Corre lungo il corridoio, il ragazzo che non è più un ragazzo. Corre come un bimbo che non vuol più avere le gambe corte e i piedi piccoli di un bimbo. La biblioteca dista quattro stanze ai lati e tre colonne, due a destra, una a sinistra. Quanti fantasmi potrebbero nascondersi, quanti fantasmi potrebbero venir fuori adesso. Il bimbo che non voleva più essere un bimbo scappava da loro, aveva paura di loro, tanto che, di notte, quando era tutto solo, odiava quell’attimo eterno in cui doveva infilarsi la maglia del pigiama; una frazione di secondo in cui gli occhi si perdevano nel tessuto, un tempo perfetto per l’agguato a sorpresa dell’Uomo Nero. Ma qualcuno – soprattutto i fantasmi – si può nascondere per venirti a trovare, oppure sta dietro una colonna incrostata dall’umidità perché non vuole essere trovato, e mentre lui continua a correre e gli manca il fiato, pensa che in fondo è proprio questa la differenza tra un ragazzo che non è più un ragazzo e un bambino che non voleva essere più un bambino. E allora, a un passo dalla biblioteca, si gira verso la stanza della nonna che è morta intubata e bucata dal sondino e che nell’ultimo giorno della sua vita, anche al prete, non ha fatto altro che ripetere: “Carletto, Coca-Cola.” Il cappellano pregava, le stringeva la mano e lei: “Carletto, Coca-Cola.” I due grandi amori di Letizia. Il suo nipotino e il dannato inchiostro corrosivo che in quella casa bevevano a casse. La nonna convinta che così il quotidiano pacchetto di Muratti si sarebbe bruciato prima di infestare i polmoni, e Carletto, che addormentandosi con la mano dentro quella di lei, pensava: “Nessuno beve la Coca come noi due.”
Adesso è dentro, dentro con le mani nello scaffale terzo di sinistra, quello che precede il terrazzo, dove sono raccolti i documenti autografi del nonno. Cerca la foto, quella di cui gli ha parlato la madre, scattata in una città lontana, dove Marino è in compagnia del ragazzo con la cicatrice. Il ragazzo che non è più un ragazzo non sa, non sa il perché, ma sente che trovarla è importante, è fondamentale per tirar fuori i fantasmi dalle colonne e il nome di suo figlio dall’incertezza e mentre rovista, sfoglia, sbroglia e dipana trame umide di carta dura, durissima o così viscidamente fragile da rompersi con il solo tocco, pensa a quella furia tanto irrazionale quanto urgente di portare alla luce ’sta foto e sente, sente nel profondo che più in là negli anni gli capiterà la stessa cosa con lui che ancora non c’è, il primo giorno che marinerà la scuola, il primo sabato sera che marinerà il coprifuoco e allora il padre frugherà come un pazzo nella sua cartella, nel suo telefono, nel suo computer, negli armadi, in cantina, in garage, ovunque, ovunque il figlio abbia lasciato distrattamente un pezzo di sé, per sapere se c’entrano la droga, una ragazza, una sbronza con gli amici, o semplicemente il metterti alla prova, il chiederti con la fuga improvvisa, se ancora tu sai stare contro il muro di spalle, con gli occhi chiusi, se ancora sai contare fino a dieci, girarti e trovarlo senza nemmeno aprirli gli occhi perché, anche se dietro la colonna ce ne starebbero altri cinque della sua misura, lui è ancora così piccolo e inconsapevole del suo corpo da tenere la struggente babbuccia con la faccia di Winnie The Pooh in bella vista.
Cerca la foto e non riesce a trovarla, sente i fantasmi schiodarsi dai loro cantoni oscuri e la nonna e persino Winnie The Pooh entrare nella biblioteca, anticipati appena non da un tintinnio di catene ma dal battito vitreo di un paio di bottigliette di Coca che si toccano per l’ultimo brindisi. E non si gira, stavolta no, non ha paura, perché sa che loro sono venuti lì dentro per aiutarlo e così quella notte, dopo tanto tempo, andrà a dormire infilando una maglia del pigiama senza bottoni.