Marmaglia contadina

Gennaio 1930

La casa di campagna, a Sant’Urbano, è stata un posto molto felice.

In grandezza e quantità di stanze, non è da meno alla villa principesca da cui sono traslocati un anno e mezzo prima. Certo, a sfarzo, mobilia, carta da parati, intonaco e pitture, non c’è paragone.

Questo è un casolare squisitamente contadino. Squisitamente mica tanto, visto che il lezzo dalle stalle dei tori, l’alito caccamelmoso che respira dai pollai, e quel posticcio, asfissiante odore di fossi e palude, s’appiccicano fin dentro i camini. Per non parlare del fumarò che non conosce né sosta né stagione; da quelle parti, c’è sempre qualcuno che brucia qualcosa; e ovunque si fissi lo sguardo, all’orizzonte dell’arrocco di case intorno alla chiesa, o a quello dei campi che sembrano un mare di terra vermiglia, si finisce puntualmente per ammirare un mulinello di fumo, un falò che divampa, che se ti metti, di notte, dal pennone del granaio a contemplare il paesaggio, penserai che lì ci sono le lucciole anche d’inverno; e invece sono le braci esauste, i tizzoni ancora intermittenti di un incendio che fu.

E però quello è finalmente il posto ideale per un comunista; sì, ad Almo piace tanto. Perché prima, studiare da rivoluzionario in mezzo agli ottoni lucidati, ai tappeti persiani, alle alcove a baldacchino, con quell’aria tutta intorno insopportabilmente aristocratica che aveva finito per dare alla testa persino a Cesira – Almo, una volta, l’ha sentita dire a un’amica: “Mi sento la prima maggiordessa della città” – lo metteva a disagio.

Ah, che liberazione: metti il piede fuori dalla porta e non c’è più il parco all’inglese, ma una bella aia spelacchiata. Ti volgi a sinistra e non c’è più la marmorea cappella di famiglia, ma un traballante fienile che conta più chiodi che assi di legno. Ma quale fontana barocca con tanto di cigni e giochi d’acqua? Solo un pozzo, la cui carrucola di ferro è talmente arrugginita che ci vogliono almeno quattro braccia per tirar su il secchio. Che poi, attenzione, l’acqua va fatta subito bollire, perché se dalla fontana di Villa Kunkler poteva berci la Santa Vergine, a rischiare dal pozzo, Gesù sarebbe nato tubercolotico.

Anche l’odore acre, di bestie e di bruciato, è quello ideologicamente corretto; la famiglia Marinelli è tornata povera ma rispettata, come e più di prima, proprio da quei poveri che l’hanno riaccolta.

E quando Nina suona il pianoforte, si riuniscono sull’aia i bambini che hanno già la pelle dura e nera come crosta di polenta, e ogni tanto lei se li mette sulle ginocchia e gli fa posare le dita sui tasti, oppure li lascia fuori e dalla finestra aperta gli insegna canzoni come Non piangere Liù dalla Turandot. My Melancholy Baby di Gene Austin oppure Spazzacamin che vien dai monti.

E la melancholy baby, la ragazza malinconica che non è più di nessuno, né del figlio di Giovannini, né degli altri rampolli della borghesia cittadina, lascia andare le note fino ai campi, sollazzando i contadini e i braccianti che storpiano Puccini, muovendo i fianchi delle donne maggiordesse di ’sta minchia di perfetta famiglia fascista italiana, che però hanno sempre una gran voglia di ballare.

Oltre il cancello, spesso, compare davvero uno spazzacamino che viene dall’altopiano di Asiago, ma non s’aggiunge ai bambini dell’aia, un po’ perché è più grandicello, e molto perché, nonostante la maschera di fuliggine, gli occhi tradirebbero un innamoramento impossibile.

E poi l’arrotino, il garzone del latte e la gran parte dei ragazzetti del paese, tra i quattordici e i sedici anni; sono in pochi a salvarsi dal richiamo della Sirena della Palude che li attira fin lì, non li degna d’uno sguardo e quelli, anche se Nina è più grande, sbavano e tornano a casa a baciare e palpare i cuscini, vagheggiando un modo d’accorciare la distanza.

Quando tornano fuori dal cancello, già la seconda volta, puntuale, li accoglie Almo, che li invita ad avvicinarsi al balcone e li presenta alla sorella.

La terza volta, addirittura, li fa entrare e li mette seduti accanto alla pianista, a fare i voltapagine. Perché Almo tiene ben presente quello che dice Gramsci sul fatto che il Comunismo deve far breccia sulle masse molto con le immagini oltre che con le parole, e ha capito che quando uno degli innamorati si trova accanto a Nina e lei, con un sorriso, gli fa un leggero cenno d’assenso con il capo, per dire: “Dai, volta la pagina,” quello s’immagina già all’altare con don Flavio davanti, a cui la Sirena ha appena detto: “Sì, lo voglio.” E voilà, il gioco è fatto.

Così, alla quarta volta, l’adescato finisce insieme agli altri dentro il fienile, ad ascoltar Almo, Cosimo Ferrigo, Ulisse Migliorini e Gino Cescon che sgonfiano la potenza del Muscolini per gonfiare la rivolta degli oppressi.

Del resto, in un paglierume poco distante, Almo e Marino conobbero il focolaio fascista e il forcolaio capo, ed è evidentemente destino che sempre da lì si cominci; però Almo, al contrario del Truce che scelse la pazzia d’un reduce di guerra per attirare gli accoliti, ha usato i fianchi e gli occhi in fiore di sua sorella. E per mietere discepoli, non c’è dubbio che questa sia una tecnica assai più efficace.

Cosicché, nel giro d’un anno, il fienile Marinelli diventa una sede staccata del Partito Comunista, con tanto di divanetto, tavolaccio, macchina per scrivere e la vecchia mangiatoia delle vacche usata come buca delle lettere per la propaganda clandestina.

Le riunioni sono praticamente quotidiane con un sovraffollamento la domenica mattina, dopo la messa delle nove, che di fatto ha desertificato quella delle dieci.

Don Flavio, per adesso, mastica amaro e non parla con i carabinieri, anche se tutti ’sti gatti che all’improvviso si chiamano Marx e una scrofa appena nata a cui, chissà perché, è stato dato il nome Rachele, gli stanno facendo saltare i nervi.

Nessuno, in famiglia, ha il coraggio di dirlo; ma se con l’addio di Marino, già la tensione s’era stemperata, con la dipartita del professore la pace si è distesa come la neve, che quell’anno è venuta giù il giorno della Befana.

E d’accordo; Orio torna a casa stanco morto dai magazzini di tabacco, visto che Marino il lavoro importante non gliel’ha trovato e Ginocchio in Testa ha deciso che i lavoratori devono sgobbare un’ora in più senza pretendere nulla; Sergio è prossimo a sposarsi con la figlia d’un allevatore e non ha i soldi nemmeno per comprarsi la cravatta; Faliero prova a vendere di tutto e s’è improvvisato persino meccanico dei trattori; Cesira minaccia ogni giorno di mettere a bollire il gallo segnavento se in cucina non le arriva qualcosa, e Adele va a bussare alla porta della sorella che qualche avanzo di pollame ce l’ha sempre.

Eppure, quando Almo torna in bicicletta dal suo ultimo anno alla ragioneria di Este, e vede Maria, Lara e la piccola Mara che corrono sull’argine con quei vestiti al vento più sgualciti di quelli che coprono le loro bambole, quando le vede imbastire gli aquiloni con le fascine dei faggi e il bollettino della parrocchia; quando si mettono tutti a tavola, nel tinello che sa sempre di caffellatte, a condividere le pagnotte e i denari che servono per riparare il tetto; quando Cesira, ogni sabato sera, li sorprende, ché nessuno ha ancora capito come faccia a mettere insieme gli ingredienti della torta margherita più morbida del creato, e da dove saltino fuori le uvette e i canditi che costano l’ira di Dio ma che farciscono in abbondanza i panettoni cotti sul camino, ogni pensiero svanisce.

Che crolli pure un’altra volta Wall Street e che s’impicchino alla tracolla della Borsa americana tutti i capitalisti; ma sì, che il pane abbia sempre meno farina, se la parte che manca costa l’ernia e l’infarto ai braccianti dei mulini; loro mangeranno l’erba spagna, i funghi selvatici, e pure i soffioni dei campi. Perché i Marinelli sono liberi adesso; liberi, poveri, comunisti. E anche vegetariani se occorre.

La casa di campagna, a Sant’Urbano, è stato un posto molto felice.

Fino a quella gelida notte d’inverno.

*

“Il podestà è infuriato,” se la ride Gino Cescon. “Il primo ritrovo della Gioventù, alla Casa del Fascio, è stato un fallimento totale; nemmeno trenta ragazzi.”

“Ve la immaginate la faccia di Franchini?” dice Ulisse Migliorini.

“Poveraccio; il segretario è il meno peggio,” commenta con un sorriso amaro Cosimo Ferrigo.

“Sì, brava persona,” aggiunge Almo. “Ma troppo debole: l’ala dura degli agrari se lo sta mangiando giorno dopo giorno.”

“Mica solo loro,” rincara Ulisse. “Dove la metti l’Azione Cattolica? La curia ha convocato i suoi ragazzi nello stesso giorno, mezz’ora dopo, a duecento metri di distanza.”

“E com’è andata?” chiede Gino come se già conoscesse la risposta.

“Nemmeno se Ginevra Trevi si levava le mutande in piazza faceva tanta gente,” ride Ulisse.

“Ah, se li son fatti alleati, ma i cari cattolici continuano a essere un bel problema per i beccamorti,” commenta Cosimo.

“Non solo per loro,” bofonchia inquieto Gino.

“Oh, Almo, ma lo sai che domani tuo fratello viene al Caffè Borsa per un comizio?” Ulisse cambia discorso.

“Sì, me l’hanno detto,” risponde lui distratto.

“Prove generali del nuovo segretario?” lo provoca Gino.

“Speriamo di no,” risponde Cosimo. “Se arriva Marino, cambia tutto; e, datemi retta: ai prossimi ritrovi, alla Casa del Fascio, ci sarà gente pure sui tetti.”

“Mia sorella, di sicuro,” scappa a Ulisse.

“Come? Ma non è dei nostri?” gli chiede Gino.

“Sì; ma dice che se Marino prende il comando della sezione, passa al nemico.”

“Tutte puttane le donne,” sentenzia Cosimo. “Senza offesa, Ulisse.”

“Tranne le mamme, naturalmente,” puntualizza Gino.

“Naturalmente le vostre,” gli risponde Cosimo. “La mia, se Marino diventa segretario, segue la sorella di Ulisse.”

Ridono tutti adesso, dietro il cimitero, nella notte accecata dalla neve; ne è caduta così tanta che la campagna s’è alzata di almeno venti centimetri. Non più lo strapiombo dei fossi, gli steccati dei confini. E anche dall’altra parte, verso la città, non si distinguono più la facciata della Chiesa della Salute dalle mura delle case popolari; la cinta in pietra romana di via Augustea dal misero campiello dove sono ammassati i disgraziati. Tutto coperto e uguale. Tutto un’indistinta ragnatela congelata.

“La neve è comunista,” dice Cosimo, ispirato.

“Mica tanto,” lo smorza Ulisse che non smette un attimo di saltellare per scaldarsi. “La neve ammazza i comunisti se Angelino non arriva subito con il raboso della trattoria. Oh, ma dov’è finito?”

“Dai, Cosimo,” prova a rimettere ordine Gino Cescon. “Sentiamo che novità ci porti.”

“Allora, compagni,” si dà un tono il sosia di Gramsci. “A Milano, la settimana scorsa, c’è stata una riunione. Togliatti, in persona, eh? E ha dettato la linea.”

“Con Stalin o no?” chiede a bruciapelo Almo.

“Assolutamente con Stalin,” gli risponde secco.

“Ma quello che sta in Russia al suo posto, come si chiama...” si arena Gino.

“Angelo Tasca,” lo aiuta Cosimo.

“Sì, lui. Non stava con gli avversari di Stalin?”

“Non più. È stato espulso.”

“Be’,” s’inserisce Ulisse. “Ci siamo lamentati che da quando il Duce c’ha messo fuori legge, il partito non avesse più una linea. Adesso, se non altro...”

“Ma questa non è una linea,” interviene Almo rivolgendosi a Cosimo. “A meno che stare con Stalin, non significhi provare a fare qui quello che lui sta facendo in Russia.”

“La priorità per Togliatti è il Comunismo in un solo Paese. Il nostro,” dice Cosimo.

“E che vuol dire?” c’è un principio di irrisione nel tono di Almo. “Che dovremmo dar la caccia anche noi a tutti i proprietari terrieri? Che dovremmo incendiare le fabbriche e le fattorie con gli operai dentro?”

Si rivolge a tutti; si muove per incontrare ogni sguardo.

“Fatemi capire, compagni. Per Togliatti, da domani dobbiamo smettere di leggere Marx, Engels, Lenin. Da domani, basta con il Manifesto nelle fabbriche. Perché, nel nostro fienile, è giunta l’ora di spiegare il miracolo del compagno Stalin in Russia. Ho capito bene?”

“Sì; Togliatti ha promesso di fornirci il materiale. Il negozio di mio zio sarà tra i primi a riceverlo a Milano,” risponde fiero Cosimo.

“Benissimo, Cosimo. E c’è scritta la verità nel materiale che dovremmo diffondere?” Almo lo affronta alzando la voce.

“Datti una calmata; siamo qui per discutere,” prova a frenarlo Gino.

“C’è scritto che dobbiamo impiccare i preti accanto ai conti e lasciare, lì vicino, un po’ di spazio?” insiste Almo. “E c’è anche scritto a chi lo lasciamo quello spazio? C’è scritto per caso: Cari socialisti, o vi schierate con noi oppure siete morti? È questo il Comunismo in un solo Paese per cui io e tutti voi dovremmo rischiare il culo?”

“Tu ascolti troppo la propaganda nera,” reagisce Cosimo.

“Hai ragione, l’ascolto. E dovresti ascoltarla anche tu. Perché i fasci quando parlano del Comunismo tirano sempre fuori Stalin? Te lo sei mai chiesto?” all’improvviso si calma. Torna lucido, pacato.

“Perché è uno che vince. E perché ne hanno paura,” gli risponde Ferrigo.

“Per mettere paura,” lo corregge Almo. “Stalin è uno che fa paura al nostro popolo.”

“Certo; ai capitalisti e ai borghesi, com’è giusto che sia,” s’intromette Cescon.

“No, Gino, no,” Almo batte i pugni sul muro, come se la discussione fosse arrivata allo snodo; al punto cruciale che solo lui ha colto ma che nessuno vuol capire. “Se seguiamo Stalin e Togliatti, non abbiamo possibilità di capovolgere Mussolini: anzi, la nostra lotta diventerà per lui un vantaggio incalcolabile.”

Tira un sospiro, poi si china a terra, tenendosi sospeso sulle ginocchia. Se non fosse notte, farebbe un disegno sulla neve per spiegarglielo.

“Noi non possiamo partire dal concetto che tutto sia Fascismo: lo Stato, la borghesia, il Socialismo, la religione cattolica. Persino, la democrazia.”

“Noi non vogliamo la democrazia,” lo interrompe subito Cosimo. “Noi vogliamo il proletariato al potere.”

“E come si chiama?” lo fulmina Almo.

“Come si chiama chi?”

“Giovanni Proletariato, Benito Proletariato, Karl Proletariato? Chi andrà a comandare, esattamente?”

“Lo decideranno i soviet,” interviene Gino Cescon che ha visto Cosimo in difficoltà. “Che eleggeranno dei delegati.”

“E i soviet chi li elegge?” gli chiede Almo.

“Il partito, naturalmente.”

“Insomma, come fa il Partito Fascista con le corporazioni. Stessa cosa.”

“No che non è la stessa cosa,” sbotta Ulisse. “Il Comunismo eleva i poveri, le masse lavoratrici; il Comunismo si batte per la loro libertà; non per asservire il popolo, per farlo spolpare dalle mani di pochi.”

“D’accordo, Ulisse,” sorride Almo. “Ma come fai a spiegarlo a un operaio? Come fai a convincerlo che Stalin è diverso da Mussolini, se stanno al potere nello stesso modo? Il Comunismo non è di pochi, né di uno solo al comando. Il Comunismo è di tutti. E per realizzarsi deve passare per forza attraverso la democrazia.”

“Fai la tua proposta,” c’è una certa durezza nel tagliare corto di Gino Cescon. Ha capito che più Almo parla e più il rischio che Cosimo, Ulisse, lui stesso si confondano aumenta.

“La mia idea è questa; continuare a diffondere il Manifesto e, nello stesso tempo, fare una durissima propaganda antifascista. Cercare il più possibile di raccontare il Comunismo come il luogo della libertà per tutti contro il Fascismo che è quello della tirannia su tutti. Niente parole violente contro i socialisti, né contro i cattolici. Soprattutto contro di loro; ne abbiamo già persi abbastanza dopo i Patti Deretanensi.”

“Ah, bellissima questa,” scoppia a ridere Ulisse.

“Sì, Deretanensi non è male,” ammette con un sorriso anche Cosimo.

“E le direttive di Togliatti? Il materiale su Stalin che ci arriverà attraverso lo zio di Cosimo?” gli chiede serio Gino Cescon che in quella battuta ha indovinato un espediente nascosto per portar dalla sua gli altri due.

“Per me, si può bruciare,” risponde secco Almo.

“Andiamo ai voti, compagni,” Gino Cescon non vuole più aspettare. “Chi intende seguire Togliatti?”

Le mani di Gino e Cosimo si alzano immediatamente. Rimangono sospese per alcuni istanti, nella speranza che si aggiunga quella di Migliorini. Che però resta infilata in tasca.

“Ulisse...” mormora con dolorosa sorpresa Cosimo.

“Mi dispiace; ma Almo ha ragione,” abbassa lo sguardo imbarazzato.

Lo strappo, la prima vera divisione tra di loro. Si sono rotti gli equilibri; non è accaduto, come in passato, che per far prevalere le sue idee, Almo abbia convinto Gino Cescon, sapendo poi che tutti gli altri l’avrebbero seguito. Stavolta, nessuna concessione. Nessuna mediazione. Almo non si pone più come il consigliere del capo. Ma come il nuovo capo.

“A questo punto diventa determinante il voto di Angelino,” dice Cescon, fissando con risentito sospetto Marinelli.

“Il voto e il vino,” prova a sdrammatizzare Ulisse.

Dalla strada si odono dei passi frettolosi rallentati dall’affondo nella neve. Ulisse è il primo a mettere la testa fuori.

“Ma che ci fa qui tua sorella?” chiede ad Almo.

Nina si ferma sulla stradella del tiro a segno.

Il fratello esce dal muro. E dietro di lui, anche gli altri.

Lei li guarda in silenzio.

“Angelino,” sussurra con un filo di voce.

Nevica di nuovo. Cosimo aveva torto. E Ulisse ragione.

La neve ammazza i comunisti.