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Minsk, Bielorussia
Victor uscì dal taxi e si trovò al freddo, al vento e alla pioggia, che subito gli bagnò il soprabito. Osservò un gruppo di tassisti che se ne stavano sotto la pensilina degli autobus, a ridere e scherzare, fumando sigarette. Nessuno nei paraggi era immobile. I pedoni passavano alla svelta, a capo basso, le spalle dritte. Il tempo era troppo brutto perché si uscisse senza una forte necessità. Anche i pedinatori dovevano sentire il bisogno di starsene al caldo e all’asciutto. Se la stazione era sotto controllo, lo sarebbe stata dall’interno, non dall’esterno. A Victor stava benissimo.
La stazione centrale di Minsk era una struttura enorme costruita in stile stalinista, che riusciva a restare imponente e grandiosa malgrado il gelido nubifragio.
Mentre attraversava la strada, Victor vide un paio di poliziotti armati che pattugliavano la piazza. Erano entrambi vigili. Un fatto piuttosto normale. Victor non fece trasparire nulla dal suo volto, né mediante i gesti: sembrava uno dei tanti anonimi uomini d’affari di ritorno a casa.
Provava una certa tensione alla bocca dello stomaco, ma la ignorò. Superò una famiglia di bielorussi che sembravano felici di attendere in una posizione che ostruiva gran parte dell’ingresso principale.
I viaggi aerei erano il modo più veloce per creare distanza, ma anche il più controllato, regolato, ristretto e di gran lunga il migliore per farsi arrestare. L’auto offriva la libertà maggiore ma, sia che Victor ne rubasse una e rischiasse di imbattersi nella vigilanza della polizia, o ne prendesse una a noleggio e aumentasse l’esposizione di uno dei suoi alias, c’erano dei lati negativi. Un treno, sebbene non fosse perfetto, era di solito l’opzione migliore. Poteva pagare in contanti senza essere notato, non c’era bisogno di identificazione e non venivano create tracce cartacee, a eccezione di un biglietto che si poteva distruggere una volta usato.
Da ragazzo amava i treni e aveva trascorso un’infinità di ore a osservarli dalla finestra del suo dormitorio affacciato sulla stazione. All’epoca aveva desiderato guidarli. Invece uccideva persone e adesso la sua passione per i treni si estendeva solo ai loro benefici.
All’interno della stazione l’atrio era rumoroso e affollato di pendolari. Victor scivolò tra loro. Con lo sguardo in parte nascosto dietro un paio di occhiali da banco, osservò le facce di coloro che se ne stavano lungo le pareti o seduti, dove lui stesso si sarebbe messo se avesse dovuto osservare la gente entrare. Stava cercando di scorgere un’azione o un movimento che smascherasse un’operazione di sorveglianza, ma non ne vide traccia. Non si rilassò. Il solo fatto di non aver notato alcun pedinatore, non significava che non ce ne fossero. Se la rete di Petrenko era abbastanza estesa ed erano abbastanza svegli, potevano aver messo in circolazione la descrizione di Victor, o addirittura una sua foto. Le stazioni dei treni e gli aeroporti potevano essere sotto controllo.
Victor girò per l’atrio varie volte. Prese una tazza di caffè, un giornale, sfogliò libri, comportandosi con nonchalance, cercando di ridurre al minimo le linee visuali nella speranza di trarre allo scoperto i pedinatori. I professionisti lavoravano in coppie miste o si camuffavano da dipendenti delle ferrovie. Victor dubitava che la rete di Petrenko fosse così efficiente, ma non aveva dubbi che lo fosse il committente della squadra di sorveglianza. Notò due volte con la coda dell’occhio una giovane donna atletica e vigile, con un passeggino ma senza bambino. Forse il figlio era con il padre o forse non c’era alcun figlio. Superando alcune vetrine, osservò il riflesso della donna per vedere se lo stava osservando, ma lei non guardò mai nella sua direzione.
Victor si diresse al bagno degli uomini e passò cinque minuti ad attendere in un gabinetto, poi ne uscì per scoprire che la donna non si vedeva da nessuna parte. Controllò il tabellone delle partenze, trovò un treno appropriato e si unì alla fila per la biglietteria. Si comportò come qualunque altro bielorusso, non degno di attenzione, ma scorse un uomo basso a osservarlo. Fu solo una volta e forse non significava nulla, ma forse significava tutto. L’uomo aveva una faccia tonda, era calvo, di circa dieci chili in sovrappeso, con indosso la divisa di una compagnia ferroviaria. Victor guardò l’orologio per alcuni secondi e uscì dalla fila. Entrò in una farmacia ed esaminò gli shampoo, poi gettò un’occhiata al tizio pelato. Non c’era più.
«Hrodna» disse Victor in russo quando raggiunse la biglietteria. «Il primo treno disponibile.»
«Ci sono posti disponibili solo in prima classe.»
«Va bene.»
Attese fino a tre minuti prima della partenza del treno, poi raggiunse il binario. Osservò tutti gli uomini e le donne che vi giunsero dopo di lui. Se lo stavano pedinando, sarebbero stati costretti ad aspettare anche loro, per non rischiare di salire sul treno e scoprire che lui non lo aveva fatto. Nessuno indugiava, o quantomeno si mostrava sospetto. Victor attese fino a un minuto prima della partenza e alla fine salì a bordo. Nessuno lo seguì.
Trovò il suo posto in prima classe in un vagone in cima al treno. Era nel corridoio, rivolto in avanti, con un tavolino. Victor si sedette. Di fronte a lui c’era un uomo.
«Accidenti, come odio i treni» disse l’uomo in un inglese dall’accento americano, parlando a voce alta. «Tutta questa attesa. Voglio dire, diamoci una mossa. Capisce cosa intendo, no?»
Victor lo guardò, ma non rispose.
«Walt Fisher» disse l’uomo, porgendogli la mano. «Immagino che lei non sia russo.»
Fisher pareva sulla quarantacinquina, indossava una camicia a righe, sbottonata in cima, la cravatta allentata, la giacca del completo poggiata sul sedile di fianco a lui. Aveva le guance rosse e goccioline di sudore all’attaccatura dei capelli.
«Intende dire bielorusso» fece Victor, decidendo che non valeva la pena fingere di non parlare inglese. Gli strinse la mano. Era calda e umida.
«Va be’. Bielorusso, russo, che differenza fa?»
Victor si strinse nelle spalle.
Fisher annuì. «Esatto.»
«Come fa a sapere che non lo sono?» chiese Victor, sinceramente incuriosito.
«Loro non viaggiano in prima classe.»
«Ah» fece Victor, sorvolando sul fatto che attorno a loro si udissero varie conversazioni in russo.
Fisher si concesse un sorriso compiaciuto. «Lei come si chiama?»
«Peter.»
«È un suddito di Sua maestà... ehm... un britannico, giusto?»
«Lei è molto perspicace» disse Victor, aggiungendo un’enfasi britannica più stereotipata all’accento medioatlantico che stava usando.
«Lo spero. È quasi il novanta per cento del mio lavoro.»
Fisher puzzava di bourbon e, a parte il volume della sua voce, pareva innocuo. A certa gente piaceva semplicemente parlare.
«Sto trattando un grossissimo affare con i comunisti» spiegò, prima di aggiungere: «Si offendono, secondo lei, se li chiamo così?»
«Non più di quanto si offenderebbe un inglese se lo chiama ‘suddito di Sua maestà’.»
L’uomo emise una risata tonante. «Oh, mi scusi per prima. Non volevo offenderla.»
«Si figuri.»
«Io mi occupo di fusioni e acquisizioni» annunciò Fisher. «E lei?»
«Io faccio il consulente.»
«In quale campo?» Fisher fece schioccare le dita prima che Victor potesse rispondere. «No, non me lo dica.» Si morse il labbro e disse, con il dito puntato: «Risorse umane.»
«Non è evidente?»
Fisher batté le mani, soddisfatto, orgoglioso. Alcuni passeggeri si voltarono a guardare, per reazione al rumore improvviso. «Appena è salito a bordo, mi sono detto: quell’uomo si occupa di assunzioni e licenziamenti.»
«Lei non sa quanti ne faccio fuori.»
«Be’, da’ l’idea di essere spietato.»
Victor sollevò un sopracciglio. «Non immagina quanto.»
Tre minuti dopo l’orario di partenza, il treno non era ancora partito. Non era stato fatto alcun annuncio. Victor amava la puntualità, soprattutto quando aveva nemici in città. Si alzò per guardare meglio dal finestrino. Fisher lo osservò. Victor non vedeva niente che potesse spiegare il ritardo. Non c’era niente di cui preoccuparsi, dunque. Forse.
«Ad ogni modo» fece Fisher. «Mentre venivo qua...»
Victor sedette senza parlare, mentre Fisher raccontava il suo tragitto apparentemente spassoso dall’albergo alla stazione. Fisher era ubriaco e loquace e scambiando convenevoli Victor aveva dato al suo nuovo amico la licenza di parlare per tutto il viaggio. In un altro momento a Victor sarebbe forse piaciuto recitare il ruolo di Peter, il consulente delle risorse umane, per passare il tempo, ma Fisher era troppo ebbro per controllare il volume della voce, e stava attirando troppa attenzione. Quella attenzione era naturalmente concentrata su Fisher, ma i passeggeri avrebbero potuto ricordare a chi si rivolgeva.
Passati altri quattro minuti senza che il treno partisse, altri passeggeri cominciarono a seccarsi. Molte teste si voltavano a guardare fuori dai finestrini e borbottare infastidite. Una assistente di viaggio con un carrello stava attraversando il corridoio per offrire da bere. Quando raggiunse Victor, lui le chiese un’acqua minerale. Fisher ordinò un bourbon.
«Naturale o gassata?» chiese la donna a Victor.
«Gassata, grazie.»
L’assistente passò in rassegna le bottiglie sul carrello per un istante prima di rivolgersi a Victor. Era accigliata.
«Mi scusi, signore, a quanto pare oggi ho solo acqua naturale.» Sembrava sinceramente dispiaciuta.
«Non si preoccupi, va bene lo stesso.»
«Ne è sicuro? Posso andare a cercarla.»
«Meglio di no» fece Victor. «Se prima non servirà dell’alcol a queste persone, non ce la farà a tornare viva.»
La donna sorrise mentre serviva il bourbon a Fisher. Il sorriso era invitante, le labbra di un rosa luccicante. «Penso che sfiderò la sorte. Torno subito.»
Non appena l’assistente fu lontana, Fisher sbatté il palmo sul tavolo. Le persone lo guardarono di nuovo. «Perbacco, caro mio. Ha fatto colpo.»
Victor rimase in silenzio.
La donna gli portò l’acqua gassata e la mise sul tavolino con un bicchiere di plastica con ghiaccio.
«La ringrazio tanto» fece Victor, sorridendole. «Lei è un angelo.»
Lei sorrise ancora. Forse Fisher aveva ragione, Victor aveva fatto colpo. «Sul serio» disse. «È un piacere.»
Il tono della donna gli disse che aveva fatto breccia nelle sue difese professionali. Non era stato difficile. I passeggeri della prima classe erano raramente inclini anche solo a rivolgerle lo sguardo. Una persona che si dimostrava educata, offriva encomi e la faceva sorridere diventava probabilmente un confidente istantaneo.
«Può dirmi a cosa è dovuto il ritardo?» chiese Victor.
La donna si accigliò, poi guardò in tutta fretta da una parte e dall’altra e si avvicinò a Victor.
«Non avrei il permesso di dirlo» confessò. «Ma stiamo trattenendo il treno.»
«Per quale ragione?»
«La compagnia non ce l’ha detto.» Si avvicinò ancora e Victor sentì il suo respiro sulla guancia. «Ma se me lo chiede, c’è una persona a bordo che non dovrebbe esserci, non so se mi sono spiegata. Penso che stiano chiamando qualcuno, mentre parliamo.»
Victor non ebbe bisogno di fingere di essere preoccupato. Attese che la donna servisse qualcun altro prima di alzarsi. Attraversò il corridoio, entrò nel vestibolo e poi in una toilette. Aspettò dieci secondi e tirò lo sciacquone, usando il rumore per nascondere quello del vetro rotto mentre mandava in frantumi lo specchio sopra il lavandino con una gomitata.
Dal lavello selezionò un pezzo di vetro lungo circa quindici centimetri, più o meno triangolare, con i lati lunghi e la base corta. Lo infilò, con la punta rivolta di lato, tra la giacca del completo e la manica della camicia sul braccio sinistro. Piegò il polsino della camicia all’indietro per tenerlo fermo e agitò il braccio per assicurarsi che restasse in posizione.
Emerse dal bagno e raggiunse l’uscita più vicina. La porta era già aperta. Dal binario giungeva aria fredda. Sull’altro lato, a quasi due metri di distanza, c’erano tre uomini. Il primo era alto e magro, con un volto ossuto e con indosso un completo e un soprabito. Gli altri due erano più bassi, con pantaloni scuri e giacche sportive, il primo con una barba irregolare, il secondo con un paio di occhiali senza montatura. Non erano poliziotti, e sembravano diversi sia dagli uomini di Petrenko che da quelli della squadra di sorveglianza. Esitarono, sorpresi di vederlo, incerti sul da farsi. Non erano poi così esperti, dunque.
Victor scese dal treno e andò dritto verso di loro.
I tre si fermarono, confusi da quel gesto, nervosi per via dell’improvviso cambio di gerarchia tra predatori e preda. Quello con gli occhiali strinse la mano sulla pistola che teneva alla cintura. «Cosa pensi di fare?» chiese Victor mentre si avvicinava. «Vuoi spararmi qua, davanti a trenta testimoni?»
L’uomo lo guardò in cagnesco da dietro gli occhiali. Non rispose, ma ritrasse un poco la mano dalla pistola.
Victor si fermò a un metro di distanza. «Vi va se ne parliamo da qualche altra parte?»
I due uomini più bassi gettarono subito un’occhiata a quello più alto, ma lui non li guardò, non li vide. Fissava Victor dritto negli occhi, senza battere ciglio. Il suo volto ossuto era inespressivo, ma Victor percepì le sue riflessioni, il calcolo dei pro nel portare Victor in un luogo più privato, opposti ai molti contro dello sparargli davanti a un treno pieno di testimoni.
«Cerchiamo di comportarci da persone civili» aggiunse Victor.
«Sì» rispose l’uomo con un sorriso accennato. «Comportiamoci da persone civili.»