Marmaglia sguattera
Maggio 1934
Bussa alla porta, bussa piano e quattro volte come d’accordo, ma il corridoio sull’acqua ha una tal nostalgia di presenza umana che fa riecheggiare l’innocuo picchiettio manco i Mori avessero battuto la mezzanotte.
“Siamo sicuri che è la casa giusta?” gli chiede Cosimo sottovoce, visto che non apre nessuno.
Almo torna indietro, alza la testa verso la targa calcificata della calle: Rio Terà dei Assassini.
Altroché se è giusta.
Dai canali viene su un respiro di carogna, perché dall’altra parte della riva galleggia una massa informe che s’è impigliata tra la chiatta e la briccola.
“Un cane?” chiede Cosimo.
“O uno dei nostri che han fucilato,” gli risponde Almo. “Solo questo mese sono una ventina i compagni buttati in laguna come sassi.”
“Speriamo di no,” deglutisce inorridito Ferrigo.
“Soprattutto perché interverrebbero i carabinieri. E stanotte non è proprio il caso d’averli tra i coglioni,” aggiunge Marinelli.
Cosimo lo guarda esterrefatto. Non riesce ad abituarsi alla mutazione che nell’ultimo anno l’amico ha subìto.
Da quando Marino è diventato segretario, non c’è occasione in cui Almo non dimostri un cinismo, una spietatezza, un arido sarcasmo, da far accapponare la pelle.
E siccome Venezia è perfetta non solo per gli amanti che si lasciano ma anche per gli amici che si ritrovano, sta finalmente per chiederglielo: “Che ti succede?” Sta finalmente per sciogliersi: “Che cos’hai esattamente in testa, Almo?”
Ma subito s’ode una scalcagnata del catenaccio sul legno; il portoncino si apre appena. Giusto una fessura di luce.
“Dove?” chiede qualcuno dall’interno.
“Dai campi al mare,” risponde Almo.
“Chi?” insiste la voce dietro la porta.
“Chi soffre e spera,” dice Almo.
“Che ora fai?”
“L’ora della riscossa.”
“Com’è la bandiera? Basta tu; fai rispondere l’altro.”
“Rossa. E trionferà,” non si fa cogliere impreparato Cosimo.
“Entrate.”
Attraversano uno scantinato senza pavimento, illuminato appena dal fuocherello d’un lume messo a terra, che proietta sul muro le ombre di spuntoni, bottiglie vuote e paccottiglia marinara.
L’uomo, che possono vedere solo di spalle, li fa passare sotto un’arcata senza infissi e li scorta nell’altra stanza, tale e quale alla prima, forse un po’ più angusta, ma meglio illuminata. Da tre candele. Che è lo stesso numero degli uomini che li attendono, seduti su scalcinate cassette rovesciate del mercato del pesce.
“Compagni,” si alza il più vecchio dei tre, fendendo l’aria con il pugno chiuso.
È molto alto, con baffi rossicci e sopracciglia folte e spioventi come grondaie.
“Compagni,” li saluta Almo e tutti i pugni chiusi che si incrociano al centro, grazie al gioco di riflessi delle lampare, diventano sul soffitto una costellazione di tenebre.
“Il compagno Gino Cescon si scusa di non essere qui tra noi,” dice Cosimo prima di sedersi.
“Siamo noi che gli abbiamo detto di non venire,” fa l’uomo con i baffi.
“Possiamo sapere perché?” chiede Cosimo.
“No,” gli risponde il pacioccone che li ha accompagnati.
L’uomo con i baffi attacca a pulirsi le unghie delle mani enormi con una livella più sporca dei suoi polpastrelli.
“Quelli di Milano garantiscono su di voi,” dice guardando Cosimo, e dal ghigno non si capisce se sia una buona notizia oppure no.
“Non su tutti, però,” replica secco Almo, che esige una spiegazione sull’assenza di Cescon.
“Gino è un fratello,” gli sorride l’altro sincero. “Ma, in questo periodo, la polizia segreta gli ha fatto la punta. E noi non possiamo correre rischi. Non in questa fase.”
Fa un cenno al ragazzo che gli siede accanto; un tizio robusto, con pochi capelli e un pizzetto grigiastro.
“Tra due settimane, Hitler e Mussolini si troferanno qui vicino, sulla terraverma, a Villa Pisani,” dice con una cruccaggine sfacciata.
“Terraverma non è male; soprattutto dopo che c’avranno messo piede loro,” si inserisce Cosimo.
“Stai zitto!” gli ordina il botolo da dietro.
“Noi comunisti di Austria molto preoccupati da questa cosa,” continua il crucco. “Perché Mussolini e Hitler dicono che si trofano per economia, mercato, scambio tra nostri paesi. Ma non è fero. La ferità è che defono studiare modo, strachesia? Come dite foi?” cerca l’aiuto del compagno con i baffi.
“Strategia.”
“Sì, strategia per essere uniti contro comunità internazionale, dopo sanktion... Di’ loro, per fafore...”
“Sanzioni.”
“...Che di sicuro colpiranno tutti e due. Perché Hitler fuole annettere noi; Mussolini fuole prendere Etiopia.”
“Come entriamo?” lo chiede a bruciapelo, fissando il capobrigata baffuto. È un colpo a effetto che ad Almo riesce perfettamente.
Perché dopo una leggera esitazione, tutti i veneziani, anche il piantone scorbutico che li ha finora trattati da scolaretti, si danno una sbirciata soddisfatta. Sì, possono rivolgersi, perlomeno a lui, come a un complice fidato.
“Villa Pisani è ridotta male,” attacca il capo, deponendo a terra la livella. “Stanno provando a metterla a posto: una rinfrescata, qualche mobile nuovo, niente di che. Ma, quello che più c’interessa: una linea telefonica che non c’è mai stata,” guarda il terzo uomo seduto, fin lì in assoluto silenzio.
“Ci sto lavorando io a metterla su,” dice furtivo, e ha subito un brivido, una specie di tic nervoso: il viso viene come colpito da una scossa che gli fa strabuzzare gli occhi, infossare il collo e ritrarre le labbra all’altezza degli zigomi.
Una smorfia involontaria da clown che s’irradia per tutto il corpo, facendo tremare, per una frazione di secondo, la pancetta avvinazzata e le gambe rachitiche sulla cassetta sgabello.
“Il compagno ci sta informando su tutti i movimenti, i piani e i preparativi,” il baffone riprende subito la parola perché, in particolare dietro gli occhiali di Cosimo Ferrigo, ha notato una gran voglia di scoppiare a ridere.
“Questa è la mappa di Villa Pisani,” stende a terra un fogliaccio di carta dura, interamente diviso da grandi rettangoli disegnati con una certa precisione; Almo e Cosimo notano alcune lettere dentro ogni spazio.
“Mussolini e Hitler dovrebbero cenare nella Sala da Ballo; qui precisamente,” con la manona indica un rettangolo al centro della cartina. “Poi il Corvo tedesco dovrebbe ritirarsi nell’ala est, di qua, a sinistra; mentre il Nostro, inizialmente, doveva dormire dall’altra parte. Ma proprio stamattina, il compagno qui presente ci ha informati che Galeazzo Ciano, che si sta occupando personalmente di tutta l’organizzazione, ha dato disposizioni affinché il caro suocero dorma un po’ staccato, a Villa Cappello. Confermi, compagno?”
“Asservativo,” risponde d’impeto, quasi sull’attenti, con l’ennesima possessione di nervi che gli scombina la faccia.
Anche Almo, stavolta, fatica a mantenersi serio.
“Il posto scelto per Mussolini, se non sbaglio a leggere,” si concentra Almo sulla mappa. “È piuttosto distante dalla villa; questo cos’è?” indica uno spazio molto ampio, raffigurato per segni sghembi e disordinati, come un mare d’onde disegnato da un bambino.
“Il parco,” gli risponde il capo.
“Bisogna attraversarlo tutto per raggiungere Villa Cappello. Come mai l’hanno messo lì?”
“Paura di attentati,” se la ride il crucco rosso.
“Si chiamano così, in codice, le baldracche del Duce da nascondere lontano da occhi indiscreti,” aggiunge il veneziano Stalinaccio.
Ridono tutti, adesso; Almo e Cosimo più degli altri. Possono finalmente sfogare il grasso imboressamento provocato dal compagno elettricista fulminato dall’alta tensione.
“Il piano è questo,” il capo torna serio. “Il compagno qui presente, grazie ai lavori in villa a cui sta partecipando, ci farà rapporto giornaliero su eventuali cambiamenti decisi dal nemico. Orari, stanze prenotate, spostamenti all’esterno e all’interno dell’area. Tutto. Il giorno prima di lasciare la tenuta, troverà il modo di andare qui,” indica l’unico cerchio sulla cartina, posizionato alla destra del parco. “È un labirinto; e in questo lato della siepe... Le coordinate, compagno.”
“ND, A7, 20P LDT,” risponde prontamente, per una volta senza terremoti nervosi.
“Vuol dire: versante nord, destra del labirinto, avanti per 7 metri di siepe; a 20 passi in linea d’aria dalla torretta che sta in mezzo. In quel punto esatto, il compagno nasconderà una pistola.”
Il capo si interrompe. Guarda in silenzio Almo e Cosimo. Un modo, vincente, per aumentare la tensione, per mettere alla prova la loro paura.
“Chi colpiamo dei due?” Almo accetta la sfida.
“Mussolini.”
“Per il popolo e per fostri e nostri giornali serfi dei padroni,” s’intromette l’austriaco. “Mussolini farà tutto per confincere Führer a non fare l’Anschluss, a non infadere Austria. Ferità, invece, è altra e fe l’ho già spiegata. Allora se noi colpiamo Mussolini, facciamo grande cosa. Incastriamo sorci fasci e nazi dentro loro stessa trappola. Dentro loro stesse menzogne.”
“Il mondo penserà che sia stato Hitler a organizzare l’attentato al Merdalini,” gongola Almo.
“Compagno giofane e molto intelligente,” lo benedice il crucco.
“Chi sparerà?” chiede Cosimo.
Nessuno di loro, concentrati com’erano a capire le tappe dell’attentato, con gli occhi e tutti i sensi rapiti da quello che sarebbe dovuto essere, a un tempo, il cimitero del fascio e la mappa del tesoro di Marx, s’è accorto che lo sgherro, da dietro, è andato a prelevare qualcuno. Che adesso è in piedi, sotto l’arcata.
“Il compagno Cocai,” lo presenta tronfio lo Stalinaccio.
Almo e Cosimo si volgono.
Il Cocai, il Gabbiano, è in verità un pulcino; un ragazzino sì e no di undici anni, con la riga in mezzo alla zazzera castana e ossa e denti in fuori dappertutto.
“Dove, Cocai?” gli chiede serissimo il capo.
“Dai campi al mare,” grida emozionato l’imberbe guerrigliero.
“Chi?”
“Chi soffre e spera,” urla a squarciagola.
“Abbassa la voce, però.”
“Va bene, signore,” si scusa intimidito.
“Che ora fai?” riprende solenne.
“L’ora della riscossa.” Niente, è più forte di lui: strilla di nuovo.
“E com’è la bandiera?”
“Rossa. E trionferà.”
“Ti ricorderai di queste parole la notte che il Partito Comunista avrà bisogno di te, per vincere?”
“Sissignore.”
“Sì, compagno,” lo corregge.
“Son pronto, signore.”
“No, Cocai,” gli suggerisce sottovoce il compagno elettricista. “Tu devi dire, Sì, compagno; Sissignore, lo dicono i fascisti.”
“Sì, compagno,” si corregge subito Cocai con il petto in fuori. “Sono pronto. Pronto a tutto.”
“Siamo fieri di te; bene, puoi andare,” il capo si alza; si avvicina al piantone. “Portalo da Arrigo, a San Marcuola; digli che poi passo io. Deve mangiare qualcosa. Ha un alito che m’ha infettato a un metro di distanza... Deve star bene, Cocai, eh? Così sparisce prima... non c’arriva in piedi al 14.”
“Signor compagno,” chiede il balilla rosso mentre prende l’uscita. “Posso giocare con il compagno Sparapan a chi fa più cerchi con i sassi sull’acqua?”
“Non dobbiamo mai chiamarci con il nostro nome, Cocai; ricordatelo,” lo redarguisce con dolcezza il piantone.
“Permesso accordato,” gli sorride il capo. “È pur sempre un modo di tenere la mira allenata.”
Aspetta che il ragazzino sia uscito, poi l’Uomo d’Acciaio di Murano torna da loro. E sedendosi sulla cassa, nota negli occhi di Almo e di Cosimo un tormento raggelato.
“Il ricevimento è previsto con due squadre di cuochi e camerieri ben distinte,” gioca di nuovo con la livella tra le dita. “Il Duce vuole che Hitler e la delegazione tedesca mangino cibo italiano; ma pare che il Führer abbia lo stomaco debole. Così, per ogni evenienza, è pronto anche il servizio delle parti sue.”
“Io lavoro per ditta che fa ricefimento, che cucina tedesco; faccio capocameriere,” s’inserisce il crucco. “Sono io che defo organizzare bambini camerieri. Hitler e Mussolini, tutti e due, fogliono che infitati fengono serfiti da miglior giofentù di paesi nostro e fostro; dai bocianei?... Dice così, fostro dialetto?”
“Bocianei, sì; i fantolini... Bravo, compagno,” sorride il capo.
“...Camerieri che saranno bravi fasci e nazi di futuro,” aggiunge l’austro-comunista.
“E il migliore sarà il nostro Cocai,” chiosa l’altro.
“È mio figlio,” gli scappa al compagno elettricista. Ha parlato con un sorriso che nemmeno lui capisce se è d’orgoglio o già di rimorso.
“Ma davvero sparerà lui?” Almo fissa il capo senza timore.
“Dobbiamo essere pronti a grandi sacrifici. Tutti quanti,” gli risponde. “La lotta comunista sarà grata in eterno a Cocai e a suo padre.” Fa una pausa.
“E sarà grata anche a te,” dice lo Stalinaccio.
“A me?”
“Abbiamo bisogno di qualcuno che, quella notte, sia sul posto; ma che sia lì, alla luce del sole. Qualcuno che, dopo l’attentato, s’inventi qualcosa per depistare le indagini, rallentare i soccorsi se la Bestia Nera non fosse ancora morta. Che protegga Cocai e che, come prima vi è stato spiegato, faccia di tutto per convincere Ciano e i suoi che a sparare sono stati i servizi tedeschi.”
“E come potrei essere d’aiuto, io?” chiede Almo.
Il capo gli va vicino. Gli mette una mano sulla spalla.
“Hai due settimane per diventare fascista. Perché lui ci sarà. Io lo so che ci sarà. E tu devi convincerlo a portarti là dentro.”
Tira un sospiro.
“Hai due settimane per fare la pace con tuo fratello.”