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Beirut, Libano
Ariff sospirò mentre lasciava l’appartamento della spagnola, insoddisfatto e frustrato. Il vocabolario arabo della ragazza si stava ampliando e di conseguenza si era fatta sempre più loquace durante le ultime visite. Oggi aveva raggiunto il massimo della seccatura. Ariff le avrebbe dato un’ultima possibilità prima di cercare una nuova creatura da cui trarre piacere. Se solo avesse conosciuto una muta.
L’appartamento era di proprietà di Ariff ed era situato in via Al Hamra, in uno dei quartieri più cosmopoliti di Beirut. Il trafficante di armi egiziano era vissuto in molte città del Medio Oriente, ma aveva un attaccamento particolare nei confronti di Beirut, dovuto allo straordinario senso di intimità delle sue vie alberate e dei tipici quartieri. C’era così tanto cemento in città che in una giornata nuvolosa Beirut appariva cupa e inanimata ma, quando usciva il sole, evento piuttosto frequente, la città si faceva splendente e vivace.
Ariff ignorò i suoi due uomini piazzati come sentinelle in strada e salì sul sedile del passeggero della BMW in attesa. Sul lato del conducente c’era Yamout, sul sedile posteriore altre due guardie del corpo. Sempre attento alla sicurezza, Ariff aveva aumentato notevolmente la sua protezione dal tentato omicidio di Yamout da parte di Kasakov e i successivi attacchi alla rete nelle due settimane seguenti.
Le due sentinelle salirono a bordo della Range Rover parcheggiata davanti alla BMW. Il conducente fece un cenno a Yamout e poi partì. Yamout lo seguì. Ariff chiuse gli occhi. Il tragitto dall’appartamento della spagnola alla sua villa sul Monte Libano era lungo.
«Baraa» disse Yamout.
«Non ho voglia di parlare, amico mio» rispose Ariff. «Aspettiamo di tornare in villa.»
Ariff capì che Yamout non si sarebbe accontentato della risposta, ma il libanese aspettò qualche secondo prima di parlare ancora. «Mi dispiace disturbarti, ma...»
«Se ti dispiace, perché mi disturbi?»
«Ho delle novità.»
Ariff sospirò. «Novità che non possono attendere un’ora?»
Visto che Yamout non rispondeva, Ariff aprì gli occhi. Yamout era immobile, l’aria pensierosa.
«Pensavo ti interessasse saperlo subito» spiegò Yamout. «La spedizione di armi ai sudanesi ha subìto un’imboscata da parte dei ribelli. Il presidente è furioso all’idea che i suoi cinquemila fucili siano finiti nelle mani dei suoi nemici.»
Ariff sospirò e non disse niente.
«Non comprerà più nulla da noi. Mai più. Deve essere stato Kasakov a informare i ribelli. Baraa, non possiamo andare avanti così.»
«Le guerre sono sempre costose.»
«Tutto qua quello che ti viene da dire? Prima Farkas salta in aria e la colpa ricade su di noi, poi danno la caccia a me a Minsk, e adesso perdiamo il cliente più importante di tutta l’Africa. Per non parlare delle persone che sono scomparse, sono state apertamente massacrate o solo fuggite per salvarsi la pelle. Questa guerra, molto presto, ci azzopperà. Dobbiamo cercare la pace con Kasakov.»
Ariff rise. «Se andassimo a chiedere pietà a quel diavolo ucraino, pensi davvero che richiamerebbe i suoi cani? Non essere sciocco. Si accorgerebbe della nostra debolezza e ci schiaccerebbe. E io preferirei infilarmi una pistola in bocca piuttosto che negoziare come una donna.»
«La notizia della nostra guerra con Kasakov si è diffusa come una piaga. Nessuno sarà così folle da trattare con noi e finire nel mirino di quel maniaco. Ogni giorno subiamo i suoi colpi.»
«Resisteremo più a lungo di lui. Noi siamo in superiorità numerica. Abbiamo una lealtà che lui non riesce a eguagliare.»
«E tuttavia, ha una ricchezza con la quale noi non siamo in grado di competere. Con la ricchezza si ottengono superiorità numerica e lealtà.»
«Ma Kasakov marcisce da prigioniero in Russia, mentre il mondo intero vorrebbe vederlo in gattabuia. Io posso raggiungere posti che lui può solo sognare. Posso sussurrare in orecchie che non riuscirebbero a sentire neppure le sue grida più forti. Abbi fede, amico mio. Con il passare del tempo, la sua determinazione si incrinerà. Perciò, noi manteniamo la nostra. Chi si mostrerà più forte ne uscirà vittorioso.»
«A cosa servirà la vittoria, quando saremo rimasti senza clienti? Perfino quelli che possiamo rifornire in sicurezza ci stanno abbandonando.»
«Kasakov sta usando la sua influenza» spiegò Ariff. «C’era da aspettarselo, amico mio. Proverà a indebolirci in tutti i modi.»
«Sta funzionando.»
«Ma non funzionerà per sempre» gli assicurò Ariff. «I nostri clienti non smetteranno di volere armi, anche se Kasakov li corromperà o li minaccerà di non vendere loro armi pesanti. In questo secolo, le guerre si combatteranno con la guerriglia, non con i battaglioni. Kasakov ha da perdere più di noi. I nostri clienti hanno bisogno di fucili e proiettili più di quanto abbiano bisogno di carri armati. Torneranno da noi.» Ariff guardò Yamout. «Sii paziente.»
Procedettero per un po’. Ariff si godette il caldo sole sul volto, ma non riuscì a rilassarsi abbastanza da dormire. Sebbene si mostrasse calmo di fronte a Yamout, il conflitto con Kasakov lo preoccupava molto. Yamout guidava irrigidito, le mani strette sul volante.
Ariff sbadigliò. «Visto che sei stato così bravo a togliermi il sonno, tanto vale che tu mi racconti cosa hanno ottenuto di recente i nostri uomini. Raccontami delle nostre vittorie contro Kasakov.»
«L’aereo che i nostri amici hanno abbattuto in Afghanistan si è rivelato un Antonov An-22. Non sappiamo cosa trasportasse, ma l’aereo in sé valeva molto. Kasakov ne possiede solo tre.»
«Ora due» disse Ariff con una risata. «Vedi, Gabir, Kasakov subisce più di noi. Usa quegli Antonov per trasportare carri armati e altri aerei. A prescindere da che carico fosse, doveva valere decine e decine di milioni. E tu pensi davvero che Kasakov si azzarderà a far viaggiare un altro di quei carichi nei cieli dell’Afghanistan? Io penso di no.»
Solidi edifici di sette piani oscuravano la strada, intasata da un lento traffico a senso unico. Cartelloni dai colori accesi promuovevano negozi allineati lungo i marciapiedi. Un tizio coraggioso con un motorino stava sfidando il sistema, guidando nel senso opposto tra due file di auto, e ricevette un coro di clacson in risposta.
Yamout disse: «Ti ho parlato degli attacchi in Siria e a Tripoli, giusto?» Ariff annuì. «Da allora siamo riusciti a sabotare un accordo e uccidere altri suoi trafficanti. Stavolta in Tunisia. Da ciò che hanno ammesso prima di morire, erano membri importanti dell’organizzazione di Kasakov.»
Ariff sorrise. «Eccellente, Gabir. Davvero eccellente. Quel bastardo ucraino si arrabbierà con sé stesso per aver creduto di potersi mettere contro di noi. A prescindere dal come o dal perché questa guerra è iniziata, non sta vincendo lui, ma noi. Cerca di trovare conforto nei nostri trionfi.»
Yamout annuì, abbastanza convinto dall’invito di Ariff a rilassarsi per il momento. Accese la radio e della musica pop araba uscì dagli altoparlanti della BMW. Yamout picchiettò le dita sul volante. Ariff sorrise tra sé. L’omone non aveva alcun senso del ritmo.
La superstrada li condusse attraverso la città. Il traffico scorreva veloce; ci volevano esperienza e riflessi svelti per stare al passo con il flusso in maniera sicura. Lo spartitraffico centrale era occupato da palme. Più avanti c’era un cartellone gigante che pubblicizzava il McDonald’s, con un’enorme freccia gialla a indicare dove svoltare. Visto che il Libano aveva la cucina più raffinata del mondo, Ariff non riusciva a capire per quale ragione qualcuno potesse optare per un semplice hamburger, ma le pecore seguivano sempre il gregge.
La BMW condusse Ariff attraverso uno dei quartieri più antichi di Beirut e lungo una stretta via su cui si affacciavano imponenti edifici di arenaria. SUV e berline lucenti erano parcheggiate lungo entrambi i marciapiedi. Lo spazio tra le auto consentiva a malapena un sorpasso. Il traffico era bloccato all’incrocio una decina di auto più avanti. Squillavano clacson. La BMW si fermò dietro la Range Rover delle guardie del corpo. Né Ariff né Yamout riuscivano a vedere la causa dell’ingorgo, ma Yamout aggiunse il suo clacson al coro.
I pedoni usavano la pausa nel flusso del traffico per attraversare come razzi la strada. Un anziano minuto si infilò tra la BMW di Ariff e un SUV della Toyota, mentre due donnone coperte dal burka e dal velo scesero dal marciapiede due auto più avanti e avanzarono in strada. Camminarono lentamente, con fare impacciato, e sparirono. Ariff scosse il capo. Anche se gli capitava spesso di assistere a una tale forma di oppressione, sapeva che non vi si sarebbe mai abituato.
«Che razza di religione» disse a Yamout, che annuì.
L’esplosione fu assordante.
Ariff fu scosso ed emise un grido di estrema sorpresa. Yamout era altrettanto sconvolto. Dalla Range Rover delle guardie del corpo davanti a loro salì del fumo. Ariff e Yamout si guardarono, increduli, confusi. Spaventati. Le persone sul marciapiede nei pressi della Range Rover si contorcevano a terra. Una donna gridava.
Si udirono degli spari.
Entrambi gli uomini sussultarono. Si trattava di fuoco automatico, ad alta cadenza di tiro, ravvicinato. Ariff era paralizzato. Non sapeva cosa fare. Intravide bagliori di armi provenire dall’estremità opposta della Range Rover e si rese conto che qualcuno stava sparando ai suoi uomini. Udì il rumore soffocato di pallottole che sbattevano nella carrozzeria blindata della Range Rover. Dalle fiancate schizzavano scintille. Colpi vaganti incrinarono il parabrezza antiproiettile di fronte al volto di Ariff.
Yamout aveva già ingranato la retromarcia quando Ariff gridò: «Fuggiamo da qua!»
Le due guardie del corpo dietro Ariff avevano le Ingram già armate e pronte. La BMW si mosse solo di qualche decina di centimetri prima di scontrarsi con la Toyota alle sue spalle. Yamout premette più volte il clacson, ma il SUV non offrì altro spazio. Il rombo di armi automatiche non cessava. L’interno del finestrino posteriore della Range Rover fu schizzato di sangue.
Ariff spalancò gli occhi. «Yamout...»
Apparve un uomo armato, che avanzava al centro della strada. Indossava un passamontagna. Stringeva con entrambe le mani un fucile d’assalto Armalite con un lanciagranate. Portava un burka nero sulle spalle, come fosse un mantello. Fece cenno in direzione di Yamout con l’arma prima di scaricare una raffica in aria. La gente in strada gridava e correva via. Conducenti e passeggeri fuggirono.
Yamout cercò di svoltare per uscire dal traffico allineato e salire sul marciapiede, ma non c’era spazio. Il paraurti sbatté contro la Range Rover. Alcune pallottole colpirono il parabrezza di fronte alla testa di Yamout, ma non penetrarono. L’uomo gridò un ordine alle due guardie del corpo sul retro della BMW.
La guardia alle spalle di Yamout spalancò la portiera e saltò in strada. L’uomo mascherato aprì subito il fuoco. Le pallottole tintinnarono sul metallo e furono fermate dal vetro antiproiettile.
La guardia fece fuoco con la Ingram dall’apertura tra la portiera e l’auto. La mitragliatrice era piccola e squadrata, all’apparenza semplice, ma aveva una cadenza di tiro di milleduecento colpi al minuto. La guardia, terrorizzata, fece partire una raffica che svuotò il caricatore nel giro di alcuni secondi. Trenta pallottole colpirono la strada, la Range Rover, le auto vicine ma non il killer, che si accovacciò e ricaricò il suo fucile d’assalto.
«Forza, forza» urlò Yamout. «Prendetelo.»
La seconda guardia uscì subito dall’auto. Superò in fretta il finestrino di Ariff e saltò sul cofano della BMW per colpire il killer prima che questi finisse di ricaricare l’arma. Al contrario, fu la guardia a contorcersi e dimenarsi, il corpo crivellato di proiettili che sbatteva sul cofano e ricadeva sul marciapiede. Sul parabrezza della BMW schizzò del sangue.
«Ce n’è un altro!»
Ariff vide un secondo uomo avvolto nel burka sulla fiancata opposta della Range Rover. Si stava inginocchiando sul marciapiede e anche lui era armato di fucile d’assalto. L’unica guardia del corpo rimasta in vita si affrettò a ricaricare la Ingram. Yamout si allungò verso Ariff e aprì il vano portaoggetti. Ne estrasse una pistola.
«Va’ dietro, Baraa!» gridò. «Chiudi la portiera!»
Ariff fece fatica a passare dal suo sedile al retro dell’auto. Il cuore gli batteva forte in petto. Si lasciò cadere sul sedile posteriore e si allungò per afferrare e chiudere la portiera. La guardia del corpo fece partire delle raffiche controllate. In risposta, alcuni spari colpirono la BMW attorno a lui.
Ariff si tenne basso sul sedile posteriore, il respiro affannoso, senza osare sollevare la testa. I colpi gli davano il mal d’orecchie. «Non possiamo rimanere qua» disse Yamout. Era accovacciato sul suo sedile, la pistola in una mano, mentre con l’altra cercava il cellulare.
Ariff non rispose. Non potevano restare, ma non potevano neppure andarsene.
La guardia del corpo fece partire un’altra scarica, poi la Ingram rimase vuota. L’uomo estrasse alla svelta il caricatore usato e ne inserì un altro. Nessuno gli sparò. Ariff non riusciva a vederne la ragione. Forse aveva ucciso entrambi i killer. Per favore, fa’ che sia così.
La guardia del corpo armò la mitragliatrice ma, prima che riuscisse a fare di nuovo fuoco, alle sue spalle apparve un uomo, di colpo e in maniera terrificante. Un altro tiratore mascherato. Piantò un coltello nella gola della guardia e gli tolse la Ingram con un singolo movimento sciolto. Un geyser di sangue schizzò dall’ampio foro nel collo dell’uomo, che cadde a terra rantolando.
Yamout cercò di svoltare, ma dalla bocca della Ingram partirono delle fiamme, che penetrarono nell’auto dal lato del conducente. Yamout si contorse e si dimenò.
La sparatoria cessò e Yamout aveva la testa mollemente protesa in avanti. Aveva le spalle e le braccia ricoperte di ferite insanguinate.
Ariff gridò. Gridò ancora più forte quando una granata attraversò la portiera aperta. La osservò cadere e atterrare sul pavimento dell’auto. Esplose con uno scoppio mostruoso e un lampo di luce accecante. Ariff vide tutto bianco e non riuscì a sentire che un sibilo lacerante. Era troppo disorientato per muoversi e perfino per gridare. Qualcuno lo afferrò per le caviglie e lo trascinò fuori dall’auto. Cadde in strada, sopra la sua guardia del corpo insanguinata e morente.
Altre mani lo afferrarono e lo tirarono su. Non aveva la forza di combattere. Le dita dei piedi sfregarono a terra. Fu l’udito a tornargli per primo. Sentì strillare, ma il rumore era sommesso, attenuato. La vista gli tornò più lentamente, ma un’immagine fissa dell’interno dell’auto, l’ultima cosa che aveva visto prima dell’esplosione, si sovrapponeva a tutto il resto. Riuscì soltanto a scorgere uno dei suoi aggressori avanzare in tutta fretta, sbraitando e spingendo da parte pedoni spaventati. Gli altri due tenevano Ariff in mezzo a loro, reggendolo da sotto le braccia.
Svoltarono a un angolo. Ariff vide un furgone parcheggiato più avanti. Il rapitore in testa aprì le portiere posteriori e Ariff venne spinto all’interno, seguito dagli altri due tiratori.
Gridò aiuto, ma il calcio di un fucile gli sbatté sul volto, rompendogli il naso e facendogli perdere conoscenza.