13 giugno 1966
Gli ha telefonato Faliero. È finita. È a casa. In camera sua.
Quando arriva, la porta è aperta. Lui ha già la barba lunga. Ci aggiunge gli occhiali scuri. Può evitare tutti, con un po’ di fortuna. Sì, ce l’ha. Nell’androne non ci sono fratelli, sorelle, parenti, tutti raccolti in salotto o in cucina, ma solo amici che non lo conoscono, che non l’hanno mai visto e se l’hanno visto, non si ricordano più di lui.
Adesso viene il difficile. Salire le scale di una casa in cui non è mai stato. Se incrocia qualcuno, sarà impossibile defilarsi.
Ma no, non incontra nessuno.
Supera la biblioteca, è in corridoio, ci sono sette porte bianche, tutte sulla sinistra. Quella in mezzo è socchiusa. Si avvicina. Prova a spiare dalla fessura, intuisce solo vuoto e penombra. Apre piano.
Lo vede. Là, sul letto. Gli occhi chiusi, le mani giunte.
Entra. Si siede accanto a lui.
Ha il viso scavato, le labbra viola, e il capo non è disteso dritto sul cuscino, è leggermente inclinato.
Non è stato semplice, non è mai semplice, hai sofferto, vero? Hai tanto sofferto.
Non ho niente da metterti sopra per il viaggio, per il tuo lungo viaggio, ma anche se l’avessi sarebbe una cosa assurda, fa caldo, è estate ormai.
Sente un rumore da fuori, forse dei passi che s’avvicinano, e istintivamente si alza, E perché dovrei scappare, da cosa, da chi, sorride, questo è il mio posto, ho il diritto di stare qui, abbiamo il diritto di stare qui, quanto ci pare, giusto?
I passi svaniscono. Si gira. Li vede. Raccolti nella parete opposta. La sedia, lo specchio, il grammofono. E gli sembrano dei giocattoli, sì, gli sembrano i pupazzi diletti, i bambolotti fedeli che fissano il loro padroncino, il loro bambino che muore. Sono stati lì, sempre lì, al posto mio. Mari, gli dice, Mari, Mari, Mari, ed è un peccato che Marino non lo possa sentire, perché altri nella sua vita l’hanno chiamato così dopo di lui, ma nessuno con quella voce, no, nessuno capace di toccargli qualcosa dentro, lascia andare il capo sul petto del corpo smarrito e si aggrappa con le mani ai suoi fianchi, Mari, dice di nuovo, come se volesse svegliarlo, e in quel nome ritrova tutti i mari della sua vita, quello che ha attraversato insieme a lui, quello che ha sognato tra i boschi di Sassari, quello che poteva solo sentire dalla cella di Gaeta, e poi lo guarda di nuovo, gli fa una carezza, gli dà un bacio sulla fronte ed esce.
Torna all’inizio delle scale, ma gli manca il respiro, la testa gli gira. Allora si siede. Sul primo gradino. Ti ho sempre aspettato così. Sui gradini, da qualche parte.
Sul muro, appena giù, vede il riflesso d’un ombra che avanza. Si alza. Le va incontro. Letizia si ferma sul mezzanino. Non se l’aspetta, come può, troppo impegnata a piangere e a organizzare il pianto degli altri. Non lo riconosce, come può, l’ha visto una volta sola, da lontano, vent’anni prima. Sì, ora, all’improvviso, sì.
Almo, sussurra.
Lui la abbraccia, le cade addosso, le morde il maglione pur di soffocare i singhiozzi.
Adesso so che cos’è il silenzio.
Le ultime parole.
Corre giù.
Lei non lo rivedrà mai più.