Marmaglia orfana

Molla la bicicletta sul ghiaino del parco, a un metro dalla villa.

Il ragazzo con la cicatrice, invece, gli è rimasto dietro fino al cancello. E lì si è fermato. Come quando è partito Marino.

Almo corre dentro; la porta della cucina è socchiusa: vede sua madre seduta di fronte a Peruffo. Non parlano. Adele tiene la testa china e un fazzoletto tra le mani. Per la prima volta la vede struccata e spettinata. Vecchia.

Il fattore dei Giovannini si alza, guarda fuori dalla finestra.

Forse è già successo qualcosa tra di loro; e allora lui ha avuto bisogno di allontanarsi un po’, per farla sentire meno a disagio. O forse non si sono ancora rivolti la parola; e Peruffo, proprio in quella distanza, cerca il coraggio di parlare.

Dal sottoscala arriva un frusciare di labbra. Poi un tirar su con il naso di chi dovrebbe soffiarselo ma non vuol fare rumore. Almo si volge ed entra nella nicchia scavata, usata come ripostiglio. E quando vede Nina, di nuovo non capisce. Se si è nascosta lì per origliare o se ha scelto quel posto per piangere da sola.

“È tutto nero; sta diventando tutto nero,” gli dice e lo abbraccia.

Sente le sue lacrime prima del viso, della pelle e di ogni altra cosa di lei che lo avvolge.

La lascia lì e imbocca la scalinata.

Solo alla fine, sull’ultimo gradino, vede Sergio, Orio e Faliero.

In quel momento gli sembrano tutti piccoli. Lui si sente il più vecchio. E di tanto. Come se quello che sta per accadere, lui l’avesse già passato e i fratelli fossero lì ad aspettarlo, a cercare conforto nella sua esperienza.

Seduti nello stesso modo, stravolti nello stesso modo. Lo guardano e scuotono la testa. Nello stesso modo.

Cerchiamo i modi più originali per ficcare la lingua in bocca a una donna che non ci deve confondere con qualcun altro; per cadere da una sedia quando siamo ubriachi, così che gli amici ne ridano finché campano. Cerchiamo un modo solo nostro di camminare tra i banchi del mercato, di girare la forchetta dentro gli spaghetti, persino di addormentarci nella posizione giusta per nascondere la senilità con il suo rivolo bavoso che cola.

Nella gestione del dolore, nella consumazione del lutto, invece no. Tutti uguali, banali, perfettamente educati a seguire alla lettera le regole mai scritte nel Galateo dell’Abbandono. La morte non si deve ricordare di noi.

Avanza nel corridoio, verso la porta. Gli arriva il mormorio sommesso delle sorelle riunite nella biblioteca e un “basta, Mara” di Cesira, visto che la più piccola ha buttato la palla di pezza contro il muro.

Dalla stanza esce il dottor Deganello. Quando vede il ragazzo, sospira felice.

“Fortuna che sei arrivato,” gli dice. “Chiede solo di te. Vuole solo te.”

Entra.

Nina ha ragione: sta diventando tutto nero. Le dita dei piedi fino alle caviglie; le mani fino ai polsi. E anche il sottogola, le punte delle orecchie e la pellicola scura che si è posata sulle labbra e le ciglia. Nero e gonfio. La caricatura, lo scarabocchio di un rospo che sta per esplodere. C’è una mutazione rettile in ogni corpo umano che spira. C’è un osceno camuffarsi d’anfibio nella vita divorata dal male.

I suoi occhi, solo quelli, sono intatti. Intatta la luce e la festa divertita dentro l’iride quando il figlio prediletto gli si avvicina e lo sfiora.

“Papà,” sorride e lo accarezza sulla fronte.

“Amore,” dice con un filo di voce e abbandona la testa esausta sulla mano, quasi a godersela tutta. A volerla portare via con sé.

Non ha mai chiamato nessuno così. Non una delle figlie. Nemmeno appena nata. Non sua moglie. Nemmeno appena sposata.

Alza faticosamente la mano destra. E gli fa cenno di avvicinarsi.

Almo si tende; il suo orecchio è a un soffio dalla bocca di Carlo.

“Non ti fidare mai di quello che ti diranno e che ti faranno leggere; cambia tutte le parole dei loro discorsi, dei loro libri, delle loro leggi. Cancellale. E mettici le tue. Mettici le nostre.”

Il bacio debole e potentissimo che gli arriva subito dopo è come quando l’ha chiamato amore. La prima volta. E anche l’ultima.

*

Scende le scale. Si ferma sul mezzanino. Vede Peruffo che chiude la porta della cucina. Adele è rimasta dentro. Non l’ha accompagnato. Brutto segno.

Peruffo si rimette il cappello. Strana distrazione irrispettosa. Attentissimo al bon ton, il lustrascarpe del principe si è sempre incappellato fuori dalla villa. Mai, dentro. Altro brutto segno.

Dal sottoscala esce Nina.

“Ce ne dobbiamo andare?” gli chiede.

Peruffo esita. Si avvicina. Sempre con il cappello in testa.

“Non è facile; credimi. Non è facile,” abbassa lo sguardo.

“Quanti giorni possiamo stare ancora?” nella voce rotta dal pianto, affiora una fierezza rabbiosa.

“Ma no,” risponde imbarazzato. “Con calma, appena potete.” Significa: appena è morto.

“Quanti giorni?” insiste Nina.

“Una settimana,” dice e stavolta si scopre la testa. La vergogna gli ha fatto tornare la buona educazione.

“È un momento terribile. Per voi e anche per noi,” continua Peruffo. “Il principe è in difficoltà. Calore e i suoi non gli danno tregua. Prima l’hanno costretto a iscriversi al partito. Poi gli hanno chiesto di fare le donazioni a chi vogliono loro. Adesso gli impongono un altro sacrificio. Stiamo parlando di proprietà, di terra, di case. Vogliono gestire tutto loro e direttamente. È una trattativa complicata, Nina. Sapessi quanto. Da non dormirci la notte. Non so come andrà a finire. Ma la villa adesso ci serve. È fondamentale per trovare un accordo.”

“È troppo poco una settimana. Non si può rimandare di un po’?” gli chiede lei, di nuovo disperata.

“Ecco, forse un modo ci sarebbe.” Peruffo abbassa la voce, avanza e, con una mano, le fa cenno di seguirlo lontano dalla cucina, per non farsi sentire da Adele.

“Non mi permetterei mai di darti questo consiglio, se non ci trovassimo in questa brutta situazione. So che ultimamente ti sei... come dire... ti sei un po’ allontanata dal figlio del principe. E il ragazzo ne ha sofferto, ne soffre ancora, secondo me. Insomma, si sa, lo sanno tutti che s’è preso una bella sbandata per te. Per carità, non mi fraintendere, eh? Mica devi fare cose... mica devi sentirti obbligata a fare cose sporche, cose che non vuoi fare. Però se tu tornassi a frequentarlo, a fargli un sorriso, un po’ gli occhi dolci... insomma, mica son peccati mortali, questi... ecco, magari, chissà; tutta questa fretta potrebbe diventare, come dire, meno frettolosa. Poi, cominciando di nuovo ad andarci via insieme, che ne sai... le idee, soprattutto alla tua età, sono strane, e i sentimenti talmente ballerini: metti che ti piace davvero. Be’, allora cambia. Sissignora; questo cambierebbe tutto. Voglio dire...”

Peruffo si interrompe da solo. Non ha avvertito voci o rumori. Ma l’incombere di una presenza, nel mezzo delle scale, che solo in quel momento, pur nell’assoluta immobilità, ha voluto farsi sentire.

“Mio padre è morto,” dice Almo. Ad alta voce. Tanto che i fratelli che l’hanno visto poco prima uscire dalla stanza del padre e superarli per scendere giù, si alzano allibiti.

Faliero corre in camera; Sergio para i lamenti di Maria e Lara fuori dalla biblioteca; Orio, invece, si alza in piedi e guarda trasognato verso Almo, come a chiedergli: “E ce lo dici così? E poi: è morto solo il tuo o anche il nostro, di padre?”

“Mi dispiace; Dio, quanto mi dispiace. Condoglianze,” dice accorato Peruffo, mentre Nina è già tra le braccia di Adele, appena uscita dalla cucina.

Almo scende un gradino.

“Fuori di qui,” gli dice.

“Almo, credimi; io stavo solo spiegando a tua sorella che...”

Fa un altro gradino e non lo lascia parlare.

“Fuori di qui, parassita!” urla.

Mentre il fattore fugge spaventato, Adele, proprio nel momento più tremendo della sua vita, sorride. Ed è il sorriso bellissimo e anche un po’ sporco di una femmina che cede a una seduzione.

Lei li ha riconosciuti. Tutti e due. Per un attimo, una cosa sola. La violenza sotterranea di Marino e il fuoco di Carlo.

È Almo, adesso, l’uomo di casa.

*

A Sant’Urbano, nel paese da dove è venuto fuori e dove adesso torna dentro, c’è un tale sbatacchio del vento, quella mattina, che più di qualcuno al funerale non c’è andato.

Tempesta ancora non c’è stata, ma una mezza tromba d’aria sì e allora tre stalle, sotto l’Adige, si sono scassate nei tetti, volati via come i baffi paglierini d’uno spaventapasseri.

Grandine neppure s’è vista, e pioggia, solo quattro gocce, giusto a fare un po’ di scena quando la bara è entrata in chiesa; un brontolare di tuoni, tanti, sotto le nuvole, poi il sole, poi ancora un varechinarsi del cielo che proprio non si capivano le intenzioni degli angeli, e lo spavento vero e proprio, roba che anche le mucche si sono messe a ululare, quando la carovana di motociclette è apparsa dalla curva dell’argine.

I bambini, vedendo quella macchia abbronzata avanzare compatta, e sentendo l’au au dei motori, hanno pensato a un assalto degli indiani; i più grandi invece, quando hanno inquadrato meglio i centauri neri dalla testa fino alla ruote, hanno chiesto al podestà se quello non fosse il nuovo Giro d’Italia pensato dal Benitissimo.

Giovani e meno giovani però; un futìo, ha detto don Flavio. E cioè, tanti davvero. Da tutti i paesi intorno, fin da Padova centro.

Alunni ed ex alunni del professor Marinelli stipati dalle 9 del mattino in ogni angolo del Duomo, con i vestiti a festa e i garofani rossi in mano sul sagrato; di colleghi di scuola, invece, sempre ascoltando il parroco: “un’avvilitudine.” Finto latinorum che imbambola i chierichetti, ma che ha fatto sobbalzare dentro la tomba il povero professore. Parola che non esiste da nessuna parte, coniata da don Flavio per mettere insieme un evento avvilente con i vigliacchi che tale l’hanno reso.

I vigliacchi sarebbero gli insegnanti, che pur con il giorno libero hanno disertato la cerimonia, perché il professore defunto, bravissima e coltissima persona per carità, ultimamente esagerava un po’ con le invettive in classe contro il regime. E tutto sommato il sorcio che s’è infilato là dentro e gli ha rosicchiato i polmoni gli ha risparmiato un bel po’ d’umiliazioni, perché il provveditore della Provvidenza fascista avrebbe provveduto alla sostituzione del preside Marinelli già a settembre.

Quando la messa è finita e andate in pace, soprattutto il morto, a Adele è venuto un colpo; perché, mentre andava dietro al marito chiuso nella bottiglia di legno in procinto d’essere buttata nelle maree oscure, a un tratto s’è trovata circondata da un cordone di camicie nere.

Nessun camerata, tranne i parenti stretti si capisce, aveva partecipato alla funzione; guai a mettere un piede dentro la fogna vaticana, ma quando la famiglia è uscita, quelli si sono mossi come un esercito e hanno fatto da mantello a Marino fino al piccolo cimitero, che si trova nell’affossarsi della campagna, appena giù, passata l’osteria.

E nel tragitto, il vento farabutto non s’è ritirato d’un soffio, e ai lati delle strade i compagni di Almo, anche loro rimasti fieramente fuori dalla Casa del Dio Servo dei Padroni, hanno provato a buttare i fiori sul carro cigolante con a bordo la bara, ma niente, i petali tornavano indietro, e allora sono andati più vicino, fino a toccare con la mano la cassa. Lì sono stati fulminati dalle occhiatacce dei beccamorti del partito, tanto che Gino Cescon, un’ora più tardi, dietro l’altro cimitero, quello grande di città, dirà preoccupato ai compagni: “Sanno perfettamente chi siamo.”

E già durante il corteo funebre si sono staccati dai fossi e sono venuti su dalle aie tanti di quei contadini e fittavoli che hanno voluto anticipare il momento delle condoglianze, e allora tutti a stringere la mano a Marino, solo a lui, che vale tutta la famiglia.

Già perché, una volta seppellito il fu Carlo, fuori dal cimitero, intorno al giovane Marinelli si stringeranno prima i dirigenti del partito, poi i signorotti e gli industrialotti, quindi i conti e i principi, e infine tutto il resto della plebaglia. Sono così tanti che Marino sorriderà, ringrazierà e abbraccerà tutti, ma non se ne ricorderà uno. E invece è importante, anche solo per un attimo, fargli coraggio e scappellarsi con gli occhi umidi davanti a lui, di modo che il predestinato a brandire lo scettro della politica fascistissima da quelle parti, si ricordi bene di ognuno di loro.

Certo il paesello in questione non è manco da considerarsi la periferia dell’impero. Ma lo stagno di quella periferia. E però le rane ci sentono meglio di tanti bei cavalloni da parata. E il gracidare, da quelle parti, è certo nel dire che i vari Baseggio, Calore, Corrè, Menecacci e banditi affiliati abbiano ormai i mesi contati. Troppe estorsioni; troppa terra e mulini in mano a pochi; troppi espropri che diventano propri; insomma, uno sfacciato uso privato del partito per fare i cazzissimi loro.

Così, sembra proprio che Cavina, fascio responsabile delle tre Venezie, si sia rotto il cazzone suo e sia andato dal Musso in persona a dirgli: “Adesso basta.”

Il Crapone gli avrebbe dato ragione e, pur chiedendogli di andarci con le pinze, ha mandato Cavina a usare la forca.

La sezione di Padova e limitrofi va bonificata. E nessuno come Marino Marinelli, che a Treviso sta facendo mirabilie, è indicato a prendere in mano la situazione.

Il pupillo di Cavina è giovane e ammalia i giovani; sta dalla parte dei poveri, dei braccianti, degli operai.

Tanto per dire: a Castelfranco, l’ha indetto lui lo sciopero dei tessili contro lo sfruttamento dei padroni. E a chi gli ha rimproverato di far troppo il comunista, lui ha risposto, tre giorni dopo, con un incremento degli iscritti al partito di centoventuno tessere, solo in quel paese. E cioè, esattamente, il numero degli operai della fabbrica incriminata. Rubati così, con una furbacchiata rivoluzionaria, ai rossi che facevano loro la corte da tanto di quel tempo.

Sì, sì, è il futuro Marino, che però un’ombra ce l’ha anche lui.

I rospi sul Sile hanno raccontato a quelli dell’Adige che il ragazzo è uno sciupafemmine. Tale e quale al Benito a cui, chissà, magari Cavina avrà spifferato pure questo per rendergli più simpatico e vicino il figlioccio.

Figlie e mamme; zie e cugine. E pure qualche nonna, se è soda e sotto i cinquanta. Nella mansarda con letto singolo occupata da Marinelli, appena fuori dalla Porta Est di Treviso, pare ci sia un traffico di sottane e un’orchestra di cigolii, tanto che all’incremento di tessere fasciste sarebbe seguito quello dei cornuti trasversali. Non ne salta una, Marino. Anzi le salta tutte.

Per cui, sulla strada, ci sono anche le donne a far la loro comparsata prezzolata. Ma i mariti le hanno mandate a fare un inchino alla vedova. E solo a lei.

Ecco, cara, avvolgi nello strofinaccio due vasetti di crema al marsala e dalli alla figlia più grande, a Nina, perché adesso che dalla città tornano a vivere in campagna, le sorelline più piccole, per colpa dello sbalzo d’umidità, un mese di tosse se lo buscheranno di sicuro.

E anche voi, sì, andate, andate, figliole mie, ma no, non da Marino, non lo disturbate, lui; meglio invece mettere nelle mani di Lara o di Maria quei bei centrini di pizzo che fa la nonna; o una bambola, una girandola per la piccola Mara.

Degli altri quattro fratelli, se proprio un saluto deve scappare, meglio farlo al più grande, a Sergio. Perché gli altri sono tutti lì con l’età e ce n’è uno piuttosto chiacchierato; il mezzano, il più piccolo, chissà, non è chiaro. Però è certo che uno di loro è sul rosso andante e non sia mai che la condoglianza imbrocchi proprio quello sbagliato e si arrechi così un indiretto dispiacere a Marino.

Vanno benissimo anche le serve; certo, anche loro, visto che Adele, nel corteo, ha voluto al suo fianco Cesira; e però siccome ’ste ragazze che lavorano in casa c’hanno tutte i fianchi pericolosi, a Marino gli fate un inchino e poi tirate dritte verso la Cesira. Le portate il cesto con la marmellata, mezzo chilo di formaggio, lo schissotto appena uscito dal forno. Tra serve vi intendete, no? Lo sapete bene quanto vi tocca sgobbare quando c’è di mezzo un trasloco, che a furia di pulire, spostar mobili, smontar tappeti e rimontar tende, s’arriva all’una e nessuno ha fatto da mangiare.

Davvero i Marinelli, in lugubre processione verso il camposanto, sembrano, a turno, ciclisti in fuga solitaria del Giro d’Italia.

Non passa metro che non spunti dal nulla una buon’anima: li affianca per un breve tratto, sussurra loro una parola, gli mette in mano un pensiero, per poi sparire dalla strada. E son talmente tanti, i regali e le pietanze, i pacchi e gli strofinacci, che la famiglia, non sapendo più dove metterli, un po’ si fa aiutare dal cordone camerata, e un po’ dissacra il rimorchio funebre, appoggiando la roba accanto al feretro.

Poi, varcato il cancello del cimitero, ci mancava pure che le camicie nere si mettessero sull’attenti con un botto simultaneo degli stivali sulla ghiaia. Per poi levare, tutte insieme, il saluto romano.

Non solo Almo, ma tutti i figli si son voltati sdegnati e, prima di reagire, hanno cercato con gli occhi la disapprovazione di Adele. Che, stranamente, ha continuato a camminare a testa bassa, come se niente fosse.

In fondo, si trattava dell’ennesimo omaggio al figlio vivo più che al padre morto. Come tutto il resto. Ma, almeno, era sincero.

*

Lo cerca dappertutto. Lo sa: lui lo sta evitando. È da quando è tornato che fa di tutto per sfuggirgli.

“Hai visto Almo?” chiede Marino a Sergio, che sta intrattenendo la vecchia zia che è venuta da Parma.

“No,” gli risponde. “Fuori dal cimitero, l’ho perso.”

Marino si avvia a lasciare il Salone delle Feste, perché lì non solo si sono concentrati tutti i parenti, ma, proprio in quel momento, entra anche il neoeletto podestà Bonaldo, che qualcosa avrà da dirgli di sicuro.

“Aspetta, Marino; mi dai un minuto?” No, non è il podestà a chiedere la sua attenzione, ma Orio.

“Dimmi.”

“Ecco, vedi, adesso che dobbiamo tornare a casa dei nonni, in campagna...”

“Non temere; io devo andare subito a Treviso, ma verranno i miei amici a darvi una mano,” prova a tagliar corto Marino.

“No, non è quello,” Orio gli si para davanti, perché ha capito che il fratello è concentrato su tutt’altro. “Il punto è che servono soldi in casa, adesso. La mamma è tanto preoccupata. Anche ieri sera m’ha detto che non sa proprio come fare. Ecco, se tu, magari, nella posizione in cui ti ritrovi...”

“Mi ‘ritrovo’?” solo quel verbo sbagliato accende il suo interesse.

“Che occupi, intendevo dire: che occupi meritatamente, ci mancherebbe. Insomma, sempre se puoi, eh? E se questo non ti crea problemi. Io... noi tutti, in famiglia, avremmo bisogno che tu mi mettessi a lavorare da qualche parte; ma non a far il magazziniere dei fiammiferi e dei sacchi di tabacco, come mi tocca adesso. Qualcosa di importante; e di ben pagato, soprattutto.”

“Ci penso, Orio; provo a farmi venire un’idea,” gli sorride e si allontana.

Avete giocato a fare i principi comunisti con il culo al caldo del camino in marmo austriaco di Villa Kunkler Giovannini, mentre io, per tre mesi, ho dormito in una mansarda, con il cappotto, e sotto il cappotto la giacca, la camicia, le brache corte, e sotto la camicia e le brache corte, la flanella del pigiama e una calzamaglia.

Avete tirato tardi, tutti satolli e raccolti attorno al padre con tre lauree e con la quarta che era sputtanare me, la mia fede e il mio lavoro; vi siete divertiti a scuotere la testa: “Chissà che fine farà”; “Poveretto, cosa si è messo in testa? Chi si crede di essere?” E magari, quando v’è arrivata voce che la strada cominciavo a farla, vi siete irritati, e allora basta con la commiserazione per lo scimunito, ma giù con il disprezzo contro il delinquente, colpevole d’assassinare, rapinare e infettare il buon nome di famiglia.

Mai una lettera, un pezzo di pane, un paio di mutande, una vecchia coperta o lo straccio d’una federa; e però anche a me sono arrivate le voci a Treviso; ho saputo, per esempio, che il mio letto, per quattro mesi, è stato occupato dal figlio povero di un proletario eroe: Ernesto Avanzini che ha provato a dare fuoco alla sede del PNF a Monselice con un bel po’ di ragazzi sotto i tredici anni dentro.

Figli d’assassini, figli di puttana, ma sì, chiunque, pur di dimostrare al mondo che io sono stato un errore da rimediare, una colpa da espiare. E, adesso, “nella posizione in cui mi ritrovo”, dovrei anche trovarvi un lavoro? E adesso che il Santo Padre Professor Patrono delle Masse Operaie è salito a far picchetti in Cielo, dovrei essere io a sistemare la cose, quaggiù?

“Ascoltami bene,” Nina blocca Marino e i suoi pensieri, mentre sta salendo le scale. “Appena i cugini e gli zii se ne vanno, noi iniziamo subito con lo sbaracco. Vuoi aiutarci? Bene; impedisci ai tuoi amici d’entrare in casa. Non solo il papà non li vorrebbe, ma non abbiamo da mangiare per tutti.”

“Nessuno entrerà, stai tranquilla,” le risponde provando a non perdere la calma.

“Ah, davvero? E quello chi è?”

Gli indica un uomo in completo nero che, con un bicchiere di vino in mano, cammina lungo il corridoio; osserva compiaciuto gli affreschi sulle volte, i divani e le sedie stile impero dentro le stanze. Negli occhi c’è la grassa voluttà di chi s’immagina già padrone.

Marino si volta dall’altra parte. Fa un cenno al ragazzo con la cicatrice, che subito lo raggiunge.

“Fai presente a quel verme di Baseggio che qui non è gradito,” gli sussurra.

“Ti basta che stia nel parco o oltre il cancello?” gli chiede l’altro.

“Fuori dalla proprietà,” gli risponde Marino.

Supera Nina e mangia nervoso due gradini alla volta.

Deve essere là. Sì, nella loro camera.

Solo il pensiero che, come un tempo, Almo e il suo muso lo attendano seduti a terra, tra i due letti, per fare la pace, gli fa tornare il buonumore.

Apre la porta. Ma lui non c’è. Vede il grammofono con la tromba dorata, sul comò, accanto alla finestra; la sedia in velluto verde, nell’angolo, appena dietro la porta; lo specchio a oblò con la cornice in radica, appeso dall’altra parte.

No, nessuno li ha più toccati, usati: nessun disco che gira, nessun ballo sul tappeto; nessuna battaglia per distendere le brache e la camicia prima dell’altro, così che al perdente toccava far l’ordinato, usare gli attaccapanni e mettere tutto dentro l’armadio; nessun viso indeciso allo specchio che chiedeva consiglio all’altro: se sia meglio pettinare la mascagna all’insù con la brillantina, oppure con la riga in mezzo, oppure con i tirabaci che cadono sulle tempie, che chissà alle ragazze come piaccio di più.

Marino avverte che ogni cosa è rimasta intonsa e sospesa dal giorno in cui se n’è andato. E che neppure al piccolo Avanzini, ospite amato che sedeva alla Sinistra del Padre, Almo ha concesso la benché minima confidenza con ciò che, lì dentro, resisteva della loro vita insieme.

Adesso sente un lamento soffocato venire dalla camera coniugale. Fa pochi passi. La porta è aperta.

Sì, l’istinto non lo ingannava; qualcuno lo sta aspettando. Ma non è suo fratello.

“Mamma, perché non scendi?” entra e parla lentamente. “Giù chiedono di te.”

“No, è solo te che vogliono,” gli risponde Adele, forzando un sorriso tra le lacrime. Con una mano gli fa cenno di sedersi sul letto. Accanto a lei.

Lui le mette un braccio attorno alle spalle. La donna chiude gli occhi. Rapita, felice, protetta. Finalmente. Ma dura solo un attimo; perché Carlo non approverebbe, Carlo non vorrebbe. E poi lì, nella stanza dei loro corpi senza ordine e madidi d’amore, accettare la consolazione del figlio che l’ha fatto ammalare, del figlio che l’ha tradito; no, bisogna tener la distanza, evitare ogni rischio di profanazione.

“Farò tutto ciò che posso per aiutarvi,” le dice Marino, sentendola staccarsi d’improvviso.

“Non abbiamo bisogno di niente; è giusto che pensi alla tua vita,” gli risponde Adele, che prova a essere amorevole e fredda in un tempo solo.

Lui sposta lo sguardo verso la parte del letto che occupava Carlo.

La tentazione di poggiare il naso sul cuscino, per sentire quell’odore di muschio e spine; questo per lui, fin da bambino, era la pelle del padre.

Poi, sul comodino, rivede i suoi occhiali aperti, la pipa in ceramica e un libro sottile. Gli sembra di riconoscerlo. Allunga un braccio e lo prende. Una dispensa della propaganda fascista. La trascrizione di un discorso di Marino, di nemmeno un mese prima, fatto al Teatro Goldoni di Venezia, in occasione della prima riunione generale del sindacato.

Lui leggeva i suoi discorsi. Si teneva informato. Lo seguiva. Ma perché? Per combatterlo meglio? Per odiarlo ancora più profondamente? O, invece, per provare a capirlo?

Ha paura di scoprirlo. Fissa allibito Adele.

Lei gli fa uno strano cenno d’assenso con il capo. Come a dirgli, Vai avanti, non avere paura.

Lo apre. Gira la prima, la seconda, tutte le pagine sempre più febbrilmente, per trovare una parola, una traccia di Carlo. Ma niente.

Solo alla fine, sull’ultimo spazio bianco, vede uno strano segno fatto a matita. Uno sghembo asterisco; una specie di pesciolino rovesciato. Una nota che rimanda altrove. L’altrove è un piccolo foglio che gli deve essere caduto a terra nel momento in cui ha cominciato a sfogliare. L’ha raccolto Adele, che glielo porge. Poi lei si alza; stira con le dita le grinze dell’abito a lutto: afferra il pettine che le servirà in corridoio.

“Scendo; tutti mi stanno aspettando,” torna la fiera, impeccabile padrona di casa, meravigliosamente capace di prendere in giro se stessa.

Come quella volta, vicino al bosco dei gelsi. Carlo l’ha lasciato da solo, con i pugni chiusi, a chiedersi dove e che cosa abbia sbagliato.

Come quel giorno, proprio lì, al centro della stanza, tra la culla di Mara e la finestra, che era riuscito solo a dirgli “papà” e poi il papà se n’era andato dietro agli altri figli che lo chiamavano e allora il figlio con le brache bucate s’era convinto che lui era meno figlio degli altri e che mai più si sarebbe ferito il cuore per rivedere quegli occhi buoni, per sentir un’altra volta il profumo di muschio e spine.

È nel rinnovarsi del suo risentimento che Marino trova il coraggio di schiudere il foglio.

C’è di nuovo il pesciolino rovesciato. E, subito sotto, quattro parole sbilenche che tradiscono l’esangue fatica di un uomo finito:

Bravo il mio ragazzo

Non si muove. Nemmeno le lacrime.

“Papà,” dice ancora.

*

L’ha sentito, sei stanze più in là, entrare nella loro camera. Ha annullato ogni piccolo movimento che potesse far rumore. Sa che Marino ha guardato la sedia in velluto verde. E poi il grammofono e lo specchio.

Ti hanno aspettato, sì. Ma ora basta. Non vogliono più il tuo maglione sullo schienale; preferiscono il silenzio alla tua voce; riflettere il muro piuttosto che gli occhi tuoi.

Lo sente, tre stanze più in là, raggiungere Adele sul letto del padre. E allora smette quasi di respirare.

Facile adesso versare un paio di lacrime, far finta di niente. Facile perché nessuno ha il coraggio di chiederti: Dov’eri il primo giorno che ha sputato sangue? Dov’eri il secondo giorno che stava per soffocare? Dov’eri il terzo giorno che la febbre l’ha fatto svenire fino al quarto giorno, dov’eri il quinto giorno che è tornato a camminare goffo come un bimbo e poi è caduto giù dalle scale e s’è rotto la clavicola, dov’eri quando rimetteva anche l’anima e dov’eri quando si è rimesso e faceva progetti e abbracciava tutti, lui che non ha mai abbracciato nessuno e sorrideva, Dio come sorrideva, lui che ha sempre tenuto i baffi folti perché nessuno lo vedesse ridere; dov’eri quando aveva le labbra secche e ha chiamato sua madre e quando dormiva e io stavo lì a fare la notte e a benedire la maledetta tosse che tornava a scuoterlo che almeno voleva dire che era ancora vivo, e dov’eri quando siamo entrati qui tutti insieme e ci ha guardati con gli occhi gialli ma non ha voluto farsi vedere umiliato dal male e allora ha provato ad alzarsi ha provato ad alzarsi ha provato ad alzarsi, almeno con la schiena dal cuscino, per vedere se ci fosse ancora qualcuno appena dietro; in fondo nove figli sono troppi dentro una stanza, e se ne conti otto magari ti sbagli; se stai tanto male da non vederci, da non contare più, il nono ti può scappare, sì, è scappato, sono mesi ormai, quanti non me lo ricordo più, ma è tornato adesso, no? Dov’è il primo dei miei ragazzi? Si vergogna? Spostatevi un poco, voi; dove ti sei nascosto?

Fai parte dei padroni adesso; sei il nuovo padrone dei vecchi padroni. Dei Morosini, dei Giovannini, dei Gritti e dei Malanesi, di tutti quelli che abbiamo odiato insieme e che all’improvviso sono disposti a regalarti questa villa, con mogli e figlie annesse, pur di non farsi portar via tutto il resto.

Fai parte dei temuti e degli odiati. Quindi, dei rispettati. Per cui il padre che t’ha avversato non era comunista. Guai a dirlo, solo a pensarlo. No, Carlo Marinelli era solo un fascista ritardato. Un fascista sottosviluppato. Se solo l’avesse capito prima, il professore, che era anche lui dei vostri.

Dov’eri Marino? Io sono rimasto qui. Con lui. E continuo. Al suo posto.

Attende di sentire i suoi passi che si allontanano e poi scendono le scale.

Rilegge il passo del Manifesto che, quella sera stessa, cominceranno a distribuire clandestinamente: “I padroni e i borghesi sconsacrano le cose sacre.”

Lui farà il contrario. Come gli ha chiesto suo padre. Cambierà le loro parole. Tutte.

Farà sacre le cose che loro sconsacrano.

È seduto nello studio di Carlo, circondato da libri, fogli, giornali: Il Popolo d’Italia, i discorsi di Mussolini, articoli e leggi promulgate negli ultimi quattro anni. Persino il saggio di un certo Hitler che sembra voglia far della Germania la copia dell’Italia.

Almo prende la penna.

E comincia.