Marmaglia che trama
Maggio 1928
Entra nella merceria e con lui un po’ di sole. Le vede dietro il bancone di legno scuro. Stessa posizione di sempre.
Emma, la più vecchia, capelli bianchi come alabastro raccolti in uno chignon, è la prima che l’occhio del cliente incontra non appena suona la campanella sopra l’ingresso. È lei che dice, Buongiorno. Lo dice con il tono soffuso e un po’ masticato, a metà tra dolcezza e abitudine.
Ad Anna, invece, la figlia di Emma, che ha i capelli bianchi pure lei ma lasciati andare fin oltre le spalle, è affidato il compito di tendersi leggermente in avanti e chiedere, Desidera?
Infine, ultima verso l’interno, la più giovane: Ginevra, figlia di Anna e nipote di Emma, che ha una selva di ricci rossi e due gambe che i pochi che le hanno viste uscire fuori da quel sacramento di bancone giurano essere degne del cinematografo. E dopo il Buongiorno e il Desidera, quelle gambe divine che come Dio non si vedono devono far salire tutta la bellezza al sorriso di porcellana che quando si schiude e colpisce il cliente, A noi, direbbe il BeniToro. Anzi, a loro. Nel senso che i maschi di ogni età, lì dentro, si tramutano tutti in sarti previdenti, in casalinghe che han sempre da rammendare e allora, Mi faccia vedere quello scampolo e anche quella tovaglia; Ma sì, compriamolo un gomitolo e anche l’astuccio dei ferri e magari si potrebbe stendere quella stoffa di velluto blu? Peccato che tutti i tentativi e le lire spese per far uscire Ginevra dal bancone cintura di castità abbiano come unico effetto quello di far muovere la vecchia.
“LETRETREVITROTTERELLANOALNUMEROTRE.” Da quando è bambino, Almo sente e ripete quello scioglilingua. Le tre donne Trevi, che lavorano e abitano al numero 3 della piazza Maggiore, sono davvero il numero magico della città. Magico o diabolico, poi, non si saprebbe dire.
A sentire i fasci più vecchi, il Tre nella cabala della famiglia Trevi e degli ebrei è tutt’altro che una cifra perfetta; perché, tanto per fare un esempio, a tre anni tutti i pargoletti giudei vengono portati dal chirurgo con papalina in testa e coltellaccio in mano per scappellare lo scampolo procreante; chi l’ha subìto, il taglione, racconta di un tale dolore da maledire il Cielo che non t’ha fatto femmina.
Sarebbe proprio questo il motivo per cui quel gran pezzo di telaio della Ginevra un fidanzato ancora non ce l’ha. Chi si vuol far avanti, prima è meglio che si guardi in mezzo alle gambe. Ché se il filamento scrotale non s’è staccato da solo, quella, nel primo incontro intimo, ferma gli impeti e i baci, prende ago, forbice e filo, che proprio non le mancano, e zac, per una settimana puoi cantare da solista nel coro.
E mentre chiede ad Anna due rotelle di normalissimo filo bianco per cucire, Almo sente una strana eccitazione montargli dentro, perché se la immagina tutta nuda con gli arnesi in mano e lui, più nudo ancora di lei che magari un po’ di pizzo se l’è tenuto nelle parti intime, steso sul bancone che le fa vedere il coso e le grida, T’ho fregata, il filo non ce l’ho, son nato più ebreo io di voi, e allora se la monta e a quella i capelli vengono più bianchi della nonna da quanto la fa godere.
“Lo sai che abbiamo visto Marino?” la voce di Emma lo sveglia dall’eccitazione.
“Davvero?” è abile, in un attimo, a disfarsi delle fantasie e a fingersi compassato.
“Oh sì, siamo andati a trovare Arturo, nostro zio, che ha una filanda vicino a Treviso. C’era un comizio: il podestà, un altro politico che è in parlamento e tuo fratello vicino a loro. Ha parlato, sai? E come ha parlato. Erano tutti incantati ad ascoltarlo. Anche noi.”
“Mi fa piacere,” prova a placarla Almo, che nello sguardo di Ginevra ha indovinato un piacere, un palpito sognante, rivolto a Marino.
“Speriamo che torni qui da noi,” si inserisce Anna, “a mettere un po’ d’ordine.”
“Basta che non si metta lui in ordine, al mio posto, lì, nudo e steso sul bancone,” pensa Almo. Cerca di trovare conforto almeno nel fatto che Marino non è circonciso, ché allora prima di possedere Capelli Rossi dovrebbe soffrire le pene dell’inferno, ma proprio non si ricorda se il dannato filo di carne gli sia rimasto attaccato oppure no.
“Mia figlia ha ragione,” continua Emma lanciando uno sguardo appena fuori dalla vetrina, come a sincerarsi che nessuno sia in ascolto, “ultimamente ci sono in giro troppi prepotenti.”
“E chi sono?”
“Gente di cui tuo fratello non andrebbe fiero,” gli risponde Anna, trasportata da un istinto subito redarguito dall’occhiataccia che le lancia Emma.
“Quanto vi devo?” chiede Almo, che persino nel viso solitamente immobile di Ginevra ha intuito un disagio crescente.
“Niente, caro; salutaci tanto Marino. Digli che siamo fiere della carriera che sta facendo,” Emma chiude l’arrotolo di carta, e nel consegnarlo ad Almo, gli sfiora un dito.
È una carezza anche la sua voce.
“Come sta il papà?”
*
La stradella che porta al tiro a segno corre parallela al cimitero.
E non piace a nessuno che un poveraccio che muore e vorrebbe farsi la sua indigestione d’eternità in santa pace, finisca con ciò che resta dei timpani assordato da quei matti che sparano tutto il giorno.
Sì, perché se durante la guerra di soldati perduti e pallottole volanti ce n’erano più che abbastanza nell’accorato immaginario collettivo, tanto da dissuadere i tiratori della domenica a fare i gradassi con i bersagli di cartone, adesso, con ’sta sbronza pesante del Mussolini, che nell’ultima comparsata ha incitato persino le donne a esercitarsi con lo schioppo e la schioppetta, perché nemmeno quando fanno l’amore con le gambe aperte sono tanto belle quanto incollate alla terra, mentre prendono la mira e si preparano a resistere all’urto, quello spiazzo di polvere e pietra è più frequentato delle balere.
E li mortacci veneti nostri sacramentano che è un piacere, visto che dall’alba al tramonto arrivano dentro le tombe i bum bum dei camerati, con degli scossoni ai crocifissi e ai vasi di fiori che più d’una volta Paciote Boraso, il custode, sordo dalla nascita, vedendo tutto quel sussultare, se l’è data a gambe gridando, Il terremoto, il terremoto! L’apocalisse, l’apocalisse!
“Oh, ma siamo sicuri che non c’è più nessuno?” gli domanda il diciottenne Ulisse Migliorini, ragioniere presso i feudatari Malanesi, e matricola all’università.
“Sì, stai tranquillo; è chiuso da mezz’ora,” gli risponde Almo, accelerando il passo.
Sono davanti al portone del tiro a segno, e il crepuscolo si stende sul mare aperto della campagna silenziando lo stridere delle cicale.
“Tu vai avanti; io mi fermo qui un attimo,” dice Almo.
Ulisse salta la catena in ferro che divide la stradella dalle mura esterne del cimitero.
Gino Cescon, il più grande dei rossi carbonari, che ha vent’anni, è già in attesa sul retro del camposanto.
Dietro di lui, Cosimo Ferrigo, che va e viene da Milano dove ha la residenza e il lavoro da commesso nel negozio di scarpe dello zio, e Angelino Montato, cameriere poliomielitico in una trattoria sui colli, tutti e due quindicenni come Marinelli.
“Almo?” chiede Gino a Ulisse.
“Arriva tra un momento,” gli risponde.
“Finita la riunione, si va tutti dall’Angelino a spazzolarci i resti,” Cosimo accende il sorriso e una sigaretta.
“Sì, però dovete venire per le dieci, non prima,” gli risponde Montato. “E non fate come l’altra volta che vi siete messi fuori in giardino a fare casino; la padrona s’è insospettita, voleva persino chiamare i carabinieri. Dovete passare dal retro, dalle cucine. Se no, mi mettete in difficoltà.”
“Dietro il cimitero, dietro le cucine... Sempre dietro dobbiamo stare,” Cosimo si stende sull’erba alta e pregna della pollinosa primavera.
“Porta pazienza,” Gino Cescon passa una mano unta di vernice tra le spalle di Angelino. “Questi c’hanno sempre fame.”
Non finisce la frase che odono il trillo di una campanella.
“Cos’è?” scatta in piedi Cosimo.
“L’avevo detto io che c’era ancora qualcuno al tiro a segno,” Ulisse si incolla al muro.
“State zitti,” li spegne con un gesto della mano Cescon.
Si raccolgono tutti dietro al capo, che mette fuori il collo furtivo dallo spigolo.
“Buh!” li spaventa Almo, irrompendo come un forsennato.
“Orecchione infame!” lo redarguisce Cosimo. “Mi hai fatto pure buttare la cicca!”
“Vi piace il mio allarme antifasci?”
“L’allarme?” Cescon strabuzza gli occhi e li porta di nuovo verso il portone del tiro a segno.
“L’idea m’è venuta nel negozio delle TreTrevi,” spiega Almo al gruppo. “Vedete? Ho fatto passare il filo tra la catena e l’ultimo paracarro; e l’ho collegato con quella campana che ho attaccato al cancello del tiro a segno. Così, se durante le nostre riunioni, arriva un fascio o un carabba, ci inciampano e il trillo c’avverte. Ho fatto una prova. E da come vi siete cagati addosso, mi sembra che funzioni.”
“Almo sei un genio,” Cescon lo battezza con un pugno chiuso in fronte.
“La campana l’ho fottuta dall’argenteria del principe Giovannini,” si tronfia il ragazzo.
“Dobbiamo distruggere i padroni con le loro stesse armi,” sentenzia Cosimo e torna a fumare pacioso.
“Genio due volte,” gli sorride Ulisse, sedendosi a terra all’indiana, insieme agli altri.
A rimanere in piedi sono i centottanta centimetri di Gino che, mentre mette una mano dentro il tascone posteriore dei calzoni corti zeppi d’inchiostro seccato, sembra diventare un gigante agli occhi trepidanti degli altri giovani rivoluzionari.
“Eccolo, fresco di stampa dalla tipografia Cescon,” Gino alza verso il cielo un libretto bianco.
“Il Manifesto! Il nostro Manifesto,” scatta in piedi Angelino, talmente entusiasta che non zoppica più.
“Fai vedere,” si illumina Ulisse, prendendo il libro dalle mani di Gino.
“Oh, fate piano: Marx e Engels sono ancora delicati,” s’allarma subito Cescon, vedendo il disordinato traffico di occhi e dita che scartabellano le pagine.
“È la copia campione?” chiede Cosimo.
Gino annuisce con il capoccione pieno di riccioli corvini.
“A quando il resto delle copie da distribuire?”
“È proprio per questo che v’ho convocati,” gli risponde schiarendosi la voce e invitando tutti, per un attimo, a lasciar perdere il Manifesto.
“È stato il mio babbo a farmi pensare. M’ha detto: ‘Oh, Gino, ma a che serve fare copie di ogni pagina? Chi ce l’ha il tempo oltre che l’istruzione per leggerlo?’”
“Vuol dire che non lo distribuiamo più nelle fabbriche e tra i contadini?” chiede già deluso Angelino.
“Certo che lo distribuiamo, ma a piccole dosi,” risponde Almo al posto del capo, ma guardando Cescon.
“Dici che mio padre ha ragione, Almo?” gli chiede Gino che ogni volta che si sente investito d’una decisione importante lo coinvolge subito.
“Sì, assolutamente. Ma ve li vedete voi gli operai della SAFFA o i braccianti delle fattorie qui intorno? Si rompono la schiena per dieci ore, tornano a casa e dopo aver mangiato gli avanzi dei figli e aver calmato le mogli che rompono i coglioni sui soldi che non ci sono mai, che fanno? Si mettono a leggere e pure con il lanternino perché devono risparmiare sulla luce elettrica.”
“A essere sinceri – e ve lo dice uno che c’ha la passione dentro – nemmeno io dopo aver fatto i conti dei Malanesi tutto il giorno e pure un giro sui libri dell’università la sera, mi ci metterei a leggerlo,” ammette Ulisse.
“Io quando torno dal ristorante mi butto sul letto ancora prima di entrare in casa,” rinforza Angelino.
Cosimo Ferrigo spegne la sigaretta e tira su con il naso, come sempre fa prima di dire una cosa seria.
“Quindi tu che faresti?” si rivolge direttamente ad Almo. “Porteresti una pagina alla volta? Che ne so, ogni settimana?”
“Anche meno di una pagina,” risponde, “dieci righe al massimo. Come un libro a episodi. Otteniamo due risultati così: tutti lo leggono e nessuno s’annoia.”
“E perché ‘nessuno s’annoia’?” lo interroga Ulisse.
“Perché questo è il modo in cui il popolo legge i romanzi. Fin dal secolo scorso. Nelle riviste, dove i capitoli escono uno alla volta. Di solito, ogni mese.”
“Mi piace; sì, mi piace,” s’entusiasma Gino Cescon. “Siamo tutti d’accordo, compagni?”
Le mani si alzano all’unisono.
“Scegliamo il primo episodio?” si agita subito Angelino.
“Un’idea già ce l’ho,” Gino si riprende il libro e va a pagina due. “Praticamente è l’inizio. Sentite un po’: ‘La borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche.’ Che ne dite?”
“Troppo difficile,” lo smorza Angelino. “Mia madre già a ‘feudali’ cerca il vocabolario che in casa manco c’è.”
“E questa?” continua Gino. “‘Non appena l’operaio ha smesso di essere sfruttato dal padrone, e ne ha ricevuto il misero pagamento in contanti, ecco piombare su di lui il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno e così via.’”
“Ma davvero sta scritto così?” Cosimo si alza e raggiunge Gino.
“Certo. Perché?”
“I fasci parlano nello stesso modo.”
“Che cazzo dici!” s’infervora il capo. “I fasci non parlano così.”
“Forse non adesso, ma un anno fa, tale e quale,” gli risponde serafico Ferrigo. “Perché non mettiamo Gramsci? Qualcosa dal suo ultimo discorso alla Camera... Vado a memoria, eh? Tipo: ‘La violenza sistematica del proletariato unito sconfiggerà la massoneria affaristica.’”
“Troppo complicata anche questa,” scuote la testa Angelino.
“E anche questa detta dai fasci,” aggiunge Ulisse.
“No, questa no!” s’arrabbia Ferrigo.
“Ma scusa, Cosimo,” s’inasprisce Gino Cescon, “non possiamo diffondere prima Gramsci di Marx. Con tutto il rispetto; prima il Vangelo e poi l’Enciclica. Prima il papa e poi il vescovo. Insisto: l’ultima che ho letto è la migliore.”
“Certo, certo,” prova a mitigar gli animi Almo. “Sono frasi bellissime, Gino. Però, mettono tutti contro tutti. Proviamo a pensarci: uno che già si sente povero, oppresso, umiliato, fatica di suo a reagire. E se a questo aggiungiamo che il mondo intorno, il padrone di casa, il panettiere e anche l’erbivendolo, son tutti lì, pronti a sbranarlo, quello si demoralizza ancora di più e si impicca alla trave più alta.”
Guardano d’istinto in fondo, a sinistra. Perché, parallelo al loro fermento clandestino, cento metri più in là, si stagliano le ombre crociate della morte clandestina.
Una decina di lapidi senza fiori; un rabbercio di pietre secche senza lacrime che solo la mano pietosa di Paciote Boraso, per nulla obbligato a occuparsi di quella vergogna sconsacrata, di quella marmaglia d’ossa suicide separata dagli scheletri perbene, ogni tanto ripulisce dalle robinie e dalle ortiche sciacalle.
E mentre il silenzio e le tenebre si stendono insieme in quella parte nascosta del cimitero, Almo e tutti gli altri vengono all’improvviso soverchiati da una pena infinita per quelli che, esclusi in vita, continuano a esserlo anche da morti, come la moglie di Orlando Silvestrin, che non sono nemmeno passati venti giorni da quando ha preso il fucile, se n’è andata nel pollaio e s’è sparata dentro quel che le rimaneva della bocca, visto che tutti i denti davanti le erano stati divelti dai pugni dell’amorevole marito.
In fondo se hanno scelto quel posto, proprio quel posto, per iniziare la rivoluzione un motivo ci sarà. Un motivo inconsapevole, certo, ché nessuno di loro, prima di quel momento, s’era accorto di aver accanto il tormento eterno e il riposo dannato dei suicidi. Diffondere, anzi, solo pensare di diffondere il Manifesto del Partito Comunista è una forma del tutto consapevole di suicidio.
Almo chiede il libro a Gino. Lo apre a botta sicura. Come se fossero stati gli spiriti a muover la sua mano.
“‘I borghesi e i padroni vogliono sconsacrare ogni cosa sacra,’” legge con tono profondo.
Si alza.
“Per essere il primo episodio, per me è perfetto. C’è questa cosa del ‘sacro’ che potrebbe avvicinare anche quelli che non saltano una messa. E purtroppo anche tra i proletari ce n’è un’infinità. Cosa ne pensate?”
Per la seconda volta le mani si alzano, ancor più convinte, simultaneamente. E per la seconda volta, nella sera immota, risuona la campana.
Gino Cescon mette appena fuori la testa.
“Almo, è per te.”
Ma no. Non è uno spirito.
Gli tremano le gambe, mentre lo raggiunge al centro della stradella.
“Che ci fai qui?” Almo finge un sorriso divertito. Ma anche la voce adesso trema.
“Che ci fai tu,” gli risponde secco il ragazzo con la cicatrice.
“Niente, sai, sono con una ragazza...” prova addirittura a simulare un arrossamento, un certo imbarazzo.
L’altro allunga una mano verso il suo viso. Stende il braccio al rallentatore. Potrebbe colpirlo. Come accarezzarlo. E, subito, da dietro il muro, spunta l’ombra smilza di Cosimo Ferrigo; a quello gli vien facile fare il coraggioso tanto poi se ne torna a Milano per un mese.
“E sarebbe quella?” il ragazzo con la cicatrice, consumata la trappola, appoggia la mano sulla spalla di Almo, costringendolo a girarsi.
“Sono con un po’ d’amici; non facevamo niente di male,” c’è già un inizio di supplica nell’ennesima bugia di Almo.
“Torna a casa!” gli ordina perentorio.
“Loro non c’entrano; sono stato io a portarli là dietro.”
“Sì, come no.”
“Ti prego; non glielo dire a Marino.”
“Vai a casa, Almo.”