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Esplose il primo neon, emettendo una cascata di scintille e vetri. Victor colpì altre tre luci con le tre pallottole successive, mentre un’altra gli sarebbe servita per distruggere il quinto. L’ultimo a scoppiare fu il neon sopra la sua testa, e Victor usò il braccio sinistro per proteggersi dalle schegge di vetro dovute alla distruzione.
Il piano si ritrovò al buio.
Victor si buttò sulla destra, facendo sporgere testa e braccia dalle casse. Non vedeva nessuno, ma fece fuoco nel punto in cui il tizio con il fucile era stato fino a pochi secondi prima. Due spari, uno dietro l’altro, all’altezza del torso. Il grido e l’incespicare dell’uomo gli fecero capire che era andato a segno, ma non in modo fatale. Il bagliore della Glock rivelò la sua posizione, così Victor si mise subito al sicuro, prima che gli spari in risposta forassero il pavimento di legno.
Victor si alzò in piedi e si mosse in fretta, senza preoccuparsi del rumore che faceva, interessato solo ad allontanarsi dai nemici. Sapeva che c’era un corridoio libero tra le casse e vi si diresse alla cieca. Sentì dei proiettili colpire le casse dietro di lui. Nel colpire un pilastro di metallo, emisero scintille.
Victor smise di avanzare dopo qualche secondo, si accovacciò, fece una pausa per esaminare la situazione. Si trovava sull’altro lato dell’ascensore. Anche se non riusciva a capire esattamente dove, si affidò alla sua immagine mentale della struttura per orientarsi, allungando una mano per guidarsi in un luogo riparato.
Victor sentiva il tizio con il fucile grugnire e imprecare e Krausse ordinargli di tacere. Gli altri due non parlavano. I loro passi cauti erano silenziosi ma comunque udibili. I vetri scricchiolavano sotto le loro scarpe. Forse a nove metri da lui.
Victor fece un rapido calcolo delle munizioni. La Glock aveva diciassette pallottole in un caricatore pieno. Lui ne aveva usate sei per abbattere le luci e due contro l’uomo con il fucile. Ne restavano nove. Gli uomini di Krausse avevano tutti sparato qualche colpo e per il momento nessuno aveva ricaricato. Pensò che lo avrebbero fatto solo dopo aver esaurito i caricatori. Di solito succedeva così. A quel punto, Victor avrebbe potuto avere qualche possibilità, ma sapeva che forse avrebbe dovuto aspettare a lungo prima che quella possibilità si presentasse.
I grugniti del tizio con il fucile cessarono. O aveva smesso di sentire dolore, oppure qualcuno gli aveva messo una mano sulla bocca. Victor non lo aveva sentito franare a terra, perciò era ancora in piedi, e se era in piedi era ancora pericoloso. Non c’era bisogno che avesse una buona mira per colpire Victor con una sventagliata di pallettoni.
Victor si guardò attorno. La zona centrale del magazzino era al buio completo. La visibilità era così limitata che Victor riusciva a malapena a vedere la Glock che teneva in mano. Le alte finestre su ciascuna parete lasciavano entrare un po’ della luce artificiale dei lampioni esterni, ma non a sufficienza da permettere di vedere, a meno che qualcuno non vagasse nei pressi delle finestre. La luce penetrava per non più di un paio di metri e Krausse e i suoi uomini non erano così stupidi da avvicinarsi a quelle zone.
Victor si slacciò le scarpe e se le tolse. Ne prese una con la mano sinistra. Con soltanto i calzini ai piedi, non fece rumore quando si mosse. Il vetro dei neon esplosi era al centro dello spazio, e Victor decise di non avvicinarvisi. Rimase chinato, la mano sinistra allungata per proteggersi da urti, e avanzò furtivamente verso la parete alla sua destra. Si assicurò di restare equidistante dalle due aree di luce che penetravano dalle finestre.
Premette le spalle alla parete e scrutò nel buio. Visto che non riusciva a vedere i suoi nemici, se non altro neppure loro riuscivano a vedere lui. I suoi occhi ci avrebbero messo forse un quarto d’ora a adattarsi alla mancanza di luce, ma dubitava di poter rimanere nascosto a quattro uomini per tutto quel tempo o trovare alla cieca un’uscita. La sua unica possibilità era quella di ucciderli prima che loro uccidessero lui.
Si concentrò sull’ascolto. Udiva i loro passi incerti e lo scricchiolare di assi del pavimento in vari punti. Non calpestavano più i vetri, perciò Victor capì che si stavano tenendo lontani dalla zona centrale. Valutò l’origine del rumore ma non aveva pallottole sufficienti a fidarsi solo dell’udito. Era per questo che aveva la scarpa. Non appena ebbe un’idea piuttosto precisa di dove fosse situato il tiratore più vicino, lanciò la scarpa con delicatezza verso il punto in cui era stato accovacciato, nei pressi dell’ascensore. Quando questa atterrò, non sembrò il rumore di una persona che si muoveva, ma fu sufficiente a ingannare delle persone cariche di adrenalina.
Il buio fu squarciato da bagliori di armi.
Due centri di bersaglio.
Victor spedì due pallottole in prossimità del bagliore più vicino, cambiò mira, sparò altri due colpi al secondo, e si gettò a terra.
Una raffica di fucile staccò un pezzo di muro mezzo metro a destra della sua testa, riversandogli sulla faccia polvere di mattone. Prima che potesse replicare al fuoco, il fucile sparò ancora, e ancora, forando la muratura sopra di lui. Pezzi di calcinacci gli caddero addosso.
Victor rimase giù finché gli spari non cessarono. Aveva polvere di mattoni e sabbia su testa e spalle, negli occhi e in bocca. A parte il dolore e l’irritazione, non era preoccupato per gli occhi. Non ci avrebbe visto comunque. Tuttavia, stava cercando di trattenere la tosse dovuta alla polvere in gola. Sputò il più silenziosamente possibile.
Qualcuno iniziò a gemere e dimenarsi, la sofferenza che annullava la necessità di restare nascosti. Krausse, stavolta, non cercò di zittire il suo uomo. Non voleva tradirsi e finire in una situazione simile. Victor non sapeva se l’altro tizio a cui aveva sparato era morto o se aveva mancato il segno. Dovette presumere che fosse pronto a combattere. L’uomo con il fucile aveva dimostrato di poter ancora sparare e Victor immaginò che adesso Krausse avesse in mano una pistola. I nemici erano dunque tre. La Glock aveva ancora cinque pallottole. Non erano sufficienti neppure per due spari per ciascuno. Considerando che in pratica Victor era cieco, il margine d’errore era ridotto.
Victor si tenne giù e si allontanò dalla parete, per cercare riparo. Gli occhi gli lacrimavano. Allungò la mano sinistra per schivare gli ostacoli, e avere la possibilità di sbattere in fretta gli occhi per liberarli dallo sporco.
Cambiò posizione, avanzando lentamente, conscio di essere diretto verso i vetri rotti. Con le grida dell’uomo ferito a sovrastare ogni altro rumore, Victor doveva stare attento a non sbattere contro uno degli uomini di Krausse. Non sapeva se fossero immobili o in movimento. Se le scale fossero state da quel lato dell’edificio, Victor vi si sarebbe precipitato, ma le uniche uscite erano sul lato dei nemici. Il ferito continuava a gridare, anche se il volume delle urla diminuiva con l’esaurirsi della sua vita. Entro pochi minuti si sarebbe zittito. Sbrigati a morire, così potrò tornare a sentire, lo incoraggiò in silenzio Victor.
Liberò gli occhi dallo sporco rimanente e tornò così a vedere la Glock. Le urla si ridussero a poco più di un piagnucolio, finché Victor non tornò a udire il proprio respiro. Tenne la Glock spiegata davanti a sé e attese di ricevere indizi su dove si trovassero Krausse e i suoi uomini. Non sentì movimenti, nessun respiro spaventato, soltanto i gemiti del ferito. Victor cambiò posizione, spostandosi verso il lato opposto dell’ascensore.
Il pavimento gli scricchiolò sotto i piedi.
In risposta, due raffiche di fucile colpirono una vicina pila di casse. Schegge di legno volarono in tutte le direzioni. Victor sentì uno strappo nella giacca. Si buttò a pancia in giù mentre due fucili aprivano il fuoco. I proiettili colpirono con forti tonfi le casse che lo proteggevano, sfrecciandogli sopra la testa.
Le raffiche non cessarono. Sparavano a casaccio, confidando nella potenza di fuoco e sperando di avere fortuna. Il rumore era assordante. Per Victor le opzioni erano restare fermo o tentare una fuga. Spostarsi sulla linea di tiro era una tattica erronea, ma restare immobile e sperare di non essere colpito sembrava una scelta ancora peggiore.
I proiettili continuavano ad abbattersi sulla sua posizione, colpendo il pavimento, le casse e i pilastri. Pallini di fucile crearono un buco nelle assi del pavimento abbastanza vicino a Victor da fargli percepire le vibrazioni delle tavole di legno. Il tempo a sua disposizione si stava esaurendo.
Ci fu un periodo di quiete nella sparatoria. Una pistola smise di fare fuoco. In un primo momento, Victor pensò che qualcuno stesse ricaricando l’arma, ma udì un altro suono tra gli altri spari. La Musica sull’acqua di Händel.
Non si lasciò sfuggire quel vantaggio. Si mosse, sbirciando alla svelta oltre la pila di casse. Non vide niente. Provò sull’altro lato e, una frazione di secondo prima che il cellulare smettesse di suonare, vide l’azzurro dello schermo brillare nel sottile tessuto dei pantaloni di Krausse.
Victor puntò la Glock e fece fuoco. Krausse gridò. Victor si alzò in piedi e si mosse prima che il tizio con il fucile rispondesse al fuoco. Il forte bagliore della canna illuminò brevemente l’uomo e Victor sparò due colpi. Il tizio cadde da un lato, in una zona di luce nei pressi della finestra. Morto stecchito.
L’ultimo tiratore sparò. La bocca dell’arma emise un bagliore sul lato opposto del magazzino, forse a venti metri di distanza. Victor fece fuoco, in movimento, avvicinandosi di corsa. Con troppa impazienza.
Capì di aver sbagliato la mira prima che il bagliore di risposta glielo confermasse. Il proiettile fece scintille sul pilastro di metallo alla sua sinistra. Lui si spostò a destra, senza azzardare un nuovo tiro a quella distanza con solo una pallottola nella Glock.
A meno di quindici metri, l’uomo sparò ancora. Non aveva cambiato posizione: era più o meno nei pressi del lavello. Il proiettile mancò di molto il bersaglio. Stava sparando basandosi solo sull’udito e Victor era un obiettivo veloce. Si spostò di nuovo verso destra, sbatté una gamba in una cassa e incespicò.
Il proiettile successivo fece un foro nel vetro della finestra.
Erano a meno di dieci metri di distanza. Il nemico fece ancora fuoco, stavolta da una posizione diversa, da dietro un pilastro. Il proiettile fu abbastanza vicino da permettere a Victor di sentirlo sibilare. Cinque metri. Un altro tiro mancò il bersaglio e Victor si preparò al successivo, che era certo lo avrebbe colpito.
Nessuno sparo. L’arma era scarica. Victor sentì il caricatore cadere a terra e il tizio cercare in maniera frenetica di inserirne un altro. Victor percorse in fretta gli ultimi metri, durante i quali scorse finalmente il tiratore: una sagoma sfocata e quasi nera che si stagliava nell’oscurità. Udì il caricatore nuovo inserirsi nell’arma e la sagoma si mosse, franando all’indietro, colpita al petto dall’ultima pallottola di Victor.
Victor si fermò, fece un respiro profondo e si mise in ascolto. Sentì un uomo gemere nell’oscurità. Tutti gli altri erano morti o stavano morendo in silenzio. Victor mise giù la Glock scarica e strappò di mano al nemico quella carica. Controllò le tasche al cadavere, trovando un portafoglio e un accendino. Prese entrambi, felice che non ci fossero sigarette a mettere alla prova la sua determinazione.
Seguì la mappa mentale verso le proprie scarpe, se le infilò e poi tornò dove era stata abbattuta Georg, mentre i gemiti si facevano sempre più intensi. Victor usò l’accendino per ridurre il buio e vide Georg supina, le mani premute sull’addome insanguinato. Il sangue si era raccolto sul telo di plastica sotto di lei, gocciolava sul pavimento e filtrava nelle fessure tra le strette assi del pavimento. La donna fissava Victor, un volto spettrale stravolto dalla sofferenza. Lacrime le luccicavano sulle guance.
«Ti prego...»
Stando attento a evitare il sangue, Victor controllò le tasche di Georg. «Che c’è?»
«Aiutami.» La voce della donna era flebile. «Ti pagherò... Tutto ciò che vuoi.»
Victor mostrò che il portafoglio era vuoto. «Con cosa?»
Georg non rispose. Victor rimise a posto il portafoglio, ignorò un cellulare e si intascò un mazzo di chiavi da furgone.
«Aiutami» lo implorò la donna.
«Hai un giubbotto antiproiettile» spiegò Victor. «È per questo che sei ancora viva nonostante un proiettile calibro 12 alla pancia. Ma è un giubbotto occultabile, perciò forse ha diciannove strati di Kevlar. Sono sufficienti a fermare un 9mm che viaggia a trecentosessanta metri al secondo, ma non nove pallini con la stessa velocità. Forse, però, ha assorbito il cinquanta per cento dell’energia, perciò nessuno di quei pallini ha raggiunto la colonna vertebrale, ma è rimasta una forza in grado di ridurti a brandelli l’intestino. E questo senza contare il proiettile che hai alla spalla. Sarai morta nel giro di un quarto d’ora al massimo. Non posso fare niente per impedirlo.»
«Ti prego... Chiama un’ambulanza.»
«Permettendo ai servizi di pronto soccorso di registrare la mia voce? Non credo proprio.»
Victor trovò il tizio che aveva pugnalato ed estrasse il coltello dalla schiena. Realizzato su misura, tutto in ceramica, con una lama kris e una punta da gladiatore. Era un’arma troppo bella perché la si potesse lasciare in un cadavere, anche mettendo da parte il suo valore sentimentale. Victor pulì la lama sulla giacca del morto, poi la richiuse.
«Mi dispiace... che... sia andata così» disse Georg. Il suo tono di voce parve sincero, ma Victor sapeva per esperienza come un dolore lancinante riuscisse a spingere la gente a scusarsi. Si alzò in piedi.
«Aiutami... Ti prego» farfugliò tra i grugniti. «Oppure uccidimi... Mi fa male...»
Victor si avvicinò e si fermò a qualche centimetro dalla pozza di sangue. Puntò la Glock.
Georg seguì la pistola con gli occhi, poi li chiuse per non dover guardare. Non che ci fosse tempo per cogliere il bagliore della bocca e temere il proiettile prima dell’impatto, o rendersi conto della fine imminente. Victor, però, non fece fuoco.
Al contrario, si accovacciò e infilò una mano nel montgomery di Georg. Tirò fuori il cellulare, digitò il numero di emergenza, attivò il vivavoce e mise in mano a Georg il telefono. La donna aprì gli occhi e fissò Victor, sconvolta.
«Ricordati di dimenticarmi» disse Victor prima che la linea si connettesse. Poi si avviò all’ascensore, mentre l’operatore del pronto soccorso chiedeva educatamente la ragione della telefonata.