In una fattoria perduta nel tempo
192...
“Sentite cosa scrivo oggi sul Popolo d’Italia: ‘Non si getta il fardello prima di aver toccato la meta. Non si tradiscono i morti.’ Forza, Orlando, vieni avanti.”
Nel fienile dove sembra essere penetrata la nebbia di ottobre, tanto è denso il fumo delle pipe e delle sigarette, affiora tra gli stracci dei contadini un soldato grigio e sbrindellato.
“Oh, ma quello è il Silvestrin,” dice Almo.
“Sta’ zitto, che ci sentono,” taglia corto Marino.
“Ma perché ha sempre addosso quella divisa? Non è finita la guerra?”
“Non ha altro da mettersi; adesso però, se parli di nuovo, ti butto giù a calci.”
“Ma che sono ’sti fasci, Mari? Perché mi hai portato qui?”
Orlando Silvestrin raggiunge l’uomo vestito di nero in cima a una fila di botti, come un palco improvvisato.
“Soldato!” tuona l’uomo in nero che spegne sul nascere il borbottio del pubblico. “Sei tra amici e fratelli che ti sono devoti e grati per i tuoi sacrifici in battaglia. Ma fuori di qui? Com’è la tua vita da quando sei uscito dalle trincee di sangue e onore, dove ancora giacciono le spoglie di tanti valorosi patrioti italiani?”
Orlando fissa la piccola folla in silenzio.
Le pupille corvine sporgono dalle orbite come chicchi d’uva tra gli avanzi di un vigneto saccheggiato dalla tempesta. È un avanzo anche il suo corpo, spaventosamente secco e magro, quasi compresso da una denutrizione che potrebbe essere tanto la causa quanto l’effetto di un male incurabile.
“Uccello diritto, fucile diritto!” grida Silvestrin.
Per fortuna la risata di Almo, lassù nel ballatoio, viene coperta da quella di tutti i convenuti.
L’uomo in nero rimane impassibile. E subito riattacca. Con voce precisa e affilata.
“C’è poco da ridere, amici.”
“Coda dura, canna dura, mai paura!” insiste Orlando come ringalluzzito dal divertimento dei contadini.
“Bravo Orlando! Viva Orlando!” irrompono alcune voci dal fondo, ma tanto il tono quanto l’applauso che segue sembrano più dettati da una commozione trattenuta e profonda che dalla goliardica tentazione di sfottere il reduce lunatico.
“Sapete cosa dicono i bolscevichi?” l’uomo in nero avverte e cavalca subito l’emozione. “Che Orlando è così provato per colpa della guerra!”
“Canna dura in bocca all’austro, coda dura in bocca alla ungherese,” rilancia Silvestrin.
“Sì, abbiamo capito; buono, adesso.” L’uomo in nero gli mette una mano sulla spalla. Poi fa un cenno a uno spilungone in prima fila che riporta il soldato giù dalle botti.
“Per i rossi e anche per il prete del vostro paese, sissignori anche per lui, Orlando Silvestrin non sta male perché quando è tornato nella sua comunità è stato accolto dagli sputi dei ragazzi; non sta male perché, da quando è tornato dal fronte, il prefetto non ha mai trovato il tempo di andarlo a trovare e di ringraziarlo; no, non sta male perché il padrone dei campi dove lavorava prima della guerra non l’ha più voluto; non sta male perché i contadini, i braccianti, gli operai, i suoi fratelli poveri di pane e ricchi di quei valori che l’han spinto a offrire la sua vita per la loro libertà, adesso gli voltano le spalle e lo evitano come la peste: Orlando Silvestrin sta male perché si sente in colpa. Si sente in colpa d’aver ammazzato i nemici dell’Italia,” prende fiato solo per un attimo mentre tutto il fienile sembra riempirsi di una tensione febbrile e ogni cosa ansima e scalpita con lui. “Capite? È questa colpa, questa vergogna che lo fa nuotare dentro la sua divisa, mica la fame! È questa colpa, questa vergogna che non lo fa dormire la notte, mica l’avarizia dei padroni!”
“Impicchiamo i padroni!”
“Battiamo le campane con le teste dei preti!” urlano i contadini.
“Noi non saremo a fianco, non faremo la guardia del corpo di questa borghesia di nuovi ricchi vili e indegni!”
“Giusto!” lo accompagna un coro di voci rauche.
“Noi non lasceremo i socialisti litigare con i crumiri il giorno e poi far pace la notte; non li lasceremo mercanteggiare con i padroni la taglia sulla testa degli arditi del Carso, delle campagne, delle fabbriche, del mare, e di ogni altro posto dove arde il sacro fuoco della rivoluzione!”
“Abbasso i padroni!”
“Non lasceremo Dio e le Patria nelle mani di questi capitalisti e dei loro lustrascarpe che se invece di tre posseggono solo due macchine, dicono che il mondo è finito per colpa di Orlando e di tutti coloro che hanno combattuto anche per i loro interessi!”
“Gliele bruciamo tutte le macchine, con i figli dentro!”
“Caro Orlando, cari camerati,” la voce si intenerisce e gli occhi si inumidiscono, “noi continueremo la nostra marcia severamente, perché questo ci è imposto dal Destino. Non torneremo indietro, non segneremo il passo. Noi, ieri come oggi e oggi come domani, quando si tratta della Patria e del Fascismo, siamo pronti a uccidere. Siamo pronti a morire!”
Con un balzo si tuffa giù e abbraccia Orlando che esplode a piangere.
Marino e Almo sfruttano il movimento convulso e festante della folla per lasciare il ballatoio. Scendono dalla scala a pioli, si arrampicano su una finestrella e sbucano fuori sul retro. Nell’aia e nella notte.
“Salto il fosso, prendo la bicicletta e torno qui. Tu non muoverti,” ordina Marino.
È da molto tempo che Almo non gli obbedisce silenziosamente. Fosse successo ieri, il piccolo avrebbe replicato: “No, vengo anch’io. Che ti credi? Salto i fossi meglio di te.” Ma oggi, tutta quella storia di soldati che non hanno tradito e di traditori che non hanno combattuto; tutta quella storia di eroismo oltraggiato e di sacrificio ignorato ha fatto breccia nell’animo di Almo, per indole poco incline alla sottomissione e molto invece alla polemica.
Così, mentre aspetta il suo maggiore in grado Marino, Almo va per fare pipì e, mirando la floscia curvatura del suo sesso, gli comanda: “Ciccio dritto, pipì dritta.”
“Mi hai sentito anche tu?” la voce lo sorprende, dall’angolo destro del fienile, con i pantaloni calati.
“Sì, signore,” Almo ha il cuore in gola e un po’ di piscio nelle mutande, troppo frettolosamente risollevate.
“Ti è piaciuto quello che ho detto?” l’ombra dell’uomo in nero comincia ad avanzare.
“Sì, signore.”
“Sissignore con due esse e senza pause in mezzo. È più bello, no?” gli è così vicino che Almo può notare l’incandescenza del suo sguardo.
“Sissignore.”
“Bravo. Come ti chiami?”
“Almo,” risponde al suo posto lo spilungone che appare subito dietro.
“E quanti anni hai?” gli chiede l’uomo in nero.
“Nove, quasi otto... Cioè, otto quasi nove,” balbetta Almo.
“È figlio del preside della scuola: il professor Marinelli; molto preparato e anche molto socialista, vero, Almetto?” s’inserisce di nuovo l’attendente con parole che sanno di rimprovero. Anzi, lì, sul retro del fienile immerso nell’oscurità, sanno di minaccia.
L’uomo in nero sente la paura del bambino. Allora si china, gli sorride e porta due dita dolcissime sulla sua fronte.
“Be’, che c’è di male? Diglielo, ragazzo. Son stato socialista anch’io. E poi tu non sei più figlio di tuo padre. Da oggi tu sei figlio mio. Vero, Almo? Tu sei figlio di Benito Mussolini.”
“Sissignore.”
“Bene, adesso vai.”
Sente le gambe che gli tremano. Gira l’angolo e si ferma di nuovo. Pochi metri più in là, vede Orlando Silvestrin. Accasciato su un tronco, il soldato si sta riempiendo le tasche di sassi e i suoi occhi spiritati oscillano furtivi da una parte e dall’altra come se temesse di venir sorpreso mentre ruba monete d’oro.
Da lì, Almo può ancora sentire le voci dell’uomo in nero e dello spilungone, all’anagrafe Augusto Calore.
“Che ne facciamo di Silvestrin? Vorrebbe seguirvi stanotte stessa a Firenze, per il comizio di domani.”
“Dagli dei soldi e portalo a casa. La prossima volta, però, trovamene un altro.”
“Sissignore.”
“Più matto ancora, se possibile.”
“Ah, quelli in paese non mancano.”
“Quanti erano stasera? Li hai contati?”
“Esattamente il triplo di quattro mesi fa.”
“Ci siamo, Augusto. Sì, ci siamo.”
“Quanto manca ancora?” sbuffa Almo che, camminando, tiene una mano aggrappata al fianco di Marino.
“Mi vuoi lasciare?” si ferma l’altro sudato e stizzito. “Già devo trascinare la bicicletta, ci manchi pure tu.”
“E se poi mi perdo e non ti trovo più? Vai troppo veloce, Mari,” dice con la testa bassa senza mollare la presa.
“Un chiodo; è stata una merda di chiodo,” sibila Marino continuando a tastare il copertone forato della ruota anteriore. “Se non siamo a casa fra mezz’ora, la mamma chiama i carabinieri. E noi siamo morti.”
“Dio bono, Mari, cos’è?” Almo si nasconde dietro a Marino.
Poco più avanti, come un miraggio creato dalle mani complici delle tenebre e della nebbia, vedono l’ombra di una gigantesca massa informe che si muove appena al centro della strada sterrata.
“Sembra un cavallo,” Marino molla la bicicletta e avanza lentamente.
La bestia tende in modo impercettibile gli zoccoli per l’ultima volta.
“È il ronzino del conte Morosini,” dice Marino che l’ha riconosciuto dal manto bianco, di un candore ancora lucentissimo, nonostante la copiosa colata del sangue.
Almo si piega per accarezzarlo sotto gli occhi sbarrati.
“Guarda, Mari! Guarda quanti buchi ha sul collo.”
“Gli hanno sparato.”
“E chi è stato?”
“Gli stessi che c’hanno forato la bicicletta; che mettono i chiodi nelle strade per bucare i trattori e il veleno nelle stalle e nei raccolti: i socialisti.”
Irrompono delle grida in lontananza, oltre la sponda destra dell’Adige; una fusione di muggiti, nitriti, lamenti di donne e bestemmie dei vecchi. Poi una vampata di fuoco, il rumore sordo di qualcosa che è esploso, e l’ascesa del fumo che soffoca tutto.
“Dunque: il ronzino, di sicuro il granaio, e la casa del fattore; e poi sì, diciamo anche tutta la scuderia e almeno metà delle stalle,” Marino guarda l’orizzonte bruciare e sorride divertito. “E bravo il conte Morosini. Ben ti sta.”
“Ma sono stati i suoi contadini a farlo?” chiede Almo.
“I rossi sono stati. Devi chiamarli così. Contadini, operai, padroni; quando diventano rossi non si distinguono più.”
“Ma non possono essere stati loro. Voglio dire: i contadini del conte. La settimana scorsa avevano fatto pace e lo sciopero era finito. Si son messi tutti insieme in piazza, il conte, sua moglie, i contadini e pure i figli, a bere, a mangiare, a far festa. C’ero anch’io, sai? Mi ha portato la mamma.”
“La pace l’ha fatta con i bianchi, non con i rossi,” ribatte Marino che torna indietro per riprendere la bicicletta.
“I bianchi?” lo rincorre Almo. “E chi sono ’sti bianchi adesso?”
“Sono quelli della fattoria che rispondono al prete; Morosini ha pensato di dare un piatto di minestra in più a quelli e di tagliar fuori i rossi. Che in cambio gli han servito l’arrosto, al coglione.”
È IL FIGLIO DEL PRESIDE, MOLTO PREPARATO E ANCHE MOLTO SOCIALISTA, VERO, ALMETTO?
“No, Marino, aspetta un attimo,” reagisce il ragazzino che avrebbe dovuto rompere il naso che gli piscia in bocca allo spilungone che s’è permesso di chiamarlo Almetto. “E tu che ne sai che non è stato Silvestrin o quelli che stavano al fienile?”
“Loro non c’entrano, Almo.”
“Guarda che l’ho visto, l’Orlando, e anche due tre spaventapasseri che battevano le mani stasera; sotto l’argine, con i fucili, a prender la mira su quelli che passavano per strada.”
“Ma non dire cazzate! Orlando spara alle papere, non ai cavalli. E lo fa perché non ha da mangiare.”
“Orlando è matto, Mari. E lo era anche prima di partire per la guerra. Lo sanno tutti in paese.”
“Lascialo stare, Orlando. Tu non sai di che parli, Almetto.”
ALMETTO...
Almo esplode.
“Anche la moglie l’ha lasciato perché la batteva e le ha rotto i denti con il calcio del fucile una volta, e un’altra le ha infilato una bottiglia su per le gambe e l’ha portata in mezzo al cortile e le diceva: ‘Devi abbaiare, devi abbaiare!’” gli vien la tosse da quanto urla.
“Finiscila!” Marino colpisce il manubrio della bicicletta con un pugno. “Pulisciti la bocca quando parli di Orlando e di quelli come lui. Ha difeso la Patria, capisci? E la Patria è tuo padre. La Patria è tua madre. La Patria non sono le papere, non è la puttana della moglie di Silvestrin, la Patria non è il conte Morosini e non è il chiodo che ha bucato la nostra bicicletta. La Patria è tuo padre e tua madre.”
“Marino, io...”
“Se dici ancora una cosa, una cosa soltanto, ti mollo qui.”
Almo tace. Trattiene lacrime di rabbia. Cammina dietro a Marino. È tornata la quiete. Ma non la mano aggrappata al maglione del fratello.
Adesso vedono la vetta aguzza del campanile e la luce soffusa delle case, mentre il vento sparge sulla piazza una sottile coltre di fumo, rubata all’incendio.
“Io non lo farei,” biascica Almo. Come se le parole, dopo un tormentato ragionamento che doveva nascere e morire nel più assoluto silenzio, gli fossero uscite per distrazione.
“Cosa?” gli chiede con pacatezza Marino.
Sono arrivati. Almo guarda la palazzina dove abitano.
“Metti che un giorno tu diventi matto e vai per fare del male a mamma e papà...” cerca il coraggio e tiene la testa bassa.
“E allora?” Marino invece lo fissa.
“...Per difenderli, io non ti sparerei mai.”
Almo alza gli occhi. Guarda il fratello. Gli sorride.
Direbbe il prete bianco o rosso o nero, ché, con tutti quei colori, il ragazzino non ci capisce più nulla: Scambiatevi un segno di pace.
Anche Marino sorride.
“Io invece sì.”