In un bosco piantato nel tempo

28 novembre 1922

“E quella lì sarebbe una camicia nera?” gli chiede Marino scuotendo la testa.

“Sì, perché?” ribatte Almo che un po’ se l’aspettava.

“Io porto una camicia nera. Tu invece hai addosso una cosa grigia che non è neanche una camicia.”

“Oh, senti, Mari, questa ho trovato. Ma tu la tua dove l’hai presa?” lo insegue mentre l’altro ha già imboccato il sentiero.

“Dall’armadio di papà,” taglia corto.

“Balle. Papà non ha mai avuto una camicia come quella.”

“Ce l’ho e basta.”

“Chi te l’ha data?”

“Soldato, silenzio e risparmia il fiato!” gli ordina Marino, battendo i talloni a terra.

“Sissignore!” obbedisce Almo, subito sull’attenti.

“Oh, l’hai portata?”

“Certo che sì,” si tocca fieramente all’altezza del fianco sinistro dove è infilato un cencio di carta arrotolato.

Si fermano davanti all’inizio del bosco, segnato dalla fila irregolare di quattro gelsi.

“Siamo qui, a distanza di trenta giorni, per onorare l’eroica impresa che ha cambiato le sorti della Patria.” Marino si gira come per ammirare dietro di sé un esercito pronto a scattare al suo comando. Ma c’è solo Almo che più guarda il fitto oscuro e più si sente le gambe tremare.

“Oh, Mari,” dice sottovoce come se qualche commilitone potesse ascoltarlo, “io ho un po’ paura.”

“Marceremo su Roma un’altra volta! Vittoria!” Marino non gli bada, solleva un bastone, lo stende sul braccio destro schiacciandolo sotto il mento come una baionetta, e corre in avanti.

“Sì, vittoria! Vittoria,” gli fa eco il fratellino che chiude gli occhi e sia quel che sia.

“Stop, soldato.” Marino si ferma bruscamente. “Noi non siamo a Roma; siamo ancora a Napoli. Fuori dal Teatro San Carlo dove Benito Mussolini ha appena terminato il suo discorso. Adesso dobbiamo assolutamente unirci ai fasci d’assalto alla capitale. Non c’è più tempo, maledizione.” Si volge e vede, sul campo di destra, il relitto di un rimorchio.

“Ecco!” urla e s’illumina. “Requisiamo quel treno!”

“All’arrembaggio!” grida Almo felice d’aver rimandato l’entrata nel bosco.

“All’arrembaggio lo dicono i pirati mica le camicie nere, coglione!” esce per un attimo dal gioco Marino.

“Ah, scusa. All’attacco!”

“Sì, all’attacco!”

Salgono sulla piattaforma sbilenca e Marino comincia a bastonare come un forsennato il rimorchio. Almo, allora, prende da terra una frasca di robinia e improvvisa una sciabola.

“Prendi questo! E anche questo, Facta dei miei coglioni!” tuona il più grande.

“Ti facciamo il culo, presidente Facta, prendi questo e anche questo!” gli fa eco il piccolo.

“Non lo chiamare presidente, non è mai stato il nostro presidente quel verme baciapile.”

“Giusto,” si corregge Almo, “Facta, baciami il...”

Si ferma all’improvviso.

“Be’, che c’è?”

“Scusa, Mari, ma se dobbiamo arrivare quanto prima a Roma, perché stiamo distruggendo il treno?”

Marino ripone il bastone e si chiude in un silenzio imbarazzato. Poi, il raggio verde di un crepuscolo fin lì ottenebrato dalle nuvole, gli viene in soccorso: tocca le fronde degli alberi come un riflettore dorato, dipingendo tutt’intorno, una corona di luce.

“Siamo arrivati!” dice Marino solenne. “Il centro della Città Eterna; il centro della nostra Giovinezza, della nostra Rivoluzione Eterna: il Colosseo.” Rimane lì fermo, in estasi.

“Oh, Mari,” gli dice l’altro concentrandosi sulla cartina geografica che ha appena aperto, “deve esserci un errore; qui, al centro, è segnata un’altra cosa: il Cinema Odeon.”

“Soldato, basta. Son due giorni che siamo accampati. Le camicie nere son stanche di aspettare; siamo stanchi degli alberghi di periferia e delle tette latine di Tivoli. L’azione, l’azione! Senza l’azione non siamo niente! È il 30 ottobre. È ora di perforare la viziosa capitale per restituirle la virtù e l’antico splendore.”

La notte è appena scesa e quel passaggio di ombre è sufficiente per dare il senso del trascorrere del tempo.

“Allora, quale comandante in capo della Prima Colonna d’assalto, io Giuseppe Bottai ti ordino di illustrare all’esercito il piano d’azione che ci porterà alla Gloria! Ti ascoltiamo, soldato.”

“Un attimo, non riesco a veder niente,” bofonchia Almo con la cartina più grande di lui tra le mani.

Oltre la radura, sente gli uccelli nei nidi che emettono un fischio inquieto e il guizzo picchiettato, tra le sterpaglie e i cespugli, di creature sinistre e invisibili.

“Ma se rimandiamo a domani? Ancora un po’ di tette latine?” dice il ragazzino con il cuore in gola.

“Soldato!” urla irritato Marino.

“Oh, mi son stufato di essere solo un soldato!” reagisce Almo. “Voglio passare di grado anch’io!”

“D’accordo,” lo accontenta Marino. “Non appena saremo entrati in città, tu sarai Ulisse Igliori, comandante della Seconda Colonna d’assalto.”

“E dovremmo dividerci?”

“Si capisce.”

“Soldato. Rimango, soldato. Allora, comandante...” torna a concentrarsi sulla cartina. “Per prima cosa dobbiamo dirigerci verso piazza Vittorio Emanuele.”

“Vittorio Emanuele? Guarda, soldato, che è piazza del Plebiscito.”

“No, comandante. Sta scritto qui: Vittorio Emanuele. Quindi potremmo, se ti va, tagliare il Po e arrivare...”

“Soldato!” si stizzisce Marino. “Leggi bene! Il Tevere, non il Po.”

“Io leggo benissimo. E qui dice Po.”

“Costeggiare il fiume; un’ottima idea,” non lo ascolta Marino, che con il bastone indica uno stagno che gorgoglia sulla sinistra. “Quel codardo di Facta ha fatto disporre i cavalli di Frisia al centro e i cannoni su Monte Mario.”

“Monte Mario? E dove sta?” gli occhi di Almo impazziscono nel labirinto della carta geografica.

“Soldato, telegrafa immediatamente al mio superiore Italo Balbo; scrivigli che passeremo il Tevere, addomesticheremo i bolscevichi del quartiere San Lorenzo e ci uniremo alle sue squadre davanti al Pantheon.”

“Basta Colosseo?”

“Al Pantheon, ho detto!”

“Eccolo! Trovato!” s’illumina per un attimo il ragazzino che punta l’indice sulla carta. Subito s’incupisce. “No, ho sbagliato. Questo è ancora il Cinema Odeon. Vabbe’, dai, Mari; Pantheon, Odeon, all’incirca...”

“All’incirca un cazzo!” Marino, stanco di quelle continue interruzioni che non consentono l’immersione totale nel gioco, perde la pazienza. “Dammi qua,” gli strappa la cartina dalle mani. “Ma cos’è questa? Hai preso quella di Rovigo, non di Roma.”

“E io che ne so?” arrossisce Almo. “Vacci tu a rubare nei cassetti di papà. Ho visto che sopra stava scritto RO e così...”

Sentono uno schianto sferragliante e, volgendosi verso il sentiero, scorgono un girotondo di sagome che minacciano e imprecano; al centro, si agita l’ombra impaurita di un altro uomo con le mani raccolte a proteggersi la faccia.

“La prossima volta nel fosso ci finisci tu e non la bicicletta!” la voce, alle orecchie di Almo, suona subito familiare.

“Mari, che succede? Che stanno facendo quelli?”

“Stai giù; non muoverti, resta vicino a me,” gli risponde sottovoce Marino che trascina il fratello dietro al fusto del gelso.

“Guardami in faccia, vigliacco!” grida la voce a cui Almo non riesce ancora a dare un volto.

“Hai sentito che t’ha detto? O con te bisogna solo parlare latino e greco?” dice un altro. E subito si sente lo schiocco sordo di un ceffone.

L’uomo al centro del branco adesso ha il volto scoperto, ma tiene la testa china.

“Non voglio guardarvi in faccia,” sibila senza apparente emozione.

“Ti facciamo così schifo?”

“...”

“Rispondi: ti facciamo così schifo?” ripete l’altro e gli sferra un secondo manrovescio che lo fa barcollare.

“No!” risponde con la voce rotta da un pianto più di umiliazione che di dolore. “È che se vi guardo in faccia e vi riconosco, voi poi m’ammazzate.”

“Mari!” Almo scatta in piedi. “È il papà! Stanno facendo del male al papà!”

Marino gli risponde afferrandolo violentemente per il polso e rimettendolo seduto.

“Bravo, professore; questo ti fa onore. Almeno in quella testa merdosa di socialista hai capito che con noi non si scherza,” sghignazza la voce che adesso Almo riconosce. “Ci sono altre due cose che devi tenere bene a mente. Primo: ai nostri ragazzi insegni a scrivere, a contare e a recitare le poesie. Ma non gli devi mai più parlare di politica. Secondo: avverti quel maiale del principe Giovannini, a cui amministri i beni e anche la moglie, che deve trattare solo con noi. Chiaro? Solo con noi!”

Non gli consentono nemmeno di rispondere che lo buttano per terra. Sono pronti a giocare a pallone con la sua faccia.

“Lasciatelo stare.”

Nessuno, nemmeno Almo che è ancora dietro l’albero con gli occhi chiusi e che non l’ha proprio sentito muoversi, si è accorto di lui. Di lui che li ha raggiunti e che li sfida dal bordo opposto del sentiero.

“E quello chi è?” chiede il più alto ai suoi.

“Uno con un bastone in mano,” gli risponde Marino.

“Fermi,” il capobranco fa un cenno con la mano ai suoi uomini che stanno già avanzando, “è solo un ragazzo.”

È vero, è solo un ragazzo. Di quindici anni. Eppure c’è qualcosa in quella voce secca che non tradisce né paura né agitazione, c’è qualcosa in quei pantaloni corti e in quel corpo basso dalle spalle larghe che ha suscitato nelle squadraccia un sottile turbamento. Forse, la sensazione di aver di fronte qualcuno che magari non oggi, ma molto presto, potrebbe decidere della loro vita.

“Andate via e non toccate più mio padre,” dice ancora Marino.

Il capo lo guarda in silenzio. Fa tre passi, gli è davanti.

Qualche ora più tardi nel loro covo, che è il retrobottega del barbiere Tita Salmaso, dirà agli altri che non gli ha fatto del male perché “il Fascismo sta sempre dalla parte dei giovani e non fa ricadere le colpe dei padri sui figli, a maggior ragione se i figli sono dei nostri”. In verità, quegli occhi così vicini e immobili, quell’assenza di respiro, quel qualcosa che proprio non riesce a spiegarsi, gli hanno messo paura.

“Bella camicia,” sorride e distoglie lo sguardo da Marino. Gira i tacchi e se ne va, seguito da tutti gli altri.

“Ehi, Almetto!” alza la voce quando vede il ragazzino che affiora timidamente dal suo nascondiglio. “Fai il bravo, eh? Segui tuo fratello e non tuo padre.”

Augusto Calore gli strizza l’occhio e scompare nella notte.

“Ce la fai?” Marino si china verso il padre, ancora a terra.

“Sì, non c’è bisogno che tu...” prova a rimettersi in piedi, ma ha il fiato corto e un dolore tremendo al costato.

“Aspetta, papà, ti aiuto...”

“Non mi toccare!” urla il padre con uno squasso isterico che subito lo fa tossire. “Non voglio che mi tocchi.”

Si rialza a fatica. Guarda suo figlio. Guarda il primogenito dei suoi otto figli. Otto come i voti che tutti i suoi discendenti dovranno avere in ogni materia sulle pagelle in secula seculorum. Guarda Marino. E vede solo una camicia nera.

“Vieni, Almo,” dice l’uomo malconcio al ragazzino con il viso pallido, rigato di lacrime, “andiamo a casa.”

Lo lasciano lì. E allora Marino sale di nuovo sul rimorchio abbandonato e ricomincia a picchiarlo con una ferocia che gli spella le mani. Ma non sa più per chi siano quelle bastonate. Se per Facta, per gli operai di San Lorenzo, per Augusto Calore e i suoi uomini. O per un padre che pensava d’aver salvato e che invece ha perduto.