Sempre più vicino
Continuarono così a vivere nella più completa infelicità finché non giunse il mese di maggio e Lady Anna fu infine dichiarata convalescente. Una volta a tarda notte, molto dopo la mezzanotte, la contessa entrò silenziosamente nella stanza della figlia e sedette accanto al letto. Lady Anna dormiva e la contessa rimase seduta a guardarla. C’era già stato il compleanno e la ragazza era ormai maggiorenne. Il signor Goffe era stato chiuso in consulto con lei e la madre per due mattine consecutive; anche Sir William Patterson era stato con loro ed erano state date riguardo al patrimonio istruzioni che andavano subito eseguite. L’intera metà della parte degli averi che toccava a Lady Anna doveva passare al conte. Mentre ciò veniva predisposto non si disse nemmeno una parola su Daniel Thwaite, né sul matrimonio con il lord. Si preparò l’assegnazione come se fosse una cosa a sé stante e tutti rimasero molto sorpresi – la madre, il vice-procuratore generale e il procuratore – per la ferma determinazione e la piena comprensione dell’intero affare che Lady Anna dimostrò. Quando si giunse alla realizzazione vera e propria della cosa, – la rinuncia a tutto quel denaro – la contessa divenne inquieta e scontenta. Anche lei aveva desiderato che Lord Lovel ottenesse il patrimonio, ma il suo desiderio si fondava su un certo scopo da raggiungere, scopo che ormai era più che mai lontano da lei. Ma i beni in questione non erano suoi, bensì della figlia, e così si astenne dall’obiettare con veemenza per la decisione presa. Furono date istruzioni e gli atti sarebbero stati pronti prima della fine del mese.
Era la notte dell’undici maggio quando la contessa sedeva al capezzale della figlia. Aveva portato con sé una candela e sedeva là osservando la ragazza addormentata. Pensieri incredibilmente discordanti e sentimenti del tutto contrastanti le passavano per la mente e il cuore. Quella era la sua unica figlia, l’unica cosa che avesse da amare, l’unico legame che possedesse con il mondo. Se non fosse stato per la figlia, morire sarebbe stato un bene. E se la figlia avesse fatto ciò che avrebbe reso la vita un peso per lei… quanto sarebbe stato meglio morire! Non aveva paura di morire e non temeva nulla dopo la morte; ma con un terrore da codarda temeva il tormento del fallimento se la ragazza fosse diventata la moglie di Daniel Thwaite. In tal caso di certo non avrebbe mai più visto la ragazza – e allora la vita per lei sarebbe stata un buco nero. Ma si rendeva conto che anche se si fosse isolata radicalmente dal mondo, la gente avrebbe saputo del suo fallimento e avrebbe saputo che lei si divorava il cuore nella profondità del suo dolore. Se solo la ragazza avesse agito come la madre le aveva proposto, se avesse seguito il suo esempio, se si fosse incamminata per i piacevoli sentieri che le erano stati aperti, con quale carezzevole devozione, con che infinità di baci e benedizioni, lei, la madre, si sarebbe presa cura della giovane contessa e avrebbe fatto del suo meglio nel rendere radioso il mondo per la nobile sposa. Ma un sarto! Puh! Che creatura abietta era sua figlia per aggrapparsi a un amore così spregevole!
Comunque riconosceva tra sé che l’attaccamento della ragazza era di un genere che lei non aveva il potere di diminuire. L’edera non era più devota al suo albero di sostegno di quanto la figlia lo fosse a quel miserabile. Ma la ragazza poteva morire – oppure il sarto poteva morire – o lei, l’infelice madre, poteva morire; e in tal modo l’infelicità sarebbe terminata. Solo la morte poteva porvi fine. Pensieri e sogni di altra violenza le erano passati per la mente – portar via la ragazza, segregarla, spaventarla giorno per giorno fino a ottenere una sottomissione infantile, semi-instupidita. Ma per riuscirci sarebbe stata necessaria la docile obbedienza della ragazza – o quell’aiuto esterno che aveva cercato, invano, di ottenere dagli avvocati. Tali speranze erano ormai sfumate e non rimaneva che la morte.
Perché la ragazza non era morta quando alla morte era stata così vicina? Perché non era morta quando era sembrato che il Signore volesse chiamarla a Sé? Una leggera incuria, un’irrilevante mancanza di solerte attenzione, un qualsiasi caso fortuito avrebbero reso naturale quel che ora – quel che ora era così auspicabile e tuttavia fuori portata! Sì – così auspicabile! Come si poteva desiderare che una vita tanto ignobile continuasse? Ma una simile soluzione era impossibile. Con gli occhi fissi nel vuoto, valutando tra sé l’idea, pensò che avrebbe potuto suicidarsi – ma sapeva di non poter uccidere la propria creatura.
Ma se si fosse uccisa, non ci sarebbe stato in ciò nessuna vendetta. Se avesse potuto trovarsi da sola in mare aperto, in una barchetta a remi con quel sarto di meschini natali, e a quel punto togliere il tappo e fargli sapere quale danno le aveva arrecato mentre entrambi affondavano, quello ormai sarebbe stato il rimedio al male più consono ai suoi desideri. Ma non c’era un tale mare e nessuna barchetta del genere. La morte, però, poteva ancora essere vicina.
Poi appoggiò la mano sulla spalla della ragazza e Lady Anna si svegliò. «Oh, mamma; siete voi?».
«Sono io, bambina mia».
«Mamma, mamma, è successo qualcosa? Oh, mamma, datemi un bacio». Allora la contessa si piegò e baciò la ragazza con ardente affetto. «Cara mamma… carissima mamma!».
«Anna, farai una cosa per me? Se non ti parlerò mai più di Lord Lovel, ti dimenticherai di Daniel Thwaite?». Tacque, ma Lady Anna non aveva una risposta pronta. «Non vuoi fare nemmeno questo per me? Di’ che lo dimenticherai finché non me ne sarò andata».
«Andata, mamma? Non ve ne state andando!».
«Finché non sarò morta. Non vivrò a lungo, Anna. Dì almeno che non lo vedrai né farai il suo nome per dodici mesi. Di certo, Anna, farai almeno questo per una madre che per te ha fatto così tanto». Ma Lady Anna si rifiutò di far promesse. Volse il viso verso il cuscino e restò muta. «Rispondimi, bambina mia. Posso perlomeno pretendere una risposta».
«Vi risponderò domani, mamma». Allora la contessa cadde in ginocchio al capezzale e pronunciò una lunga, incoerente preghiera, rivolta in parte al Dio dei Cieli e in parte alla povera ragazza che giaceva a letto, supplicando con folle e appassionato ardore perché quella calamità venisse allontanata da lei. Poi afferrò la ragazza in un abbraccio e quasi la soffocò di baci. «Mio, mio tesoro, mia bellezza, mio tutto; salva tua madre da quel che è peggio della morte, se puoi – se puoi».
Se una simile tenerezza fosse giunta prima, avrebbe potuto avere un effetto assai maggiore. Invece, sebbene la figlia fosse commossa e piena d’angoscia, – sebbene rimanesse scossa dai singhiozzi e soffocata dalle lacrime – non poté fare a meno di ricordare il trattamento che aveva subito dalla madre negli ultimi sei mesi. Se la richiesta di aspettare un anno fosse arrivata prima, sarebbe stata esaudita; ma era ormai stata rivolta quando tutti gli espedienti della crudeltà avevano fallito. Dieci volte durante la notte disse che avrebbe ceduto – e per altre dieci volte si disse che se avesse ceduto in quel momento, sarebbe stata una schiava per tutta la vita. Aveva stabilito – a torto o a ragione – ma con mente salda e fermezza d’intento, che non si sarebbe lasciata distogliere dal suo proposito e quando al mattino si alzò, era nuovamente decisa. Andò nella camera della madre e senza indugiò le comunicò le sue intenzioni. «Mamma, non è possibile. Sono sua e non devo dimenticarmi di lui né vergognarmi del suo nome – no, nemmeno per un giorno».
«Allora vattene via da me, tu ingrata, dura di cuore, figlia snaturata, meschina, crudele e infangata. Via da me, se possibile, per sempre!».
Dopo di che vissero per qualche giorno separate per una seconda volta, consumando i pasti ognuna nella propria stanza. Intanto la signora Richards, la proprietaria dell’alloggio, tornò dalla signora Bluestone, dichiarando di temere quel che poteva accadere e di dover chiedere di venir liberata dalla presenza delle signore. La signora Bluestone fu costretta a spiegare che le camere erano state affittate per tre mesi e che non si poteva mettere in strada una madre e una figlia solo perché erano in cattivi rapporti tra di loro. L’anziana donna, come naturale, aumentò la pigione – ma senza effetto.
Il 15 maggio Lady Anna scrisse un biglietto a Daniel Thwaite e ne mandò una copia alla madre prima di imbucarlo. Si trattava di due righe:
Caro Daniel,
ti prego di venire a trovarmi qui. Se riceverai il biglietto in tempo, per favore vieni martedì verso l’una.
La tua affezionata
ANNA
«Riferite alla mamma» disse a Sarah, «che intendo uscire per imbucare questa oggi». La lettera era indirizzata in Wyndham Street. La contessa sapeva che Daniel Thwaite aveva lasciato Wyndham Street.
«Ditele», disse la contessa, «ditele... – ma, a che serve dirle qualsiasi cosa? Che trovi la porta chiusa. Non ritornerà mai più da me». Il messaggio fu riferito a Lady Anna mentre usciva; ma lei imbucò la lettera e poi andò in Bedford Square. La signora Bluestone l’accompagnò in Keppel Street; ma poiché la porta fu aperta dalla signora Richards e non furono fatte difficoltà per far entrare Lady Anna, la signora Bluestone tornò a casa senza chiedere di vedere la contessa.
Ciò accadeva di sabato, ma quando giunse il martedì, Daniel Thwaite non arrivò in Keppel Street. Il biglietto fu consegnato al suo vecchio indirizzo con la distribuzione della posta e da Wyndham Street fu rispedito al nuovo indirizzo il lunedì in tarda serata – dopo aver senza dubbio suscitato una grande curiosità e un esame minuzioso. Il martedì, a giornata avanzata, raggiunse il domicilio di Daniel Thwaite in Great Russel Street, ma egli si trovava fuori, a vagare per le strade come era sua abitudine, elencando tra sé tutti gli orrori di una vita oziosa e pensando a quali passi intraprendere per ottenere la sua sposa. Sapeva perfettamente quando era diventata maggiorenne e aveva deciso di concederle un mese da allora, prima di andare da lei per dirle quale sarebbe stato il loro comune destino. Aveva raggiunto la maggiore età solo da pochi giorni, ed ora era stata lei a scrivergli.
Tornato a casa ebbe la lettera della ragazza e quando spuntò il giorno – il mercoledì mattina, il giorno successivo a quello fissato da Lady Anna – egli decise il suo corso d’azione. Fece colazione alle otto, sapendo quanto sarebbe stato inutile muoversi prima, e poi andò in Keppel Street, lasciando detto alla signora Richards in persona che sarebbe tornato all’una per vedere Lady Anna. «Potete dire a Lady Anna che ho ricevuto il suo biglietto solo ieri sera molto tardi». Poi si diresse all’albergo in Albemarle Street dove sapeva che Lord Lovel alloggiava. Erano da poco passate le nove quando arrivò e il conte non era ancora uscito dalla camera da letto. Daniel, comunque, si fece annunciare e il conte lo pregò di accomodarsi nel salottino per attenderlo. «Dite al signor Thwaite che non lo farò aspettare più di un quarto d’ora». Poi il sarto venne accompagnato nella stanza dove era apparecchiato per la colazione.
Nelle ultime settimane il conte aveva sentito parlare molto di Daniel Thwaite da varie persone, e soprattutto dal vice-procuratore generale. «Potete star certo che lei lo sposerà», aveva detto Sir William, «e io vi consiglierei di accettarlo in quanto suo marito. C’è in lei una grande fermezza d’intento ed è estremamente onesta. Ostinata, se volete e – se volete – ostinata a torto. Ma è generosa e, chiunque sposi, non potete disconoscerla. Dovrete tutto al suo alto senso dell’onore – e se non mi sbaglio di grosso dovrete molto anche a lui. Accettateli entrambi e fate loro buon viso. Probabilmente tra cinque anni lui sarà in Parlamento. Tra dieci sarà Sir Daniel Thwaite – se la cosa gli interessa. E tra quindici anni tutti riterranno che Lady Anna abbia fatto un ottimo matrimonio». Lord Lovel era al momento incline ad essere remissivo in tutto con il suo grande consigliere, ed era ormai pronto a dare il benvenuto al signor Daniel Thwaite.
Gli strinse infatti la mano sorridendo quando entrò nel salottino, radioso dopo il bagno, con addosso una vestaglia dai colori vivaci, di quelle che i giovanotti allora indossavano di mattina, con ai piedi babbucce ricamate. «Ho sentito parlare molto di voi, signor Thwaite», disse, «e sono contento di incontrarvi infine. Prego, accomodatevi. Spero che non abbiate ancora fatto colazione».
Il povero Daniel non era esattamente all’altezza della situazione. Il giovane lord per lui era sempre stato un nemico – un nemico perché il lord era stato l’avversario della contessa e della figlia, un nemico perché era un conte e sfaccendato, un nemico perché il lord era suo rivale. Sebbene fosse ormai quasi sicuro che quest’ultima ragione di ostilità non sussistesse più e sebbene fosse andato dal conte per un certo scopo, non riusciva a credere che dovessero esserci buoni rapporti tra di loro. Strinse la mano che gli veniva offerta, ma la strinse goffamente, e si sedette come gli era stato detto. «Grazie, vostra signoria, ma ho fatto colazione da parecchio. Se per voi va bene farò una passeggiata e poi tornerò».
«Niente affatto. Io posso mangiare e voi potete parlarmi. A ogni modo prendete una tazza di tè». Il conte suonò per farsi portare un’altra tazza e cominciò a imburrare il suo pane tostato.
«Credo che vostra signoria sappia che sono da tempo fidanzato con la cugina di vostra signoria – Lady Anna Lovel».
«Effettivamente mi è stato detto».
«Da lei».
«Beh… sì; da lei».
«Mi è stato permesso di vederla solo una volta negli ultimi otto o nove mesi».
«Non è stata colpa mia, signor Thwaite».
«Voglio che capiate, milord, che non è per il denaro che l’ho cercata».
«Di certo io non vi ho accusato».
«Ma sono stato accusato. Ora la vedrò – se me la lasceranno incontrare. Le chiederò di stabilire una data per le nostre nozze e, se lo farà, io smuoverò mari e monti per sposarla. Ha diritto di agire come crede e nessuna considerazione mi fermerà, a parte i suoi desideri».
«Io non interferirò».
«Ne sono felice, milord».
«Ma non rispondo per sua madre. Non vi può sorprendere, signor Thwaite, che Lady Lovel sia contraria a un simile matrimonio».
«Non era contraria alla compagnia di mio padre né alla mia qualche anno fa – e nemmeno dodici mesi fa. Ma non dirò nulla di ciò. Che sia pure contraria. Non possiamo farci niente. Sono venuto da voi per dirvi che spero si possa fare qualcosa per il denaro prima che lei diventi mia moglie. La gente dice che dovreste averlo voi».
«Chi lo dice?».
«Non saprei dire chi – forse tutti. Se anche ogni singolo scellino fosse vostro, io la sposerei altrettanto di buon grado domani. Mi hanno dato quel che mi spettava ed è abbastanza per me. In quel che ora è suo e, forse, dovrebbe esser vostro, io non interferirò. Quando sarà mia moglie, custodirò per lei e per chi potrà venire dopo di lei quel che allora le apparterrà; ma non mi importa nulla di quel che si può fare prima di allora».
Nel sentir ciò il conte gli raccontò l’intera storia dell’accomodamento in corso – di come la proprietà sarebbe in effetti stata divisa in tre parti, di come la contessa, lui e Lady Anna avrebbero ognuno avuto una parte. «Ce ne sarà a sufficienza per tutti noi», disse il conte.
«Molto più che a sufficienza per me», disse Daniel nell’alzarsi per congedarsi. «E ora andrò in Keppel Street».
«Vi faccio i miei migliori auguri», disse il conte. I due uomini si scambiarono un’altra stretta di mano – di nuovo il conte era raggiante e di buon umore e il sarto di nuovo imbarazzato e quasi accigliato. Sapeva che il giovane aristocratico si era comportato bene con lui, ed era una delusione che un nobile dovesse comportarsi bene.
Tuttavia mentre camminava lentamente verso Keppel Street – perché ancora non era arrivata l’ora – cominciò a sentire che il premio più grande tra tutti i premi si faceva sempre più vicino.