Si sveglia di soprassalto, sudato come se ancora fosse bagnato dalla nebbia, e pensa a un distacco, così si chiama, quando ti si ferma il mangiare sullo stomaco, e sì, è possibile che gli sia successo visto che Giovanna gli ha fatto gli spaghetti con funghi e pancetta alle 2.30 del mattino. E invece tirandosi su dal letto della sua giovinezza, non si sente per niente appesantito, e non ha male neppure un po’ alla pancia o da quella parti, però sente che un distacco c’è stato e c’è ancora, ma è un distacco al contrario, difficile da spiegare anche a se stesso, perché si sente svuotato, ma la stanchezza non c’entra, e leggero, ma d’una leggerezza delle cose che sono state appena abbandonate. E sulle prime pensa a quelle strane premonizioni che colgono i genitori quando accade qualcosa ai figli, ma nel cellulare rimesso sotto carica ci sono solo messaggi di Katiuscia che, preoccupata e soprattutto incazzata per non aver ricevuto sue notizie, lo manda a farsi fottere.

E allora è chiaro che c’entrano i fantasmi, che c’entrano Almo e Marino, s’infila una camicia di lana a quadri, percorre il corridoio a piedi scalzi, ed è l’alba e nelle stanze c’è un silenzio con leggeri palpiti di corpi che stanno per essere scaricati dalle braccia molli del sonno, entra nella mansarda, dove sono raccolti i suoi giochi e i Big Jim dei suoi fratelli che adesso vivono lontani, e va fino in fondo a quel nido di scatole, armadi e valigie, e si raggomitola nel punto più basso in cui il tetto e il soffitto diventano una cosa sola.

Ha sempre saputo che suo padre li ha raccolti in quel punto, certo, ma ha volontariamente ritardato l’incontro con loro perché voleva sentirsi pronto, avere più informazioni, ed è possibile che in una parte della sua coscienza ci fosse la convinzione che i reperti di quel silenzio gli avrebbero parlato, gli avrebbero rivelato l’ultima verità e il nome di suo figlio, proprio alla fine, e cioè solo quando il ragazzo che non è più un ragazzo avesse dimostrato d’aver cercato, trovato, spolpato ogni traccia lasciata ovunque dagli spettri.

E invece il grammofono, la sedia, lo specchio non gli dicono nulla e lui accende la luce, e persino la pila elettrica dei Superdetective del Bosco dei 100 acri che appartiene a Silvia, la sua nipotina, perché magari c’è un cassetto, una nicchia segreta sotto il piatto del grammofono, o nella cornice dello specchio, e sim sala bim, il pomolo della sedia si svita e dall’interno del telaio salta fuori il cannocchiale d’una pergamena.

Ma il suo infierire sulle cose vecchie presto gli sembra solo un accanimento inutile per ciò che adesso non ha più fascino né mistero, ma solo fragilità e pena, pena della sopravvivenza di ogni materia che non serve a niente e a nessuno e che ha un valore infimo per lo sperduto mercatino di una domenica di provincia.

E però a un tratto qualcosa succede, perché ha sentito un rumore, lo storcersi d’uno zoccolo o di una gamba che nella penombra ha urtato un baule, e il ragazzo che non è più un ragazzo si gira e vede, prima dello stringersi a imbuto della mansarda, suo padre che lo guarda, e allora depone gli oggetti, appoggia la schiena al muro e volge gli occhi verso l’unica finestrella che dà sul bosco e gli dice, Scusa se ti ho svegliato.

È che non so perché, non so dirti perché, ma li ho avuti così vicini, così parte di me in questi ultimi tre giorni e adesso all’improvviso basta, mi si stanno schiodando di dosso, mi stanno lasciando e io non lo so, non lo so se questo è un buon segno, se vuol dire che sono pronto a diventare padre e a dare questo cazzo di nome a mio figlio, o se invece il loro lasciarmi significa che per quanto abbiano provato a parlarmi io non sono all’altezza d’ascoltarli, di seguirli, e che non lo sarò mai, nemmeno con chi da me sta per venire, io non lo so, papà, non lo so più, ma si ferma allo Scusa se ti ho svegliato e tutto il resto suo padre l’ha capito dal suo sospiro profondo e dagli occhi che fuggono dai suoi.

Aspetta a parlargli.

“Bello averti qui,” gli dice e anche Carlo si siede a terra.

E in quel momento suo figlio si chiede perché con tutte le sedie che ci sono, il letto e pure una panca, il padre abbia voluto sedersi come lui sul pavimento, ma subito dopo vede, sopra la testa di Carlo, un pensile e lì c’è il suo pallone da pallacanestro di quando era bambino e a destra, in basso, lo zaino Invicta di quando faceva il liceo, e la scatola aperta delle sue pagelle e delle foto dei suoi amori, e capisce, capisce che non è la prima volta che si mette lì e scopre solo adesso che anche suo padre s’è ritagliato il suo silenzio, lo spazio dove chiamarlo, per questo è bello averlo lì il suo ragazzo, no, non genericamente di nuovo e per una notte a casa, ma proprio lì, in quel preciso punto della mansarda, e così si sente per davvero un figlio ingrato e un figlio di merda perché lui non gli ha mai risposto, non ha fatto altrettanto, non ha mai sentito il bisogno di prendere degli oggetti che gli sono appartenuti per custodirli e frequentarli in un angolo del suo appartamento e allora come sempre accade quando si sente in colpa, quando si sente nudo di fronte a lui, prova ad aggredirlo per nascondersi, prova a sorprenderlo per scappare.

“Ho deciso. Si chiamerà Almo.”

Carlo fissa gli oggetti di Marino. Solo uno.

È dentro i suoi occhi azzurri la nicchia segreta, il pomolo che si svita, l’antica pergamena.

“Ti ho mai raccontato di come è arrivato qui?”