10
Aeroporto Chopin, Varsavia, Polonia
Kevin Sykes soffocò uno sbadiglio indotto dal jet lag mentre guardava le luci rosse e verdi sulle ali dell’aereo in arrivo. Il corpo del Lear in atterraggio apparve nel cielo notturno, la pancia illuminata dai fari antinebbia dell’aeroporto. A differenza dei velivoli commerciali, il jet scese su una delle piste più piccole e meno utilizzate.
Il rumore dell’atterraggio era assordante e Sykes si premette i palmi sulle orecchie. Gli pneumatici dell’aereo stridettero per un istante, quando entrarono in contatto con l’asfalto, ed emisero uno sbuffo grigio di gomma bruciata. Il fumo si dissolse nell’aria fredda.
Il Lear bianco rullò lungo la stretta pista e si fermò cinquanta metri prima di due aviorimesse. Non c’erano operatori aeroportuali in giro, come richiesto. Il singolo portellone dell’aereo si aprì e fu calata a terra la corta scaletta. Fu messa in posizione.
All’uscita apparve un uomo, che discese gli scalini. Era di corporatura robusta, sulla cinquantina, con un paio di jeans e un maglione pesante. Aveva radi capelli grigi e un volto abbronzato e duro. Fu seguito da un uomo dal volto altrettanto duro sulla trentina. Il vento gli agitò gli angoli della giacca di jeans e Sykes vide la pistola infilata nella fondina da cintura. Accolse i nuovi arrivati in fondo alla scala.
«Max Abbot» disse il primo uomo con un accento londinese della classe operaia e una voce profonda e roca.
Sykes cercò di non trasalire mentre questi gli stringeva la mano. «Piacere di conoscerti, Max.»
Abbot indicò il compagno. «Questo bastardo è il mio socio, il signor Blout.»
Blout rimase impassibile. «Ciao.»
Sykes lo salutò con un cenno del capo, un po’ cautamente. L’esperienza più recente che aveva avuto con collaboratori esterni non era stata buona, perciò non sapeva che idea farsi di quei due britannici. Non sapeva niente della loro formazione, ma immaginava che fossero ex militari o agenti segreti, abituati a quel genere di cose, visto che avevano ottenuto il lavoro.
«Bene» disse Abbot, girando la testa da parte a parte. «Eccoci in Polonia. Da qua non è molto meglio di come appariva dall’aereo.» Si sfregò le mani. «Vediamo di sbrigarci, che ne dite? Prima finiamo, prima torniamo al caldo. Qui c’è talmente tanto freddo da far ghiacciare il pisello a un orso polare.»
«Concordo.»
Abbot si voltò verso Blout. «Fallo uscire.»
Blout salì le scale e svanì per un minuto all’interno del Lear. Quando riapparve, tirò fuori un altro uomo. Con le manette ai polsi e alle caviglie: Xavier Callo uscì dal portellone.
Era più basso di quanto Sykes si sarebbe aspettato e sembrava pesasse non più di sessanta chili. Callo indossava il genere di tuta arancione che di solito era riservata ai carcerati e ai terroristi, il che non era molto astuto, dato che quella estradizione non era autorizzata, ma Sykes stette zitto. Callo sarebbe rimasto all’aperto troppo poco perché questo costituisse un problema. La tuta era enorme e accentuava ancor di più la sua magrezza. L’uomo teneva il capo chino, perciò Sykes non riusciva a vederne gli occhi. Si muoveva in maniera lenta, goffa. Le manette ai polsi erano collegate ai ceppi delle caviglie da una catena. Sembrava eccessivo, visto che Blout o Abbot avrebbero potuto trasportarlo con una mano, ma evidentemente quei due avevano il loro modo di fare le cose. Blout spinse Callo da dietro e lui cominciò a scendere con cautela gli scalini.
Abbot notò che Sykes stava fissando la scena. «Sembra innocuo, ma è un grosso pezzo di merda. Quando ha smesso di fare effetto la roba che gli abbiamo iniettato, è uscito fuori dai gangheri, voglio dire, è diventato un pazzo furioso. Mi ha piantato i denti nella coscia. Mi ha fatto un male cane. È per questo che lo abbiamo legato.»
«Come lo avete preso?» chiese Sykes.
Abbot sorrise, pieno d’orgoglio. «Avremmo dovuto acciuffarlo nella sua villa. Avevamo un piano molto carino, che stavamo provando, ma non ce n’è stato bisogno. Lo abbiamo sorvegliato per tre giorni e l’unica cosa che faceva era dare la caccia alla figa come un cane in calore. E non si accontentava di una qualsiasi. Puntava solo quelle alte. Più erano alte, più Callo si dava da fare. Perciò, abbiamo improvvisato. Ho preso una donna di strada, una bionda spettacolare e spilungona. Le ho sparato che Callo era un fuggiasco e noi dei cacciatori di taglie. Le ho detto che era un tizio molto cattivo, un pedofilo o cazzate del genere. Ad ogni modo, l’abbiamo pagata per ammaliarlo mentre lui beveva in un bar. Ci ha messo solo ventotto minuti per farlo salire su un taxi. Gli ha perfino piantato l’ago nella coscia e mi ha fatto un pompino quando l’ho fatta scendere, senza supplementi.»
«Ben fatto.»
«Grazie» rispose Abbot, continuando a sorridere.
Quando Callo giunse a terra, Abbot lo prese per il colletto e lo tirò in avanti. «Forza, puttana, fatti guardare da quest’uomo.»
Callo sollevò lentamente il capo. Era distrutto, disorientato e completamente sfinito. Per la prima volta, Sykes lo guardò negli occhi e fu felice di vedervi spavento.
«Buona sera, Xavier» disse cordialmente Sykes. «Benvenuto all’inferno.»
La stanza era semplice, un cubo, di tre metri per tre. Le pareti erano di cemento grezzo, come pure il soffitto e il pavimento. Al soffitto era appesa una singola lampadina nuda, che tuttavia non forniva illuminazione. A una parete c’era un lercio materasso, ma senza letto. Callo si sedette al centro del materasso, stringendo le ginocchia al petto e tremando. Aveva soltanto le mutande e i calzini. Il calzino destro era bucato alle dita.
«Voglio farti alcune domande» disse Sykes dalla porta aperta. «Su Baraa Ariff.»
«Non intendo dire nulla» rispose Callo con aria di sfida, il respiro che gli si condensava nell’aria. «Non potete farmi questo. Io sono americano. Ho dei diritti. Voglio il mio avvocato.»
Callo era stato lasciato da solo al freddo e al buio per più di tre ore e pareva piuttosto ammorbidito dall’esperienza, per non dire stroncato. Sykes avrebbe voluto tenerlo rinchiuso per almeno un giorno, ma non aveva molto tempo a disposizione. Incrociando le braccia al petto, disse: «Odio essere io a dovertelo dire, ma ti trovi in una zona esente da avvocati. I diritti che pensi di avere, qua non si applicano. Sei in una zona aterritoriale e atemporale. Qua non ti protegge alcuna legge. Questo posto semplicemente non esiste. Adesso, parlami di Ariff e ti ridaremo i vestiti. E magari anche un pasto caldo. Che ne dici? So che qua fa un freddo cane. So che hai fame.»
«No» ripeté Callo, stringendo ancor più le ginocchia al petto. «Fottiti.» Aveva ancora un tono sprezzante, ma le lacrime cominciavano a scendergli sulle guance.
«D’accordo» fece Sykes con un sospiro accentuato. «Io ho provato a essere educato, ma tu non mi lasci scelta, dico bene?» Si sporse fuori dalla porta. «Ho bisogno di aiuto, per cortesia.»
Abbot e Blout fecero irruzione nella cella e andarono dritti da Callo. Lo sovrastarono. Avevano volti pieni di aggressività. Callo gridò non appena li vide. Abbot lo afferrò per le braccia, Blout per le gambe. Callo si dimenò, ma non aveva la forza sufficiente a opporsi a un uomo, tantomeno a due.
Sykes uscì dalla stanza. Blout lo seguì, con una caviglia di Callo in ciascuna mano. Abbot fece altrettanto con i polsi. L’uomo combatté per tutto il tragitto, piangendo e gridando, lottando più che poteva. Attraversarono un corridoio lungo e buio. Era freddo e umido, con puzza di feci nell’aria. I loro passi erano pesanti. Si udivano altre grida all’interno del complesso e Sykes notò che Callo interruppe le proprie per ascoltare.
«No, vi prego!» li implorò. «Avete fatto un errore.»
Abbot lo guardò. «Oh no, amico. Sei tu ad aver fatto un errore. E adesso pagherai.»
Davanti a loro lampeggiò una luce azzurra e un grido lacerante riecheggiò nel corridoio. Callo allungò il collo mentre superavano una porta aperta. Un uomo nudo era legato a una sedia al centro della stanza. Aveva i capelli fradici e la pelle bagnata d’acqua. Ai suoi genitali erano attaccati dei cavi. Di fianco a lui c’era un altro uomo, che lo schiaffeggiava. Poi la porta si chiuse di botto e da sotto la porta filtrò altra luce azzurra. Le grida ripresero e la puzza di carne bruciata inondò l’aria. Callo ebbe conati di vomito, tirò e scalciò. Le grida dietro la porta chiusa sovrastarono le sue.
«Non preoccuparti» disse Abbot. «Adesso tocca a te.»
La loro destinazione aveva lo stesso cemento grezzo della cella di Callo. C’era un lavello a una parete, con un tubo di gomma fissato al rubinetto. Alla parete opposta c’era un semplice tavolo affiancato da un generatore portatile. Al generatore erano collegati due lunghi cavi, ammassati sul tavolo. Il generatore rombava fragorosamente. Nell’aria salivano fumi di scarico. Abbot e Blout lasciarono andare Callo, che atterrò duramente sulla schiena, ma si voltò subito e scattò a gattoni verso la porta. Sul tragitto c’era Sykes, che gli bloccò la strada ridendo. Poi gridò: «Questo stronzo mi ha morso!»
«Ti avevo avvisato» disse Abbot, mentre stringeva un braccio attorno alla gola di Callo. «Questo è pazzo.»
Sykes si massaggiò l’avambraccio e chiuse la pesante porta d’acciaio, mentre Blout e Abbot trascinavano indietro Callo e lo costringevano a sedersi su una fredda sedia di metallo. Gli misero le braccia dietro la schiena e gli bloccarono i polsi con delle manette. Altri ferri fissarono le caviglie alle gambe della sedia.
Abbot andò al lavello e Blout al generatore.
«Vi dirò qualsiasi cosa» urlò Callo.
Sykes annuì mentre si massaggiava il braccio. «Questo lo sappiamo, lo sanno tutti. Ed è proprio questo il problema. Tu mi dirai qualsiasi cosa. E qualsiasi cosa non va bene. È per questo che dobbiamo mettere in atto certe procedure, per assicurarci che ciò che dici sia la verità.»
Callo parlò in fretta. «Lo sarà, ve lo prometto.»
Sykes annuì ancora ma non disse niente. Guardò Abbot, che raccolse il tubo dal pavimento e lo puntò verso Callo. Aprì il rubinetto e un getto di acqua gelata lo colpì in volto. Era talmente fredda che Callo si irrigidì ed espirò in fretta, la faccia stravolta, la testa che si agitava da parte a parte, nel tentativo di sfuggire a quel getto doloroso. Abbot reindirizzò lo spruzzo sul corpo di Callo, finché non fu fradicio. Callo scalciò e strillò, dimenando le gambe in maniera convulsa. La sedia, imbullonata al pavimento, non si mosse.
Sykes disse: «Basta così.»
Abbot chiuse il rubinetto. Callo prese a tremare in maniera incontrollata sulla sedia, battendo i denti, la pelle d’oca sul corpo, le labbra viola. Provò a parlare, per implorare pietà, ma non riusciva a formare parole coerenti.
Abbot lo afferrò per i capelli e gli tirò la testa da un lato per fargli guardare il tavolo.
«Adesso vedrai...» sbraitò Abbot.
Lasciò andare i capelli e raggiunse il tavolo. C’era un sacchetto di carta marrone sul piano, e lui ci infilò una mano dentro. Ne estrasse due arance, le mise una accostata all’altra e le fissò al tavolo con del nastro adesivo.
«Immagina che siano la parte più preziosa di te.»
Abbot prese un pennarello nero da una tasca dei pantaloni. Tracciò delle lineette nere su ciascuna arancia. Rise tra sé. Poi prese i cavi, che avevano dei connettori a coccodrillo, e li collegò alla buccia di ciascuna arancia.
«Sei pronto?» chiese Abbot a Callo, ma non attese una risposta. Fece un cenno a Blout, che premette un interruttore sul generatore.
Le arance cominciarono a brillare e poi a vibrare. Dopo alcuni secondi si diffuse nella stanza un odore di agrumi. Le vibrazioni aumentarono e la buccia di un’arancia si ruppe. Dall’apertura uscì del vapore e traboccò del succo.
«Ecco qua» fece Abbot, battendo le mani.
Si aprì anche la seconda arancia. Apparvero altre fenditure e Callo osservò con occhi spalancati, mentre le arance scoppiavano e succo caldo e pezzi di polpa schizzavano in aria.
Abbot batté di nuovo le mani. «Oh sì. Ecco la scena madre.»
Blout spense l’interruttore del generatore. Ciò che restava delle arance fumava sul tavolo. Dal bordo gocciolava succo. Pezzi di polpa e buccia di arancia erano disseminati sul pavimento. Un pezzo caldo era atterrato sulla coscia nuda di Callo, facendolo trasalire.
«Guardate» disse Abbot, ridendo e indicando con il dito. «Lo stronzo si è pisciato addosso.»
Le mutande di Callo erano già fradicie ma il giallo sul davanti era evidente.
Sykes si avvicinò. «Hai capito cosa intendevo dire?»
Callo annuì. «Sì, sì! Vi dirò la verità.»
«Bene» fece Abbot. «Perché se pensi a cosa fa quell’arnese a delle arance, non immagini neppure come riduce un paio di palle.» Staccò i connettori a coccodrillo dalla buccia delle arance distrutte. «Accidenti, come sono caldi.»
Blout aprì un coltello a serramanico e si avviò verso Callo, che gridò alla vista della lama. Blout usò il coltello per tagliargli le mutande.
Abbot rise. «Mi sa che l’acqua era più fredda di quanto pensassi.»
Callo gridò mentre i connettori si agganciavano allo scroto.
Sykes avanzò. «Vedi, Xavier, qua non ci finanziano a sufficienza e non possiamo permetterci una macchina della verità. Ma come vedi ne abbiamo improvvisata una. Certo, non è altrettanto sofisticata, ma funziona altrettanto bene. Perfino meglio.» Sykes indicò l’inguine di Callo. «Vuoi una dimostrazione più accurata di come funziona la nostra macchina della verità?»
Callo scosse il capo con forza. «No, no, no!»
«Va bene» proseguì Sykes. «Vedo che sei convinto che funzioni, ma partiremo con calma. Dimmi, come vanno gli affari?»
Callo mostrò uno sguardo confuso. «Gli affari?»
«Sì» disse Sykes. «Gli affari. Sai, il commercio di diamanti. Come va? Stai facendo tanti soldi?»
«Ehm... penso di sì. Potrebbe andare meglio.»
Sykes rise. «Potrebbe andare meglio?» Lanciò un’occhiata ad Abbot e Blout. «Avete sentito, ragazzi? Potrebbe andare meglio. Ho sentito dire della tua visita a quel bar greco. Sperperavi denaro come se stesse per andare fuori moda. E la villa sulla spiaggia; scommetto che una settimana di affitto costa tanto quanto pago io al mese per casa mia. Perciò non fare il modesto. Io non ne capisco niente. I diamanti grezzi, per me, sono identici a pietruzze, ma tu hai un occhio magico, non è vero?»
«Immagino di sì.»
«Che cosa ti ho detto della modestia?»
«D’accordo, sono bravo in quello che faccio.»
«E allora dillo, cazzo» sbraitò Abbot.
«Perdona il mio amico» disse Sykes. «È arrabbiato perché la macchina del caffè non funziona. Io ti offrirei un bicchiere d’acqua, ma penso tu ne abbia già avuta abbastanza dal tubo.»
Callo scosse il capo. Soffriva di una sete costante da due giorni. «No, un po’ di acqua mi andrebbe.»
«D’accordo» fece Sykes. «Rispondi a un altro paio di domande e ti farò portare un bicchiere, che ne dici?»
«Grazie» rispose Callo.
«Figurati.» Sykes infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. «Parlami del tuo rapporto con Baraa Ariff.»
Callo esitò. «Che cosa vuoi sapere?»
«Quello che ti ho detto. Parlami del tuo rapporto con lui. E non dimenticare la macchina della verità.»
«Io... vendo diamanti per suo conto.»
Sykes piegò la testa da un lato. «Vuoi dire che ricetti i diamanti che lui riceve come pagamento dalla vendita di armi in Africa?»
«Io non so come li ottenga. Io mi occupo solo di...»
«Ma tu sei una persona intelligente, prova a indovinare. Cos’altro potrebbe vendere un trafficante di armi?»
Abbot raccolse un po’ di polpa di arancia e la mangiò. «Le arance calde non sono male.» Il succo gli gocciolò dal mento. «Ne vuoi un morso, amico?»
Callo scosse il capo. Blout gliene tirò comunque un pezzo. Colpì Callo sulla guancia.
«Sto aspettando» lo spronò Sykes.
Callo disse: «Ottiene diamanti in cambio di armi.»
«Visto? Non era poi così difficile» fece Sykes. «So che hai paura che Ariff venga a sapere che tu lo hai tradito, ma il problema esiste solo se tu uscirai da questo posto. Hai colto il messaggio tra le righe? Perciò, pensa alle tue priorità e inizia a rispondere più in fretta alle mie domande.» Sykes lo guardò di sottecchi. «Ora, abbiamo stabilito che ricettavi i diamanti di Ariff, perciò hai tratto profitto dal commercio illegale di armi.»
«Ma io non lo sapevo.»
«Non me ne importa un cazzo se lo sapevi o no. Non me ne importa un cazzo di chi sei. Odio dover essere io a dirtelo, ma tu non sei una persona molto importante. Qualcuno sa che sei sparito? E se lo sapessero, gliene fregherebbe qualcosa?»
Callo distolse lo sguardo.
«È come pensavo» disse Sykes. «Torniamo ad Ariff. Cos’altro sai su di lui?»
«Non ne sono sicuro.»
Abbot gesticolò in maniera furiosa. «Non sei sicuro di cosa sai? Che cazzo di risposta è?» Era rosso in volto. Guardò Sykes. «Dovremmo bruciargli subito i testicoli. Questo gli farà venire la certezza.»
«No, no!» li implorò Callo. «Vi dirò tutto quello che volete sapere.»
«Dov’è Ariff?» chiese Sykes.
«Non lo so. Come faccio a saperlo?»
Abbot lo schiaffeggiò. «Perché sei stato visto ad Anversa una settimana fa, a vendere un grosso quantitativo di diamanti grezzi.»
«Che hai avuto da Ariff» aggiunse Sykes. «Perciò sappiamo che lo hai visto di recente. Sei davvero così sciocco da non capire che di alcune domande che ti facciamo sappiamo già la risposta? Dimmi un’altra bugia o prova ancora a mostrarti evasivo e metteremo in funzione la macchina della verità. Ci vorranno solo due minuti. Pensa a come diventeranno le tue palle dopo centoventi lunghi secondi.»
Sulle guance di Callo scesero lacrime e sbatté gli occhi per scacciarle. «Ariff al momento vive in Libano. Ha una casa a Beirut.»
«Dove?» chiese Sykes.
«Non so esattamente dove, non ci sono mai stato. L’ultima volta l’ho visto al Cairo. Deve essere sulle colline sopra Beirut, perché mi ha detto che ha una visuale magnifica della città e del mare. Sui pendii del Monte Libano, perché mi ha detto che ha fatto tagliare alcuni cedri. I cedri crescono là.»
Sykes abbassò gli angoli della bocca e annuì. «Una buona deduzione. Sono colpito. Davvero. Ora, tu vendi i suoi diamanti e ottieni contanti. Sappiamo che ad Ariff non piace usare le banche. Dunque, come gli consegni i soldi?»
Quando Callo esitò, Sykes fece un cenno a Blout. «Accendi l’interruttore.»
Callo gridò: «No!»
«Allora dimmelo.»
«Accade in Europa o nel Medio Oriente. Sempre. Ma non so dove, finché non me lo comunicano. A quel punto vado e consegno il denaro. È così che funziona.»
«Incontri Ariff in persona?»
«O un suo socio in affari» disse Callo. «Gabir Yamout.»
«Quando riceverai il messaggio?»
«Presto. Forse in settimana.»
«Bravo ragazzo» disse Sykes con un sorriso. «Te la stai cavando bene. Continua così e tornerai a vedere il sole. Ora, dimmi come riceverai il messaggio.»
Sykes interrogò Callo per un’altra ora, poi gli fece avere l’acqua come promesso. Non sarebbe potuta andare meglio. Procter sarebbe stato elettrizzato dalle informazioni che aveva raccolto Sykes, al quale era subito parso chiaro da ciò che aveva letto che Callo avrebbe parlato senza bisogno di troppo incoraggiamento, o coercizione, come piaceva definirla alla CIA. Sykes aveva letto la bibbia della tortura sulle tecniche d’interrogatorio consentite mentre attendeva l’arrivo di Callo, e sapeva ciò che era o non era permesso. L’abbrustolimento dei coglioni rientrava senza dubbio nella seconda categoria, ma le cose non erano come sembravano.
La messinscena che Sykes aveva allestito per Callo era stata perfetta. Erano in un bunker abbandonato della guerra fredda, che fungeva a meraviglia da sito segreto della CIA. Alcune persone del posto assoldate avevano svolto la parte del prigioniero e degli interroganti per il piccolo siparietto a cui Callo aveva assistito, con la puzza di testicoli bruciati data da costine di maiale arrostite su un fornello da campeggio. Il generatore era vero, però, le arance esplose erano vere, ma Sykes non avrebbe mai acceso l’interruttore. Voleva soltanto farlo credere a Callo.
Gli ordini di Sykes erano stati espliciti. Callo non andava leso in alcun modo, anche se se lo sarebbe meritato; la cosa era positiva, perché Sykes aveva conosciuto la violenza e sapeva di non sopportare la tortura vera. Far cagare sotto Callo era necessario, tuttavia, e un po’ di brutalità era consentita, ammesso che non lasciasse tracce. Callo era un criminale di professione e un ricettatore con lo zampino in molti traffici illegali perciò, violenza o meno, la sgradevolezza di quella giornata era una sorta di karma per la sua lunga lista di peccati.
E poi, Sykes fu sorpreso di ammetterlo, era stato molto divertente osservare Callo dimenarsi e implorare.