Sgelo

Aprile 1937

Respira la primavera ancora nascosta dietro una pioggia leggera, seduto al Caffè dei Giardini del Castello.

Letizia gli è vicino e anche quel giorno, dopo averlo staccato a forza dalla segreteria, gli chiede: “Novità?”

Marino le fa no con la testa. Ma è un no di speranza e non di inganno, di una vigilia che, per quanto lunga, è sicura di finire dentro la festa.

E lui, in attesa della festa, si gode ogni cosa; guarda le strane nuove moto degli arricchiti, le moto in doppiopetto, le chiama lui, per quegli alettoni pesanti che sporgono dal manubrio; e le gonne delle ragazze, sì, anche quella di Letizia, che si son fatte più corte, come clessidre attillate, e d’un colore spudoratamente più acceso. E anche l’aria s’accende di un odore spudorato e intenso, un misto di benzina, cipria e gardenie che Marino vorrebbe raccogliere in un’essenza e metterla via dentro una bottiglietta da consegnare ai posteri che visiteranno il Museo del Fascismo: questo è il profumo, sì, questo è il profumo della Rivoluzione. Potenza della creazione umana, amore per la bellezza delle donne, rispetto per la natura. Una trinità molto più forte di Dio, Patria e Famiglia, che è robaccia: compromesso vaticano dove basta che conti fino a dieci e dal nascondino vien subito fuori lo Spirito Santo prima ancora che ti giri a cercarlo.

Ma oggi non ha proprio voglia di arrovellarsi, di litigare con i suoi pensieri, tanto più che quando comincia a maledire i vaticani che lui pensa e pronuncia sempre scivolando sui vati e marcando con sprezzo sui cani, il passo è breve; finisce inevitabilmente per imprecare contro i nobili, gli aristopratici, come li chiama lui, ché quelli son nati pratici a leccar il culo di chi guida il carro vittorioso pur di metterci sopra e al sicuro il loro.

No, Marino, no, almeno ’sta settimana sorridi quando ti parlano dei Savoia, china il capo per una volta, ascolta Letizia e confonditi con i sospiri sognanti delle comari che, dinanzi alla foto del pargoletto reale appena nato, dicono: Tutto suo padre e con il nasino della mamma, quant’è bello il figlio di Madama Dorè, quant’è caruccio il principino Vittorino Emanuelino.

E guai a rider delle battute che si fanno in certe osterie, in certe bettole vicino alle fabbriche, degli oltraggi da bocche indegne e sudice, da bocche certamente comuniste, che con le ditaccia che san di cabernet e martello, sul santino del Fantolino Re, fanno un giro intorno alla testolina e dicono: Però, che tonda; c’ha una crapetta tonda tonda che viene un sospetto: non è che alla Regina Madre c’ha dato il colpo fatale e natale il Benitazzo?

Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina, quando saremo insieme a te, noi canteremo Viva il Duce e viva il Re, e allora viva la faccetta nera da scimmietta in fasce, viva il figlio del Re, perché si sta avvicinando, adesso è a quattro metri da Marino il ragazzo con la cicatrice, e nel suo incedere silenzioso e volutamente rallentato c’è tutto il piacere teatrante di chi gode a trattenere ancora un poco la buona notizia tanto attesa, di chi ha l’onore di portare fuori dalla pioggia la primavera, di trascinare la vigilia dentro la festa.

“Ha firmato?” gli chiede Marino.

L’amico gli sorride; poi annuisce.

“Dio ti ringrazio,” si distende sullo schienale Letizia e non si fa vedere ma le si lastricano gli occhi di lacrime perché solo lei sa quanto sia stata dura stare accanto a lui durante quell’anno e mezzo; solo lei sa quanto abbiano rischiato di cedere, ogni giorno, ogni maledetto giorno, la salute di Marino e del loro rapporto.

“È già arrivata la notifica in sezione?” chiede Marino e vorrebbe fare ancora domande, altre domande inutili per prolungare il tempo certo della sua liberazione, della sua felicità; sì, vorrebbe stare ancora lì, in quel caffè, per ricordarsi tutto, ogni cosa, e con quelle stupide domande aggiungere altre cose ancora, altri ricordi ancora, così un giorno, a Letizia, ai loro figli, e perché no, anche a lui, anche ad Almo, potrà dire: E quando mi hanno detto che era finita, son passate tre studentesse e cantavano la Bohème, e quando mi hanno detto che l’atto era arrivato, dal bar, da dentro, ho sentito un applauso per due che si erano sposati, o forse no, per uno che s’era laureato, aspetta, fammi pensare, vuoi vedere che erano dei ragazzi che battevano le mani alle studentesse che avevano appena finito di cantare Quando vien lo sgelo il primo sole è mio, il primo bacio dell’aprile è il mio.

“È già in ufficio? Sul mio tavolo?” insiste.

“Sì,” risponde il ragazzo con la cicatrice. Ma non gli sorride più e rimane a guardarlo.

Con due occhi che lui sa già di non voler ricordare.

*

“Appunto per il Casellario Politico Centrale, Modello 840, Protocollo numero 23185, Confino politico punto, Occasione nascita Sua Altezza Reale il principe Vittorio Emanuele, Sua Eccellenza Capo Governo dispone proscioglimento condizionale seguenti confinati; Marinelli Almo fu Carlo, Roma, li 4/4/1937. XV.”

Tiene il dispaccio tra le mani, lo legge di nuovo e dalla sedia in velluto verde allunga le gambe fino a intrecciarle sopra la scrivania.

Come il giorno dell’arresto, come la notte in cui ha deciso per il confino che a un certo punto non ha retto e s’è assopito, vorrebbe dormire ancora, adesso, ma dormire sul serio perché da quando lui è partito ha fatto solo incubi e veglie spicciole e tormentate.

Chiude gli occhi e pensa a che musica mettere, La canzone della vittoria di Aldo Visconti, o forse Wagner o Verdi, no, non la Pavane pour une infante défunte di Ravel, ché il bambino non è morto, il bambino ce l’ha fatta e sta per tornare.

Allora si alza e apre la finestra e sullo scalino del numero 16 di via della Madonna adesso c’è una contadina stanca che ha lasciato in mezzo ai ciottoli un carretto pieno di radici e topinambur, e in fondo ci sono altre donne con cappelli a rete e a fiori, che visti da là sembrano trappole dove i colombi del Duomo si sono incastrati, e gli arriva un vociare dai cortili, un vociare di bimbi, dal campiello dietro il Cinema Cristallo, che sono i figli delle puttane che là tengono camera, i figli degli NN, i bastardelli a cui i preti hanno dato nomi ridicoli di penitenze, di riscatto dal peccato, Diotallevi e Diotiguardi, più che misericordia la riaffermazione d’un marchio d’infamia.

Ma di nuovo l’odio si scioglie, la rabbia affiora e subito si sgonfia, perché pensa agli orfani mollati nei sagrati e negli androni degli ospedali, ai lattanti sperduti a cui le suore oggi daranno il nome di Clemente, Clemenza o Clementina, a futura memoria della bontà del Re che, divenuto padre, ha chiesto a Benito di concedere la grazia ai briganti confinati.

Poi entra Ettore Rocca e gli lascia un’altra busta sulla scrivania, gli dice solo: “Meglio così, adesso siamo più liberi,” e va via.

E Marino ci mette un po’ a spostarsi dalla finestra per andarla ad aprire, sa già di che si tratta, perché dal Castello alla segreteria il ragazzo con la cicatrice l’ha preparato, gli ha detto tutto, e allora sorride, anzi ride di gusto, e addirittura alza una mano per salutare la contadina che lo ricambia con un sorriso sdentato, le chiede: “Un aiuto, signora?” e lei gli risponde no con la testa, si alza e se ne va con il carretto, ma lui ride ancora, e pensa che sembra fatto apposta, che il giorno in cui l’atto di clemenza libera Almo a lui invece giunga quello di condanna, e allora Marino prende la busta ma torna alla finestra e si mette in ascolto perché adesso il vociare dai cortili lascia spazio a quello dei circoli moderati e delle ville moderate, alle lingue triforcute degli anfratti borghesi che se la ridono. “Ben gli sta, al coglione: sono Marino Marinelli, duro e incorruttibile, non guardo in faccia nessuno io; ho mandato al confino mio fratello, figuratevi cosa posso fare a voi. E ora è meglio che ci vada lui a nascondersi in Sardegna.”

Eccola la terra che gli aveva prospettato Massimo Valerio. Eccolo, il fango. Estrae il foglio, legge:

“Con provvedimento a effetto immediato, il Partito Fascista espelle da ogni carica e dal tesseramento il segretario di sezione Marinelli Marino, in quanto sedizioso, violento, millantatore, e indisposto a ogni adeguamento alla disciplina e alle norme del partito che, invano, l’aveva già richiamato in più circostanze; si allega di seguito documentazione.”

Marino si gira, guarda la sedia, il grammofono, lo specchio, il cappotto sull’attaccapanni. Deve portarli subito via. È questa la sua unica preoccupazione.

Bussano di nuovo alla porta. Entra Ercole Ferraretto. Ha in mano qualcosa avvolto da carta da pane.

“È per voi, segretario,” gli mette tutto sul tavolo.

“Grazie, Ercole. Ma non mi chiamare più così. Non sono più il vostro segretario.”

“Vi aspetto fuori, segretario,” gira e sbatte i tacchi come un soldato.

Marino sente subito il profumo di topinambur diffondersi per tutta la stanza. L’ha portato quella contadina.

Il giorno delle sorprese. Spoglia il fagotto.

Il suo dolce prediletto. Il bussolà. Lo guarda interdetto.

La vendetta servita tiepida oppure qualcosa di caldo molto simile al grazie di una madre che ha capito.

C’è un biglietto, steso sullo zucchero.

Mangia, amore.