“È morto.”
Non usa giri di parole Gino Cescon.
Si ferma fuori dal pronto soccorso, accende una sigaretta, poi li raggiunge al centro del chiostro, sotto la magnolia secolare.
“Come... è morto?” Cosimo non ci crede. Anche le lacrime che gli scendono sembrano più il prodotto di un’involontaria reazione nervosa che di un dolore consapevole.
“Sì, è morto,” ripete il gigante buono. Si siede sulla neve; infila la testa tra le mani. E comincia a singhiozzare.
Ulisse ha la bocca aperta. Guarda Almo. Fai qualcosa tu.
Marinelli si avvicina al gigante; lì per terra, sembra una scultura di ghiaccio riuscita male, l’avanzo di un pupazzo di neve senza più viso né forme.
Si siede accanto a lui; aspetta che il suo pianto raggiunga l’acuto dei lamenti. Gli mette una mano sulla spalla.
“Cos’è successo ad Angelino?” gli chiede sottovoce.
“I carabinieri dicono che è stato un incidente; stava venendo al cimitero e una macchina l’ha preso sotto,” risponde annaspando.
“Chi è stato?” continua a interrogarlo lentamente, con dolcezza.
“Non lo sanno.”
“E dov’è che l’hanno investito?”
“Nell’ultimo tornante della strada dei Colli, giù da viale della Rimembranza; praticamente era già in città, a cinque minuti da noi,” le lacrime gli rompono di nuovo la voce.
“L’hai visto?”
Gino esita un istante. Poi gli fa un cenno d’assenso con il capo. Respira sempre più convulsamente; adesso sembra più inorridito che disperato.
“Gino, te l’hanno fatto vedere?” gli chiede di nuovo.
“Non volevano, ma ci sono riuscito lo stesso... per un attimo. Poi mi hanno buttato fuori,” risponde.
“Il viso com’era?” lo aiuta.
“Sfondato,” balbetta.
Almo guarda Cosimo che guarda Ulisse.
Marinelli si alza d’impeto e va dentro.
“Voglio vederlo,” dice all’infermiere dietro la guardiola. Quello manco gli risponde. Fa un cenno al piantone fuori dall’ambulatorio.
“Non può entrare nessuno,” il carabiniere gli sbarra il passo.
“Cos’è? Vi serve più tempo?” Almo lo affronta a muso duro.
“Lei deve stare fuori,” gli afferra il gomito per farlo tornare indietro.
“Non mi toccare,” si divincola bruscamente.
“Maresciallo!” chiama il carabiniere.
“Che gli state facendo? Provate a fargli sparire un po’ di lividi?” Almo gli ringhia addosso.
“Maresciallo!” la guardia non sa più come fare.
“Perché prima l’hanno preso sotto; e poi l’hanno ammazzato di botte. È andata così, vero?” gli urla in faccia.
“Chi è lei? Che cosa vuole?” il maresciallo Aricò, poco più di un paracarro calvo e olivastro, appena sradicato da Messina, esce dallo stanzino dei medici.
“Solo che mi fai vedere il mio amico,” gli risponde senza paura.
“Non si può.”
“E perché?”
“Perché l’ho deciso io.”
“E io decido che tu non decidi un cazzo.”
“Vuoi venire in caserma con me, orecchiette belle?” prima si sincera che altri due carabinieri gli siano alle spalle, poi avanza minaccioso.
Il problema è che, nello stesso momento, dietro ad Almo compaiono Ulisse, Cosimo e soprattutto quel bestione di Gino Cescon. Gli sono passate le lacrime e adesso ha una gran voglia di farle versare a qualcun altro.
“Fermi, buoni...” non si sa da dove sia saltato fuori, da quanto fosse lì, ma si è appena messo in mezzo il ragazzo con la cicatrice.
Subito dietro, c’è Ettore Rocca, un ragazzo di vent’anni, vestito tutto di nero, con le spalle larghe e il portamento da gerarca. Anzi, vista la zazzera bionda e la pelle bianchissima, sembra venuto fuori dalla gioventù hitleriana.
“È tutto a posto,” Rocca sorride verso il maresciallo. “Cerchi di capire; sono sconvolti. Erano molto amici di Montato.”
Il ragazzo con la cicatrice sussurra qualcosa all’orecchio di Almo. Lo porta fuori. Cescon, Migliorini e Ferrigo li seguono, continuando a tenere incollati gli occhi cagneschi sui carabinieri.
“Però, Rocca, così non va bene,” gli dice Aricò con un ghigno infastidito.
“A cosa si riferisce, maresciallo?” gli chiede con affettata gentilezza.
“Non è che venite qui voi a mettervi in mezzo; ad accompagnar fuori i mariuoli, i provocatori; sappiamo noi come comportarci, cosa fare con quella gente là...”
“Volevamo solo aiutarla,” Rocca sforza l’ultimo sorriso. Poi si volge per uscire.
“Non me ne fotte un cazzo se quello è il fratello del Marinelli,” gli dice.
Ettore Rocca si ferma. Torna indietro. Va talmente vicino al maresciallo che l’infermiere in guardiola già rimpiange il tête-à-tête di Almo con il piantone.
“E invece te ne fotte. Te ne deve fottere, eccome,” gli dice. “E lo sai perché?”
L’altro impallidisce, deglutisce. Prova a reggere l’incandescenza di quegli occhi grigi. No, non ce la fa. Perché lì dentro ha visto la sua villetta incendiata, il figlio che torna a casa con un labbro spaccato e la gatta Gertrude, che gli scalda sempre i piedi quando stacca dalla caserma, impiccata alle sbarre del treno.
“Lo sai perché?” gli grida in faccia, umiliandolo davanti a tutti.
“Perché?” è costretto a chiedergli tremante.
“Perché l’ho deciso io.” Non è ancora soddisfatto. “E io decido sempre bene, vero, maresciallo?”
Non risponde. Chiude addirittura gli occhi.
“Rispondimi!” gli sbraita talmente addosso da spruzzargli in faccia pezzi di saliva. “Io decido bene?”
“Sì,” risponde sottovoce.
“Sì, cosa?” lo incalza come un ossesso.
“Sissignore.”
*
Dal finestrino, guarda la casa immersa nel silenzio. In cielo sono poche le stelle che resistono ai bagliori del mattino. Due ore, anche meno, all’alba.
“Ma quanto ci mette?” sbadiglia il ragazzo con la cicatrice.
Passa un carro del Comune pieno di lastre di ghiaccio e secchi zeppi di neve. Stanno provando a liberare un poco le strade di Sant’Urbano e le mulattiere sugli argini.
Chiude gli occhi e s’immagina i corpi sotto le coperte. Gli odori. Quello dell’alloro per disintossicare le stufe; l’odore di borotalco nella stanza della madre. L’odore di calze, di gambe da femmina, perché quello è il più inspiegabile e il più intenso, una via di mezzo tra il miele e il ragù d’anitra, che di sicuro aleggerà nella camera delle ragazze.
“Eccolo,” dice il ragazzo con la cicatrice, guardando dallo specchietto retrovisore.
Ettore Rocca entra in macchina.
“Purtroppo, è come dicevi tu,” si rivolge subito all’ombra che fuma nel sedile posteriore.
“E cioè?”
“L’hanno ammazzato i nostri,” gli dice Rocca.
“Il motivo?”
“Ufficialmente per dare una lezione a un comunista che faceva circolare un po’ di volantini alla SAFFA e in un paio di altre fabbriche tra Saletto e Montagnana.”
“Volevano colpire me, vero?”
“Diciamo che hanno voluto avvertirti,” Ettore cerca i suoi occhi nel buio. “Il comizio che devi tenere stasera è il tuo ritorno ufficiale da queste parti. Il primo passo verso la segreteria. E Baseggio e Calore se la fanno addosso.”
“Sanno che sono finiti se tu diventi il capo,” s’inserisce il ragazzo con la cicatrice.
“Non solo,” puntualizza Rocca. “Sanno che la prima cosa che faresti sarebbe scoperchiare tutte le loro porcherie.”
“Ti risulta che mirassero ad Almo?” chiede l’ombra senza emozione.
“No, no,” lo rassicura Ettore alzando le mani. “Sono andati a colpo sicuro. Volevano Angelino Montato. Per due motivi. Primo: era poverissimo, praticamente senza famiglia. Suo padre è morto dieci anni fa, la madre è inferma e non ci sta più con la testa. Fuori dalla trattoria dove serviva ai tavoli, non lo conosceva nessuno.”
“Vuoi dire che del gruppo di Almo era il migliore?” lo interroga il ragazzo con la cicatrice.
“Il morto migliore. Quello che crea meno problemi, che fa meno rumore.”
“Il secondo motivo?” chiede l’ombra da dietro.
“Angelino era poliomielitico; camminava con una gamba sola e pesava sì e no quaranta chili...” per la prima volta, nella sua voce, c’è uno strisciare di pietà, rabbia e vergogna.
“Pensi che il prossimo potrebbe essere Almo?”
Ettore Rocca esita. Tira mezzo sospiro.
“È il tuo punto debole. Hanno la scusa per colpirti.”
“Non mi hai risposto,” aumenta il tono di voce.
“Sì, Almo potrebbe essere il prossimo.”
“Cosa vuoi fare?” è il ragazzo con la cicatrice adesso a reclamare gli occhi dell’ombra.
“Annulliamo il comizio di stasera,” risponde secco.
“Però, scusami,” sbotta Rocca. “Non faresti prima a dire a tuo fratello di piantarla di fare il comunista?”
L’ombra viene fuori dall’ombra. Marino si tende in avanti.
“Annulliamo il comizio di stasera, Ettore,” ripete e scandisce fissandolo da vicino.
“Come vuoi,” gli risponde riluttante.
“Chi c’era in quella macchina?” gli chiede Marino.
“Baseggio; Cusin, uno di Lendinara...”
“Sì, ho capito,” gli torna in mente il lardoso ragazzo che l’aveva accompagnato dentro al Pedrocchi nel suo primo incontro con Ferdi Baseggio. “E poi?”
“Uno di Calore; ma non sono ancora riuscito a capire chi sia,” conclude Rocca.
“La casa dei miei va sorvegliata tutte le notti per almeno un mese,” Marino torna a sparire nel buio e nel sedile.
“Va bene, organizzo io,” dice Ettore.
“Tu devi star dietro a mio fratello,” Marino si rivolge al ragazzo con la cicatrice.
“Sì,” ubbidisce. Ma si vede dal broncio che è deluso per le sue scelte così prudenti da sconfinare nel vigliacco.
“Quanti anni ha Cusin?” Marino chiede a Ettore.
“Una ventina, penso. Perché?”
“E Ferdi Baseggio? Non ha un fratello anche lui?”
“Sì,” Rocca non capisce e cerca aiuto nel viso del ragazzo con la cicatrice.
“Età?” lo incalza.
“La tua, Mari. Forse uno, due anni in più. Venticinque,” gli risponde il ragazzo con la cicatrice.
“Molto bene. Adesso dormiamo un po’.”
“Ti riportiamo a Treviso?” gli chiede Ettore.
“E perché?” si è già disteso e ha chiuso gli occhi. “Stasera, ho un comizio da tenere qui. Anzi, due.”