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Pioveva da tutta la settimana. Victor era nel sottobosco che copriva l’affioramento. Con quella visuale limitata sul retro della dacia, non aveva visto arrivare il trafficante di armi, ma si era accorto delle guardie del corpo che pattugliavano la proprietà. Poco dopo, Victor scorse l’ucraino mentre passava dietro una delle finestre visibili al secondo piano, ma non vi indugiò a sufficienza da permettergli di abbassare il cannocchiale e sparare con precisione. Victor non sperava certo di portare a termine il lavoro con uno sparo del genere, ma era per quello che aveva potato gli alberi che schermavano la casa.
Kasakov era accompagnato da una bellissima donna, che in base al dossier era sua moglie, Izolda. Era alta e magra, con il portamento sicuro di una modella. Non c’erano altri ospiti. Victor contò cinque guardie in totale, come gli avevano detto. Dormivano a turno nella casa degli ospiti, perciò ce ne erano sempre tre sveglie e allerta. Come nel caso di Minsk, non erano particolarmente grosse, ma chi conduceva operazioni speciali e spionaggio di solito non lo era. Avevano tutti l’andatura e i modi di operatori seri, e il dossier dichiarava che Kasakov aveva la propensione ad assoldare ex soldati della Spetsnaz, i corpi speciali sovietici. L’ultimo scontro che Victor aveva avuto con la Spetsnaz era stato indimenticabile.
Il sicario si trovava in una secca tra due alberi sull’affioramento. Con il cannocchiale, osservava di continuo il retro della dacia. I rami che aveva rimosso creavano un piccolo corridoio nel fogliame degli alberi altrimenti folto. La linea visuale non era ideale, ma Victor riusciva a vedere l’ingresso sul retro e un pezzetto di terreno davanti alla porta. Una visuale limitata, ma sufficiente a piantare una pallottola in corpo a Kasakov, se questi avesse usato quell’accesso.
Victor aveva preparato il terreno togliendo sassi e rami dal punto in cui si sarebbe sdraiato e livellando il suolo. Sapeva che forse sarebbe rimasto nello stesso punto per vari giorni e ogni zolla e protuberanza fastidiosa il primo giorno sarebbe diventata una sofferenza al quinto. Qualsiasi distrazione rischiava di fargli sprecare un tiro, e lui voleva premere il grilletto una sola volta e andarsene.
Sopra di lui cinguettavano gli uccelli. Ormai si erano abituati alla sua presenza, e non si spaventavano neppure quando lui era costretto a muoversi. Un telo impermeabile teso tra i due alberi creava un riparo di fortuna. Copriva Victor solo in parte, visto dove doveva giacere, ma teneva lontana un po’ di pioggia e gli consentiva di mantenere all’asciutto armi e attrezzatura.
Il fucile fornito dalla CIA che Victor aveva intenzione di usare per uccidere Kasakov era un Dakota Longbow T-76, adatto a proiettili Lapua Magnum calibro 338. Victor voleva essere in grado di uccidere Kasakov da una distanza che fosse la maggiore possibile e, a meno che non si usasse un grosso calibro 50, un 338 offriva la gittata e la potenza migliori. Il Lapua Magnum calibro 338 era progettato per penetrare cinque strati di giubbotto antiproiettile militare da una distanza di mille metri e conservare una potenza sufficiente a uccidere. Victor sapeva per dolorosa esperienza quanto fosse efficace contro un vetro in teoria antiproiettile.
Oltre a generare un’energia cinetica di più di duemiladuecento chilogrammi, il Longbow era estremamente preciso. I produttori garantivano persino cinque minuti d’arco a una distanza di millecinquecento metri. Era un’affermazione notevole, ma Victor avrebbe sparato da una distanza pari alla metà. Se avesse fatto la sua parte, il Longbow sarebbe andato a segno.
Non voleva usare il silenziatore, per assicurarsi precisione e successo, ma una pallottola calibro 338 faceva molto rumore. La porta sul retro era lontana seicentocinquanta metri, perciò il rumore dello sparo avrebbe raggiunto la dacia dopo poco meno di due secondi dall’uscita del proiettile dalla canna. Potenzialmente, Victor avrebbe potuto sparare altri due colpi prima che il rumore raggiungesse la zona, ma lui preferiva fare le cose bene al primo colpo.
Il Longbow aveva una finitura nera satinata che Victor aveva tinto di verde e marrone. Indossava gli stessi abiti di Gore-Tex verdi che aveva messo per la ricognizione dei terreni della dacia. Non li aveva lavati e neppure lui si era lavato. Non voleva che il profumo di sapone e shampoo allertasse gli animali selvatici e lo tradisse, se le guardie di Kasakov fossero state diligenti e avessero pattugliato i terreni della villa.
Uno zaino là vicino conteneva razioni e altre attrezzature. Nelle tasche dell’imbracatura Victor aveva caricatori pieni, una torcia, fiammiferi resistenti all’acqua, un cannocchiale, una bussola, un lettore GPS e un coltello da combattimento.
Aveva una bottiglia e buste di plastica che fungevano da gabinetto. Non c’era modo di sapere quando Kasakov sarebbe apparso nella zona limitata messa sotto tiro da Victor e lui non poteva permettersi di muoversi, nell’eventualità che il richiamo della natura avesse coinciso con quel momento.
Se le cose fossero andate storte, nell’uccisione o nella fuga, Victor aveva a disposizione altre due armi. Alla coscia destra aveva una fondina tattica che conteneva una Heckler & Koch MK23. Vicino allo zaino c’era un MP7A1 con un caricatore da quaranta colpi. La MK23 era una buona pistola, progettata per soddisfare i bisogni delle forze speciali americane. Sparava proiettili ACP calibro 45 e aveva una capacità di dodici colpi. Come arma era molto precisa, considerata da competizione, e consentiva di piazzare proiettili a soli cinque centimetri tra loro da una distanza di quarantacinque metri. Inoltre, i proiettili ACP calibro 45 colpivano con un potere d’arresto notevole, ma erano naturalmente subsonici e quasi silenziosi se sparati da un silenziatore.
L’MP7, anch’esso prodotto dalla Heckler & Koch, era una via di mezzo tra un mitra e un fucile d’assalto, ed era considerato un’arma di difesa personale. Secondo Victor, tale designazione era impropria. L’MP7 era essenzialmente un’arma di offesa. Pesante solo 1,9 chili, e lungo appena più di cinquantotto centimetri con il calcio abbassato, era efficace anche oltre i quattrocento metri. Alloggiava pallottole ad alta velocità di 4,6x30 mm, che abbandonavano il piombo e l’ottone in favore di un penetratore in acciaio indurito, più adatto per bersagli con giubbotti antiproiettile rispetto alle tradizionali munizioni con calibro da pistola usate in mitra normali.
A Bucarest gli uomini di Kasakov avevano indossato giubbotti antiproiettile e se Victor avesse dovuto lottare con loro non voleva che i suoi proiettili vi restassero impigliati. Usare un silenziatore sarebbe stato inutile con le munizioni ad alta velocità e usare pallottole subsoniche avrebbe in primo luogo neutralizzato i benefici dell’utilizzo di un MP7.
Per il momento, Kasakov non era uscito dalla porta sul retro, e non c’era da stupirsene, visto che aveva piovuto di continuo dall’arrivo dell’ucraino. Restare in attesa per ore e ore era noioso, ma Victor non perse la concentrazione. Data la linea visuale limitata, doveva restare costantemente vigile. Un attimo dopo aver abbattuto Kasakov, sarebbe fuggito tra gli alberi verso nordest, camminando per tre chilometri attorno al fianco della collina, fino al punto in cui aveva nascosto il veicolo, sotto una rete coperta di foglie, rami e terra.
La sua dieta consisteva in noci, cioccolata e integratori. Voleva il massimo delle calorie e delle proteine con il minimo di cibo, per limitare il tempo trascorso con le buste di plastica. Aveva portato dietro una bottiglia d’acqua da quattro litri e mezzo, dotata di un imbuto che raccoglieva l’acqua piovana man mano che lui beveva. Se non fosse piovuto abbastanza da tenerlo idratato, avrebbe mischiato pasticche purificatrici all’urina.
Fletteva i muscoli con regolarità e aggiustava la posizione prona ogni ora per evitare di irrigidirsi e per alleviare gli inevitabili dolori. Dato che Kasakov aveva meno probabilità di uscire dalla porta posteriore durante la notte, era allora che Victor dormiva. Aveva un piccolo guanciale ad aria su cui poggiare la testa, ma non un sacco a pelo o una tenda. Quegli oggetti erano perfetti per tenersi al caldo e all’asciutto, ma non facilitavano una rapida reazione, se si veniva sorpresi. Dormiva alcune ore per volta, sempre svegliato da un rumore o da un crampo.
Non gli risultava che gli uomini di Kasakov stessero pattugliando i boschi fuori dalle mura della dacia, ma la foresta era ampia e i membri della Spetsnaz sapevano come mantenere un basso profilo. Victor non si aspettava di vederli, a meno che non si fossero trovati a distanza ravvicinata. Teneva l’MP7 a portata di mano proprio in vista di una tale eventualità.
Quella mattina non aveva piovuto e l’aria era asciutta e relativamente calda. Le previsioni meteorologiche che Victor aveva letto prima di iniziare l’attesa davano tempo bello e temperature alte e, da ciò che vedeva del cielo al di sopra del fogliame, sembrava azzurro e terso. Se le previsioni erano giuste, sarebbe stato abbastanza caldo da permettere una nuotata in piscina. Anche se il nuoto fosse piaciuto solo a Izolda, il marito sarebbe quantomeno uscito per accompagnarla.
Victor preferiva non uccidere i bersagli di fronte ai loro cari, ma forse stavolta sarebbe stato inevitabile. Doveva cogliere la prima occasione che gli si presentava. Perché poteva non essercene una seconda.
Si infilò in bocca alcune noci e aspettò.
Nei paraggi, un uomo osservava. Era americano. Indossava una tenuta militare della Universal Camouflage Pattern, scarponi da giungla e un passamontagna. Sopra la giacca, portava un poncho con cappuccio che fungeva da tuta per cecchini. Cucita e incollata al poncho c’era una rete sottile di nylon. Attaccate alla rete, c’erano falde di iuta di quindici centimetri di varie gradazioni di verde e marrone. Lungo le falde erano distribuiti ramoscelli e foglie, fissati con fango secco. L’uomo aveva il volto e le mani coperti da uno spesso strato di crema da camuffamento.
Quattro giorni prima aveva scoperto un lieve sentiero di detriti schiacciati nei terreni della dacia e sapeva esattamente chi lo aveva creato. Quel percorso lo aveva portato al nascondiglio che adesso sorvegliava.
Il bersaglio, sebbene ignorasse di essere osservato, era vigile e abile. Malgrado l’aiuto della tuta da cecchini, che spezzava la figura dell’americano in tre dimensioni e lo rendeva praticamente invisibile, l’uomo si teneva basso nel sottobosco e non rischiava di avvicinarsi.
L’americano era armato di un Heckler & Koch MP5SD-N1 camuffato con tinta verde e marrone e con foglie e rami stampigliati sopra per spezzare le linee dell’arma. La variante N1 del mitra era dotata di un calcio in metallo retrattile, un gruppo di fuoco con raffica a tre colpi e un silenziatore integrato in acciaio inossidabile prodotto dalla Knight Armament Company. Silenziosa come nessun’altra arma, era perfetta per uno scontro ravvicinato. Premendo una singola volta il grilletto si potevano piantare tre Parabellum da 9mm nel bersaglio e, sebbene il potere d’arresto di un colpo da 9mm fosse ridotto in maniera significativa in caso di velocità subsoniche, ciò veniva più che compensato dal sovrapporsi delle onde d’urto sugli organi interni di tre pallottole che colpiscono il bersaglio in contemporanea.
«Qui parla Cowboy Daddy» disse una voce stridula nell’auricolare. «Cowboy Gamma, forniscimi un rapporto sulla situazione. Passo.»
Un’altra voce rispose: «Cowboy Gamma. Sono dieci metri a sudest della casa degli ospiti. Non c’è ancora traccia del signore e della signora VIP. Un gorilla sta pattugliando la zona attorno alla piscina. Passo.»
«Ricevuto, Cowboy Gamma» rispose la voce stridula. «Fammi sapere quando metti gli occhi sul signore e la signora VIP. Qual è lo status del bersaglio, Cowboy Bravo? Passo.»
«Cowboy Bravo. Il bersaglio è sveglio e sta facendo colazione. Non ha idea della fine che lo attende. Passo.»