraversare lo stesso spazio di Victor nel medesimo istante erano trascurabili.
Il sicario raggiunse la parete con le grosse finestre, trovò quella rotta in precedenza dai nemici per entrare e si issò per attraversarla. Cadde all’esterno. Gocce di pioggia gli rimbalzarono sul volto.
Forse il terzo assassino stava tenendo sotto tiro il lato opposto dell’esterno dell’edificio, oppure aveva risposto alle grida dei compagni. Victor corse. Verso la direzione dalla quale era venuto. Corse su per il pendio. Attraversò il terreno incolto.
Udì delle sirene. Sul lato opposto della fila di officine dovevano esserci poliziotti e ambulanze. Era un rischio, ma tra l’arresto e la morte Victor avrebbe sempre scelto la prima opzione. Fece fatica a scalare la rete metallica con gli arti indeboliti e si procurò altri tagli alle gambe e alla braccia superando il filo spinato.
Sul lato opposto, fu sopraffatto dalla stanchezza e cadde in ginocchio. Il suo volto era bagnato di acqua piovana mista a sangue. Inclinò la testa all’indietro e lasciò che la pioggia gli riempisse la bocca, poi sputò il sangue e i resti di carne e cartilagine.
Poggiò una mano sul taglio alla testa. Aveva troppa adrenalina nelle vene per sentire dolore. La parte superiore dell’orecchio era ancora là, ma in modo precario. Il vetro aveva tagliato l’arteria temporale superficiale sul lato del cranio, la fonte principale di sangue, ma non sarebbe morto. Usò la pioggia per lavarsi la faccia e la testa. Quando sentì tornare una parvenza di forza, si alzò in piedi, tenendo un palmo premuto sulla ferita per arrestare parte del sanguinamento mentre camminava in parallelo alle officine. Attraverso vicoli e varchi tra gli edifici, vide il lampeggiante delle pattuglie della polizia. Un ipotetico sopravvissuto israeliano doveva essere fuggito dalla scena prima dell’arrivo dei poliziotti. I testimoni avrebbero sicuramente riferito storie assurde di pistole e sparatorie. Alla fine la zona sarebbe stata messa in sicurezza, ma gli assassini Kidon sarebbero fuggiti ben prima della perquisizione della fabbrica.
Victor corse via, la pioggia che gli batteva sulla testa e sui vestiti zuppi. Nel giro di un quarto d’ora fu a un chilometro di distanza, nella periferia di Sofia, lungo una via tranquilla. Pagò cinquanta euro a un senzatetto per il suo capello di lana, poi prese un autobus. Si sedette in fondo, con il taglio sulla testa contro il freddo finestrino, per tenere premuta la ferita, e fingendosi uno dei tanti viaggiatori stanchi e fradici. C’erano cinque persone sull’autobus. Nessuno gli riservò attenzione.
Il dolore aumentava con lo svanire dell’adrenalina. Victor controllò l’orologio. Era passata da poco la mezzanotte. Era un nuovo giorno. Ferito ma vivo, con i membri della squadra Kidon ormai lontani. Gli israeliani avevano smesso di dargli la caccia. Si stavano ritirando, proprio come lui, per cercare di porre la massima distanza tra loro e il rapimento fallito. Come lui, non volevano avere a che fare con le autorità bulgare.
Prima del finire del giorno i membri sopravvissuti sarebbero stati di ritorno in Israele, nel tentativo di capire cosa era andato storto. Nei giorni successivi avrebbero dovuto scrivere rapporti, recuperare cadaveri, presenziare a funerali, ricostruire nasi. Per il momento, Victor non correva rischi, ma sapeva che il pericolo non era passato. Dopo quella sera, più che mai, il Mossad avrebbe voluto la sua morte. Potevano mettersi in fila.
Victor si vide osservato dal proprio riflesso sul vetro. Gli occhi erano bulbi oculari neri e impassibili, posti su un volto privo d’espressione, deformato dalle gocce di pioggia. Uno spettro traslucido che aleggiava sul mondo al di là.
L’autobus era diretto fuori città. Dove, Victor non lo sapeva. Non gli importava un granché. Chiuse gli occhi e si abbandonò al sonno.