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Berlino, Germania

Il primo uomo della scorta di Farkas arrivò da solo. Victor lo scorse con facilità, mentre camminava con un certo grado di arroganza, aspettandosi che gli altri gli facessero spazio, lanciando occhiatacce a chi non lo faceva. Sembrava trentenne, con la pelle chiara e i capelli scuri che gli arrivavano sotto le orecchie. Indossava un completo che non gli si addiceva e parlava al cellulare, urlando in ungherese a una persona che Victor immaginò essere la moglie o la fidanzata.

La padronanza della lingua da parte di Victor era al massimo passabile. Aveva rinfrescato la comprensione dell’ungherese da quando aveva ricevuto l’incarico, ma aveva ancora molto da imparare. Il tizio teneva il telefono stretto tra la testa e la spalla, mentre armeggiava con la chiave per aprire la porta. Mentre sorseggiava un succo d’arancia fuori dal bar, Victor non riuscì a vedere se era armato. Scrisse un numero uno su una pagina bianca del taccuino e di fianco elencò le caratteristiche fisiche e le capacità tattiche dell’uomo: nessuna.

Passò un’altra ora prima che prendesse altri appunti. L’uomo uscì dall’edificio e tornò mezz’ora dopo, stavolta carico di buste della spesa e con un vassoio con cinque caffè. Era dunque un rifornimento, una provvista delle cose essenziali in vista dell’arrivo del capo. Victor aggiunse il tempo impiegato e la marca di caffè acquistato agli appunti, scrivendo anche ‘disarmato’.

Farkas doveva essere in arrivo, altrimenti il caffè si sarebbe freddato, perciò Victor finì di bere, raccolse le sue cose e si incamminò con calma lungo la strada, con un passo noncurante, come fosse un uomo del posto che non aveva fretta di arrivare a destinazione. Tirò fuori il cellulare, finse di rispondere e intraprese due chiacchiere con una persona di spirito immaginaria.

Il telefono gli fornì una ragione per gironzolare sul marciapiede fuori dal palazzo. Rimase a qualche metro dalla scalinata. Voleva essere vicino, quando Farkas fosse arrivato, ma non abbastanza da sentirne il profumo, o la sua mancanza.

Non passò molto tempo. Una berlina nera della Mercedes si fermò all’esterno dell’edificio e Farkas uscì dopo che uno dei suoi tirapiedi gli ebbe aperto la portiera. Farkas appariva in forma, alto poco meno di un metro e ottantacinque e ottanta chili di peso. Il dossier lo descriveva cinque centimetri più alto e circa cinque chili più pesante. Non che quelle informazioni lo potessero portare a sbagliarsi, ma non davano una bella impressione sulle fonti di Victor. A differenza degli altri uomini che arrivarono con lui, Farkas era abbronzato, probabilmente lampadato. Era un’abbronzatura troppo scura e troppo omogenea. Indossava un completo nero dall’aria costosa con una camicia rossa e una cravatta rossa. Era un abbinamento elegante, o lo sarebbe stato senza la massiccia catena d’oro che portava al collo.

Victor proseguì la sua conversazione fasulla e attirò soltanto un’occhiata fugace da uno degli uomini di Farkas. Ne arrivarono tre con Farkas, uno quarantenne e gli altri due trentenni, dai fisici non atletici, tutti in completo, ciascuno con una valigetta, uno con due, tutti armati. Dal modo in cui cadevano le giacche, tenevano le pistole in fondine ascellari. Erano rilassati ma vigili. Victor non scorse alcun addestramento speciale, né militare né di altro tipo.

Il tizio che era arrivato prima apparve, rosso in volto e con un’aria desolata. Si affrettò a scendere le scale, tirandosi i capelli dietro le orecchie. Victor capì che stava chiedendo scusa per il ritardo e riferendo che l’attico era pronto per il soggiorno di Farkas. Farkas lo guardò con disprezzo ma non disse nulla.

Victor aspettò un minuto prima di andarsene. Entrò in un negozio in una strada là vicino e vi comprò una serie interamente nuova di abiti, se li mise nel camerino e infilò i vecchi vestiti in una busta. Si sedette fuori di un bar sullo stesso lato della strada del palazzo e ordinò un cappuccino e un panino. Quella posizione gli offriva una visuale più limitata della strada rispetto al bar precedente, ma riusciva comunque a vedere chiaramente il marciapiede subito fuori dall’edificio.

Il pomeriggio era abbastanza soleggiato da giustificare gli occhiali da sole e abbastanza caldo da permettere di poggiare la giacca sullo schienale della sedia. Victor mangiò con tutta calma. Il bar aveva un assortimento di giornali e lui ne prese uno e finse di leggerlo. Sperava di non dover fingere a lungo, visto che l’istinto gli diceva che Farkas non era tipo da starsene chiuso in casa il primo giorno. Sarebbe sceso per fare affari, o più probabilmente per mangiare qualcosa. Presto.

Mentre Victor stava finendo il secondo caffè, la sua attesa terminò. Farkas apparve con tutti e quattro i suoi uomini poco dopo le quindici. Ridevano e scherzavano, pure Farkas, anche se con meno entusiasmo. Erano amichevoli ma non amici, notò Victor. Osservò l’orologio mentre passavano, sentendo quello che era arrivato per primo fare cenno a un ristorante.

Victor aspettò che se ne andassero prima di alzarsi dalla sedia. Usò il mazzo di chiavi duplicate per entrare e salire all’attico. Rimase per un istante in ascolto davanti alla porta, per assicurarsi che non ci fosse nessuno al piano di sotto. Il grimaldello a pistola non era rumoroso, ma neppure silenzioso.

Tirò fuori dallo zaino la pistola, infilò il lungo grimaldello nella serratura dell’attico e premette il grilletto. Subito il grimaldello vibrò rapidamente e in pochi secondi la serratura si aprì. Victor non lo usava da un po’, perché i tensori si potevano nascondere più facilmente, ma non poté negarne l’utilità.

Aprì la porta ed entrò. L’allarme emise il suo lieve bip. Victor si avvicinò al tastierino e digitò uno, cinque, otto, due. Non funzionò, perciò provò con due, cinque, otto, uno. L’allarme si disattivò.

Victor entrò nel salotto e vide che gli ungheresi si erano già ambientati. L’aria puzzava di tabacco. C’erano tre tazze sul pavimento di fianco ai divani e i bagagli sul tavolino da caffè. Victor esaminò l’area in cerca di qualcosa da poter utilizzare a suo vantaggio, ma subito scartò il salotto come punto di attacco; d’altronde, non si era mai aspettato che potesse esserlo.

Era dal suo arrivo a Berlino che rifletteva su come piazzare la bomba. Doveva essere in un punto in cui si sarebbe innescata con certezza, ma dove solo Farkas poteva farlo e, visto che condivideva l’attico con altri quattro uomini, non era stato facile trovare una soluzione.

La detonazione telecomandata andava scartata. La bomba poteva essere collocata in strada davanti all’edificio e fatta esplodere mentre passava. Tuttavia, non c’erano cestini nei punti che Farkas avrebbe sicuramente attraversato.

Il congegno poteva essere collocato sotto un’auto parcheggiata all’esterno, ma prima di tutto sarebbe stato rischioso piazzarla, e poi la macchina avrebbe potuto tranquillamente andarsene prima dell’arrivo di Farkas. E questo senza considerare il rischio quanto mai reale di provocare vittime tra i civili.

La bomba andava messa all’interno dell’appartamento. Poteva essere piazzata sotto il letto di Farkas e il detonatore messo in funzione nel momento in cui si fosse sdraiato sul letto, a condizione che lo si potesse osservare farlo. Quando l’agente immobiliare gli aveva mostrato l’appartamento, Victor aveva guardato fuori da tutte le finestre, per vedere quali edifici si affacciassero sulla camera da letto principale. C’era un punto di osservazione potenziale, ma se le tende della camera fossero state tirate quella posizione sarebbe diventata inutile.

Victor accarezzò l’idea di collocare la bomba sotto il materasso con un sensore di pressione che innescasse l’esplosione nell’attimo in cui Farkas si fosse coricato. Il problema era che il letto era extralarge e Victor non poteva sapere su quale lato Farkas avrebbe dormito. Il sensore andava programmato in modo da azionarsi solo in caso di un peso considerevole, nell’eventualità che venissero posti sul letto bagagli o altri oggetti. C’era la possibilità che la bomba fosse innescata da qualcun altro, se si fosse seduto o sdraiato su quel lato del letto; parimenti, se Farkas avesse deciso di dormire sull’altro lato, la bomba non sarebbe mai esplosa.

Il rumore della chiave nella serratura si udì immediatamente. Victor si girò verso la porta della camera da letto e la chiuse con delicatezza. Ascoltò aprire la porta d’ingresso e qualcuno entrare; un uomo solo, dal rumore dei passi. Uno degli accompagnatori. Se fosse stato Farkas a tornare, lo avrebbero seguito tutti i suoi uomini.

Il tizio si era accorto che l’allarme era stato disattivato? Victor non riusciva a dirlo dai suoi movimenti. Udì l’uomo in salotto, il rumore delle scarpe sulle assi del pavimento che aumentava sempre più, mentre si dirigeva verso le camere. Forse era tornato perché aveva dimenticato qualcosa. O forse era tornato perché Farkas aveva dimenticato qualcosa. Victor scorse il sottile taccuino rilegato in pelle sul comodino. La lista degli appuntamenti, forse.

Si accovacciò per guardare sotto il letto. Trovandolo alto solo pochi centimetri, si rialzò e lanciò un’occhiata all’armadio. Era zeppo di completi e valigie. Non c’era spazio neanche là. Il bagno attiguo era il posto migliore dove nascondersi, a meno che il tizio non avesse deciso di guardarsi allo specchio prima di andarsene. Se fosse successo, Victor avrebbe potuto gestire la cosa in un solo modo e il lavoro sarebbe andato all’aria.

I passi si fecero più forti, più vicini.

L’ungherese con i lunghi capelli neri aprì la porta della camera ed entrò. La stanza era più grande e più bella di quella che l’uomo divideva con due dei suoi colleghi. Aveva anche un profumo migliore. Vide il taccuino nero e lo prese. Se lo infilò nella tasca della giacca per tenerlo al sicuro.

Si voltò per andarsene, ma per un capriccio improvviso aprì la porta del bagno attiguo.

Anche quello era molto più bello del bagno principale che stava diventando in fretta un guazzabuglio di prodotti da toeletta di quattro uomini che competevano per lo spazio. Il gabinetto comune era già sporco, con la tazza cerchiata di pozze di pipì. L’ungherese esaminò i costosi flaconi che Farkas aveva allineato sul lavello e scelse un intrigante tubetto di crema. Lo aprì, lo annusò, ne fece uscire una goccia e se la massaggiò sulle mani. Divennero morbide. Rimise il tubetto esattamente dove lo aveva trovato. Farkas era quasi sempre un bravo capo, ma ci teneva a mantenere la gerarchia.

L’ungherese uscì dal bagno, reinserì l’allarme e se ne andò dall’appartamento. Non ricordava di averlo disattivato, ma non si fermò a pensarci.

Victor udì la porta d’ingresso chiudersi e rimase immobile il più possibile per sessanta secondi precisi, tanto per essere sicuro prima di muoversi. Tirò la tenda da un lato e scese dal davanzale della finestra, dove era rimasto in equilibrio con le gambe contratte, la schiena premuta al vetro, le braccia allungate per sorreggersi. Il davanzale non era molto profondo, ma il tizio non si era accorto che le tende non ricadevano normalmente.

Nell’attimo in cui mise i piedi sul tappeto, l’allarme cominciò a suonare. Victor si affrettò a raggiungere il tastierino e digitò il codice.

Tornato in camera, prese la valigetta dall’armadio, dove l’aveva mescolata ai bagagli di Farkas, la mise sul letto e tirò fuori la bomba. Sicuro della sua decisione, ci mise meno di quattro minuti a piazzare la bomba e uscì dall’edificio subito dopo aver reinserito l’allarme. Per Victor il lavoro si era di fatto concluso.

Adesso tutto dipendeva da Farkas.