Battesimo

Mestre, febbraio 1939

È andata così. Nessun problema o quasi fino a quel momento.

Il comandante del 57° Reggimento Fanteria, Ruggero Lombarducci, per i primi mesi dal suo richiamo alle armi, era assai sollevato. Ché il caporale che stava addomesticando i fanti in questione gli faceva rapporto quotidiano.

Niente da segnalarvi, signore. Almo Marinelli tacidiurno, signore.

Taciturno, caporale.

Sissignore, taciturno di giorno, ma parla di più la notte; sorpreso due volte, con altri quattro commilitoni a confasturbare in bagno, signore.

Uè, caporale, che stai a dire? Parlavano o si menavano l’uccello?

No, signore; scusate, signore: parlavano, parlavano e basta. Ho sbagliato verbo-sostantivo, signore. Almo Marinelli confabula e disturba di notte ed è tacidiurno, cioè non loquacizza di mattino e pomeriggio.

Ma ubbidisce, caporale? Fa le cose che gli vengono ordinate?

Abbastanza, signore.

Che vuol dire abbastanza, caporale?

Che pur obbedendo, signore, con la testa sembra stare in un altro luogo.

E chi non ci vorrebbe stare, gli scappa al comandante, portato via dal ricordo dei suoi natali faraglioni piantati sul mare di Palmi; adesso invece, con tutta quell’umidità e quel freddo del Nord, è diventato lui un faraglione, anzi ’na straminchia di stalattite.

Mi raccomando, caporale, stiamo parlando di un ex confinato; una testa calda e rossa; nostro compito è raffreddarla e darci una bella mano di nero.

Sissignore, mano nera mano pesante, signore.

E così il caporal Rattazzo, un ragazzotto di Pescara, se ne tornava dai suoi ringalluzzito e la sua squadra lo capiva subito quando veniva fuori dal rapporto, perché il solo contatto con il comandante e le spille sulle spalle, gli davano alla testa e allora Rattazzo gridava come una ossessa cornacchia, e faceva certe ispezioni ai letti, agli zaini, alle divise, al pavimento dei cessi, Soldati in disordine! Soldati indegni! Ammonizione, ammonizione per tutti!

Non era cattivo il caporalazzo, ché in verità le ammonizioni poi non si risolvevano in nulla, e anzi, certe sere, fuori dai castelli di brande, s’univa ai suoi ragazzi a fumare, a fare una briscola, e si dava delle grand’arie, di quello che sa e che non può dire, Segreto militare, Segreto di Stato, signori miei, ma ormai è questione di settimane e poi si parte a sparare a ’sti sbruffoni gialli dei giapponesi, e però vedeva nella faccia di qualcuno, che naturalmente non osava contraddirlo, una smorfia di dissenso, di stonamento, e allora la sera dopo, cambiava, Dobbiamo trivellargli la testa ai debolscevichi, e però, anche in quel caso, capiva dal silenzio a testa bassa e bocche cucite che se si fossero scucite avrebbero riso fino all’alba, che nemmeno i debosciati bolscevichi erano il vero nemico del fascio impero; e, ’sti cazzi, allora, Spareremo a tutti gli ebrei e i comunisti che ci vogliono male. Ecco, generico, basta così e contenti tutti.

Quel giorno, porta il battaglione al consueto battesimo del fuoco, così che una volta proceduto allo scoppiettamento, il pivello può dire finalmente d’avere l’uccello, come canta una strofa dell’Associazione goliardi fanti fascisti; e ogni mese, nello sportivissimo campo dietro a Forte Gazzera, una gigantesca cripta di pietre dove ancora riposano i cannoni del ’14-18, si tiene la messinscena del bum bum bum, la buffonata capettona delle giovani leve che mirano a bersagli di legno, a spaventapasseri con la sagoma d’un pennacchio o d’un caschetto nemici.

Dietro la rete, a distanza di sicurezza, vengono precettate classi delle elementari e delle medie, perché i balilla devono assistere e invidiare i loro balilloni maggiori; e c’è anche una decina di giovani donne al soldo dell’esercito, che sembran pronte per il Ballo delle Debuttanti, ma in verità sono puttanacce che vengono dalla riviera o dal mare, perché i pivelli per imbracciare bene gli uccelli, un’ispirazione la devono pur avere.

E fortuna che quel pomeriggio del 31 dicembre ci son solo le finte damigelle, perché le scolaresche sono in vacanza, e allora, a fatica, si sono rimediate due o tre mogli di sergenti con marmocchi al seguito.

Fortuna perché quando viene il turno della testa rossa e calda, quella all’improvviso butta via l’arnese come una bacinella bucata in un letamaio, alza le mani e grida: “Signore, appartengo a razza inferiore; non posso sparare.”

Cala un gelo vicino a Forte Gazzera che il gelo vero dell’inverno in confronto sembra rugiada nel deserto e il Rattazzo avvampa per l’imbarazzo che la testa e la faccia gli diventano a lui rosse e calde. S’avvicina a Almo, con il peso dello sguardo del comandante Lombarducci e degli altri papaveri d’artiglieria che assistono alla sceneggiata dai bordi del campo, e prova a rimediare; non sa se sia meglio supplicarlo oppure offenderlo, e mentre ci pensa e lo guarda in cagnesco, Almo continua impietoso, a voce ancora più alta: “Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché sono diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato vita alla razza italiana.”

Il Rattazzo sbrocca e comincia a gridargli in faccia: “Ti richiamo all’ordine, soldato, ti richiamo all’ordine!” Ma il disertore gli risponde, sovrastandolo: “Mi richiamo all’ordine da solo, signore: io non posso sparare, non mi è consentito, perché gli ebrei, come dice la legge, sono esenti dal servizio di leva militare, non possiedono cittadinanza, e non possono in alcun modo far parte di gruppi, aziende, associazioni o altro che abbia una qualche ingerenza con l’interesse della difesa nazionale.”

Il Rattazzo sbraita più forte, ma dalla bocca non gli esce più niente, non un’offesa storpiata, nemmeno uno dei suoi irresistibili neologismi che fan pisciare addosso dalle risate il comandante che adesso però non ride e anzi, a grandi falcate, corre a prendere in mano la situazione, a sedare il sedizioso, mentre dietro la rete i balilla cominciano a fare uuuhhh e le donne, madri mogli puttane non importa, sembrano gongolare di fronte all’irrimediabile sputtanamento dell’esercito.

“Obbedisci, soldato, obbedisci immediatamente; ti ordino di raccogliere il tuo fucile!” gli intima Rattazzo, dalle cui gonfissime vene del collo finalmente vengono fuori suoni umani e intellegibili.

“Il vostro ordine poggia su teorie molto pericolose, signore,” gli risponde Almo. “Pericolose, le definisce la legge: voi siete come coloro che vogliono comprendere in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche: io appartengo a entrambe. Dunque, signore: se non faccio parte della vostra razza, come posso stare nel vostro esercito?”

E d’accordo recitare il Manifesto della Razza nella parte degli ebrei, che già il Rattazzo c’aveva capito poco, ma adesso snocciolare quella più difficile, quella filosofeggiante, semitici, camitici, ma chi cazzo sono questi, vuoi vedere che sono loro e non i giapponesi o i russi contro cui dobbiamo fare la guerra; allora il caporalazzo, come certi balbuzienti che si mettono a menare le mani perché non riescono a rispondere per le rime a chi li aggredisce con una tempesta di parole, alza il fucile e lo punta alla gola di Marinelli e interviene la manona di Lombarducci a spostar la canna, perché altrimenti gli avrebbe tirato un botto che il cervello spostato del comunista lo trovavano in piazza Umberto I.

“Marinelli, cos’è ’sta pagliacciata?” Lombarducci lo interroga dolcemente, addirittura gli sorride; ha capito che più ci sono strepiti, botte e grida e più il copione marxista potrà contare su uno scrosciante applauso finale.

“Pagliacciata, comandante? Non è esatto. Se fossi un pagliaccio, mi sarebbe concesso di sparare. Ma sono ebreo. E non ne sono degno.”

“Tu non sei ebreo. Per fortuna per gli ebrei,” la sua strategia di minimizzare la pantomima comincia a funzionare perché lo sparuto pubblico, in lontananza, sembra più silenzioso. “Adesso vieni fuori con me e lascia che i tuoi compagni, a differenza tua, siano degni.”

Almo esita un istante, poi fa un passo per seguire Lombarducci.

“Dimmi un po’,” gli dice il comandante sempre a bassa voce, ma ad altissimo sprezzo. “Com’è che per voi rossi sparare è peggio che sporcarsi le mani con la merda d’una scrofa? Ma quando vi serve, ci mandate i bambini.”

No, in piazza Umberto I, a Mestre, adesso non si trova un pezzo del suo cervello fatto saltare dal Rattazzo, ma del suo sangue sì, e Marino guarda oltre l’appanno del Caffè Centrale, è lì che aspetta da due ore e per tre volte il carretto con i ciucci e i lecca lecca gli è sfilato davanti, perché cerca di seguire gli spostamenti degli innamorati, nel giorno di San Valentino.

A un tratto entrano Ettore Rocca e poi Rudi Maratini, il cui zio è amico fraterno del questore di Venezia.

Hanno facce scure.

“Ci sediamo, Mari, vuoi?” attacca Ettore, e lui capisce subito che sarà peggio di quello che s’aspettava.

“Che dice il questore?” salta Rocca e si rivolge subito al giovanissimo Maratini.

“Dai, siediti,” gli ripete Ettore. “Ci porta tre caffè? Anzi, no: cioccolata. Cioccolata calda per tutti,” si sbraccia verso il cameriere.

“Allora?” insiste Marino, con improvvisa durezza. È pur sempre il capo, lui. Non gli va proprio d’essere trattato come una donnicciola o come un vecchio cardiopatico.

“Il questore può fare davvero poco, avvocato Marinelli,” gli dice Rudi Maratini senza guardarlo negli occhi; soffre a non poterlo aiutare, soffre a dover ammettere che il suo intervento è stato del tutto inutile.

“Non poco. Niente. Non può farci niente,” lo corregge impietoso Ettore. “Pace che Almo si sia rifiutato di sparare e di eseguire gli ordini; pace che abbia improvvisato uno spettacolo pro ebrei e contro il regime; ma aver picchiato il comandante, ’sto Lombarducci... Su questo, Mari, non potrebbe salvarlo nemmeno il Padreterno, se esistesse.”

“Non è mai stato un violento; non ha mai alzato le mani contro nessuno,” dice con una strana dolcezza e di nuovo guarda fuori, i giochi del vento sui capelli dei bambini raccolti attorno al carretto dei dolci; quand’è stata l’ultima volta che io e te siamo stati in una sagra insieme, quanti anni sono passati dall’ultima volta che abbiamo rubato le patate americane, le caldarroste in tasca, i sacchetti di mandorle calde?

“Il referto medico parla di una prognosi di quindici giorni,” dice Ettore.

“Ci scommetto che è stato Lombarducci a dettarlo al pronto soccorso: di sicuro gli serviva il pretesto e il tempo per farsi una bella vacanza in Calabria, dare un colpo alla moglie e pregare qualcuno che conta di riprenderselo là,” fa Rudi Maratini.

“Può darsi, ma intanto nel referto...”

“Il fratello dell’avvocato Marinelli lo ha spinto, forse gli ha rifilato una mezza sberla... i testimoni sono stati chiari su questo... La verità è che in Calabria, da quelle parti, il meglio c’ha la rogna.”

“Va bene. Andiamo in caserma, vediamo quello che riusciamo a fare,” Marino torna tra di loro. Si alza.

“Mari, il tribunale militare di Trieste ha già emesso la sentenza.” Ecco, ha trovato il coraggio; Rocca gliel’ha detto. Il peggio di quello che s’aspettava. Che s’aspettavano tutti.

“Quanto?”

“Cinque anni e due mesi.”

Arrivano le cioccolate.

Silenzio. Anche fuori. Del vento.

Lo sa. Lo sa già. Il più lontano possibile. Ma stavolta è diverso. È il più lontano impossibile.

“Dove?”

“Adesso hai un figlio, Marino. Pensa a lui.”

“Dove.”

“Gaeta.”

*

Sì, deve pensare a suo figlio ma anche e ai figli degli altri.

Perché nelle settimane e nei mesi che seguono, ci sono madri e padri che lo cercano: “C’ho il figlio sotto le armi, avvocato; e pare che da un momento all’altro, me lo mandano in guerra. È solo un ragazzino, il mio Lucio; nella sua vita ha sparato giusto gli elastici con i fucili di legno; dove me lo mandano? Dove me lo mandano?”

E Marino non sa che rispondergli, Tranquilli, state tranquilli, mica è detto che Hitler voglia invadere ancora, gli interessava l’Austria e se l’è presa, perché dovrebbe continuare, e soprattutto perché il Duce dovrebbe seguirlo, siamo noi la continuazione dell’Impero Romano, mica la Germania; è Giulio Cesare che decide d’entrare in guerra e che, al limite, si porta dietro ’sti barbari ariani, non il contrario.

Però ogni sua parola di rassicurazione gira a vuoto e si sente ridicolo come quel giorno Bottai a Roma che prometteva a tutti che gli ebrei non sarebbero mai stati perseguitati e invece eccoci qua, con i professori fatti fuori dalle cattedre e gli alunni, che la papalina in testa se l’erano messa solo a carnevale per imitare Mago Merlino, spariti dai banchi come i conigli dentro il cilindro nero, in una magia al contrario. Davvero Marino non capisce perché Benito continui a dar retta alla Marionetta Imbianchina, di più, non capisce come il popolo tedesco possa andare matto per questa pupazzetta isterica in menopausa; come possa essere sedotto dalla sua voce da checca tradita, da vecchia zitella che non ha mai conosciuto un uomo e allora controlla ogni sera le mutandine delle nipoti belline. E gli viene anche da ridere, adesso sul treno, perché, come gli ha suggerito Rocca, deve pensare solo e soltanto a suo figlio che si chiama Carlo, e, guarda un po’, attraverso quel nome, il professore è tornato indietro, visto che Marino si trova a pensare di Hitler le stesse cose che suo padre diceva di Mussolini.

È chiaro, tutto si sta scollando, tutto sta collassando: guarda fuori dal finestrino e nella stazione di Treviso dove il treno si ferma, c’è una fila di perditempo che hanno barbe incolte recenti, che hanno stracci che erano abiti nuovi e dignitosi fino a un mese prima; e ovunque è così, i poveri aumentano, gli accattoni e i ladri per necessità, gli ubriachi per disperazione. Li riconosci subito dagli occhi spauriti che non sono pezzenti abituali e che hanno appena perduto una casetta, un focolare, un abito della domenica.

E c’è pure ’sta nuova malattia dei cavalli, che gli vengono gli occhi bolsi e gialli, una specie di cimurro dei cani, che ha desertificato i mercati e le fiere; e ci sono i veterinari, offesi perché nessuno ha chiesto loro di scrivere il Manifesto della Razza Bovina e Cavallina Ariana, che sono certi: trattasi di un virus creato appositamente in un laboratorio ebreo, un filtro sabotatore con il sangue infetto delle cavallette e la milza del maiale, iniettato sui culi pezzati dalla notturna manovalanza giudea, che si introduce di soppiatto nelle aie e nelle stalle.

E molte cose si stanno spezzando anche dentro di lui, perché Marino, per il bene del suo Carletto – meglio d’un bambolotto, con gli occhioni azzurri che un pezzo di cielo sembra essere caduto da quelle parti, Tutto sua madre Letizia, tutto Leoni, dei Marinelli non ha niente, dice la maggioranza – ha chinato la testa.

Non c’avete una lira? Vuoi che ti aiutiamo a pagare le rate della nuova casa in via Santo Stefano? E allora fallo battezzare, l’hanno ricattato i suoceri.

Così gli è toccato; e in chiesa, dover fare finta di niente dinnanzi a quella faccia da inculachierichetti del monsignore che lo guardava altezzoso e misericordioso e che allo Scambiamoci un segno di pace gli è subito corso appresso, per stringergli la mano e pure abbracciarlo come si fa con la pecorella smarrita tornata all’ovile, è stato peggio che chiamare segretario Massimo Valerio.

E a proposito, almeno formalmente, il reprobo Marinelli, l’espulso ex segretario è stato riammesso nel partito, e in questo caso è l’ovile smarrito a essere tornato dalla pecorella che dal suo posto, invece, non s’è mai mossa.

Quando passi in sezione a firmare e a ritirare la tua tessera? gli chiede ogni due giorni Valerio.

Domani, domani.

Ma no, non ci vuole andare, non ancora.

Il partito s’è ridotto davvero male e sono d’accordo anche Bottai, Bocchini e Ciano, che si sono sfogati con Ettore Rocca; teniamo le scrivanie alluvionate da migliaia di lettere, un fornicare di delatori in ogni dove, questo è diventato il Paese: Dite a Sua Eccellenza che il Cancelliere di San Vito Lo Capo c’ha l’amante ebrea; Fate sapè a Sua Maestà Er Duce Nostro e anche a Sua Maestà Er principe Reggente che le auto reggenti della Siora Giudea Malfatti le ho trovate in tasca niente popò de meno che a quer caccarolo del podestà de Latina, poi però, l’inchiostro spione muta, l’ebreo s’ammoscia: Caro Duce, Te disturbo perché chi comanda qua a Venessia e non go bisogno de farte i nomi, el parla, el parla sensa vergogna, e el dise che se te ne porti in guera, te finissi con i zarvei e la testa sbragagnà, impicà al Ponte de Rialto.

Dunque, ai comunisti, agli ebrei, si aggiungono adesso gli infiltrati pacifisti, e deve stare attento il Cianozzo Galeotto, perché pare che sull’Altare della Patria sia atterrato un piccione viaggiatore che ha lasciato lì una merda grande così: Occhio, Duce, che il Genero tuo Degenero se la fa con il Re che se la fa con il papa che a sua volta se la fa con gli inglesi. E aspettano solo il momento buono per buttar giù dal balcone il Mascellone.

Insomma, pensa Marino uscendo dalla stazione di Trieste, ha ragione l’anonimo che su un muro di piazza della Libertà ha scritto grande grande: È UN MOMENTACCIO.