Il testamento del conte
Non si era saputo nulla a Keswick dell’intenzione di far ritorno del vecchio lord, perché il conte era ormai un uomo anziano, che aveva passato la sessantina, e a dire il vero con tanti segni di vecchiaia quanti certi uomini mostrano ad ottant’anni. La vita che aveva condotto senza dubbio aveva le sue attrattive, ma è di un genere che ben di rado concede un tramonto vigoroso e felice. Gli uomini che fanno delle donne una preda da consumare, consumano anche se stessi. Ma eccolo là, di ritorno a Lovel Grange, senza che nessuno sapesse perché era venuto, né da dove, né come. Allora, ormai una quarantina d’anni fa, non c’era strada carrozzabile per Lovel Grange a parte quella che attraversava Keswick. Egli aveva attraversato Keswick nel cuore della notte, usando i cavalli di posta che aveva portato con sé da Grassmere, così che nessuno in città vedesse lui e la sua compagna. Ma si seppe ben presto che era là, e si seppe anche che aveva una compagna. Per mesi visse così, senza che nessuno lo vedesse a parte i domestici che si occupavano di lui. Ma si sparse la voce della sua condotta e la gente della contea dichiarò che il Conte Lovel era pazzo. Tuttavia aveva il pieno controllo dei suoi beni ed egli faceva ciò che più gli aggradava.
Non appena si seppe che si trovava nella tenuta, cominciarono ad arrivare, una dopo l’altra, richieste di denaro per i debiti della moglie e Thomas Thwaite, il sarto, reclamò il denaro con maggiore insistenza di tutti, e non per ostilità verso la vecchia amica, la contessa, ma per il fermo intento di far pagare al lord per la sua malvagità l’unico prezzo che gli si potesse estorcere. E se fosse stato possibile costringere il conte a soddisfare le richieste avanzate dai creditori della donna, allora la legge, a quel punto, avrebbe stabilito che quella signora ne era la moglie. Non ci fu risposta a nessuna delle lettere rivolte al conte e nessuno che si recasse alla Grange riuscì a parlare o anche solo a vedere il nobile proprietario. L’amministratore del conte indirizzava tutti dai legali del lord a Londra e i legali del lord si limitavano a ripetere l’affermazione che la signora non era la moglie del lord. Si seppe infine che ci sarebbe stata un’inchiesta circa lo stato di salute del lord e le sue condizioni mentali, a nome di Frederic Lovel, il lontano erede del titolo. Comunque andasse la questione del matrimonio del lord con Josephine Murray, Frederic Lovel, che non aveva mai visto il lontano cugino, sarebbe diventato il futuro conte. A riguardo non vi erano dubbi e nuove indagini sarebbero state fatte. Ma era molto probabile che gli interessi del giovane erede sarebbero stati coinvolti più profondamente nella questione del matrimonio che non in altre faccende riguardanti la famiglia. Lovel Grange e le poche fattorie di montagna annesse alla proprietà del Cumberland dovevano diventare sue, qualsiasi danno il conte pazzo potesse infliggere a coloro che portavano il suo stesso nome; ma il grosso dei beni, la ricchezza dei Lovel, l’opulenza che aveva permesso a quel potente lord di vivere da predatore tra la sua specie, erano ancora a sua disposizione. Aveva una figlia certamente, quella Lady Anna che avrebbe ereditato il tutto se il padre fosse morto senza testamento e se il matrimonio fosse stato dimostrato. Il giovane erede e coloro che gli erano vicini non credevano per niente al matrimonio – come era naturale. Non avevano mai visto la donna che ora si faceva chiamare contessa, ma che per qualche anno dopo la nascita della bambina si era chiamata signora Murray – colei che era stata abbandonata persino dai parenti e che era andata a vivere con un sarto di campagna. Con il passare degli anni il ricordo di ciò che era realmente accaduto nella chiesa di Applethwaite era diventato indistinto e, sebbene il lettore sappia che il matrimonio potesse essere facilmente comprovato, – ci sarebbe stata ben poca difficoltà se l’unica difficoltà fosse consistita nel dimostrare ciò – il giovane erede e i lontani Lovel non ne erano sicuri. Andava contro il loro interesse ed erano decisi a non crederci. Ma il conte poteva, e probabilmente l’avrebbe fatto, lasciare tutte le sue ricchezze a una estranea. Non si era mai in alcun modo occupato del suo erede. Non aveva mai provato interesse per nessuno che portasse il suo nome. Quei vincoli dell’esistenza che chiamiamo amore, che consideriamo rispettabili e riteniamo felici, perché hanno a che fare con il matrimonio e i legami di sangue stabiliti da tutte le leggi fin dai giorni di Mosè, risultavano odiosi per lui e ridicoli ai suoi occhi, perché tutti i doveri lo nauseavano – e così tutte le leggi, tranne quelle che gli garantivano l’uso del suo denaro. Ma sorgeva ora il grande quesito: se fosse matto o sano di mente. Corse subito voce che fosse sul punto di lasciare il paese e fuggire nuovamente in Sicilia. Fu allora che ne venne annunciata la morte.
Ed era morto. Era morto all’età di sessantasette anni, tra le braccia della donna che lo aveva accompagnato. La sua malvagia carriera era terminata e la sua anima era partita per quella vita futura a cui l’aveva preparata con l’esistenza condotta. Le spoglie furono sepolte nel cimitero di Applethwaite, all’angolo estremo della lunga, sparpagliata parrocchia di vallata di Lovel Grange. Davanti alla sua tomba non c’era una sola persona che ne piangesse la morte – il giovane lord però era là, disdegnando persino di portare una fascia nera intorno al cappello. La donna invece rimase chiusa nella sua stanza – un problema per il giovane lord e il suo avvocato, che non potevano certo dire alla straniera di fare i bagagli e andarsene prima che il corpo del suo scomparso amante ricevesse sepoltura. Le era semplicemente stato comunicato che a partire da una certa data – entro una settimana dal funerale – la sua presenza in casa non sarebbe più stata tollerata. Lei aveva lanciato uno sguardo di fuoco all’avvocato, che aveva tentato di comunicarle tale decisione in uno stentato francese, ma aveva risposto solo con qualche parola di disprezzo, rivolgendosi in italiano alla sua cameriera.
Poi fu letto il testamento in presenza del giovane lord – perché un testamento c’era. Tutto quel che il defunto lord aveva posseduto veniva lasciato, in una riga, alla amica più cara, la signorina4 Camilla Spondi, e si dichiarava, con una spiegazione esaustiva, che Camilla Spondi era la signora italiana che viveva alla Grange al momento della stesura del testamento. Dell’erede del vecchio lord, il Conte Lovel vivente, non veniva fatta alcuna menzione. C’erano comunque due altre clausole o parti nel testamento. C’era un elenco che forniva in dettaglio i particolari dei beni lasciati a Camilla Spondi e c’era una tortuosa dichiarazione secondo cui l’autore del testamento riconosceva che Anna Murray era la propria figlia illegittima – la madre di Anna Murray infatti non era mai stata la moglie legittima del testatore, poiché la vera moglie, l’autentica Contessa Lovel, a cui aveva provveduto adeguatamente in separata sede, era ancora viva in Sicilia alla data del testamento – e che con un precedente testamento ormai distrutto aveva provveduto ad Anna Murray; tale disposizione era stata revocata in conseguenza del trattamento ricevuto da parte di Josephine Murray e dei suoi amici. Coloro che credettero alle affermazioni fatte nel testamento, sostennero in seguito che Anna fosse stata privata dell’eredità dal colpo con cui il sarto aveva gettato a terra il conte.
Camilla Spondi fu informata sul contenuto del testamento del conte per quel che la riguardava; ma allo stesso tempo le fu detto che nessuna parte delle ricchezze del defunto sarebbe giunta nelle sue mani finché i tribunali non avessero deciso se il vecchio lord era sano di mente o pazzo quando aveva firmato il documento. Una somma di denaro comunque le fu data, a condizione che partisse immediatamente – ed ella partì. Con lei personalmente non avremo più a che fare. Della sua causa e delle sue rivendicazioni si dovrà dire qualcosa, ma nel giro di poche pagine scomparirà del tutto dalla nostra storia.
Una copia del testamento fu spedita anche ai legali che fino allora avevano curato gli interessi della contessa ripudiata e fu comunicato che l’indennità fino ad allora concessa, doveva di necessità venir meno. Se ella riteneva opportuno rivendicare qualsiasi ulteriore diritto, doveva farlo dimostrando la validità del matrimonio e le fu spiegato, probabilmente senza che fosse corretto da un punto di vista legale, che una simile dimostrazione doveva includere la confutazione di quanto asserito nel testamento del conte. Poiché era intenzione dell’erede far annullare il testamento, una tale affermazione era, a dire il minimo, poco candida. Ma l’intero affare era ormai diventato così confuso che non ci si poteva aspettare che i legali fossero candidi nel discuterne.
Il giovane conte ereditava senza possibilità di dubbio il titolo e la piccola proprietà a Lovel Grange. La donna italiana era a prima vista l’erede di tutto il resto – tranne quella parte degli ingenti beni personali che Josephine Murray poteva pretendere in qualità di vedova, nel caso fosse riuscita a provare che era stata sposata. Ma se il testamento non fosse stato riconosciuto valido, l’italiana non avrebbe avuto nulla. In quel caso l’erede maschio avrebbe avuto tutto se il matrimonio non fosse stato un matrimonio – ma non avrebbe avuto nulla se il matrimonio fosse stato comprovato. Se si fosse potuto dimostrare il matrimonio, Lady Anna avrebbe avuto tutti i beni, tranne quella parte che sarebbe stata reclamata di diritto dalla madre, la vedova. Così l’italiana e il giovane lord erano uniti dall’interesse contro la madre e la figlia per quel che riguardava il matrimonio; mentre il giovane lord e la madre con la figlia erano uniti contro l’italiana riguardo al testamento – ma il giovane lord doveva agire da solo sia contro l’italiana, sia contro la madre e la figlia che lui e i suoi amici consideravano truffatrici e imbroglione. Toccava a lui far annullare il testamento per quel che riguardava l’italiana e poi sostenere l’urto dell’attacco perpetrato ai suoi danni dalla sedicente moglie.
Poco dopo la morte del vecchio lord un doppio compromesso venne offerto a nome del giovane conte. La quantità di denaro in gioco era enorme. L’italiana avrebbe accettato diecimila sterline e se ne sarebbe tornata in Italia, rinunciando a qualunque ulteriore pretesa? E la sedicente contessa avrebbe abbandonato il titolo, riconoscendo che la figlia era illegittima, e se ne sarebbe andata per la sua strada con altre diecimila sterline – o con ventimila, come fu presto lasciato intendere dai gentiluomini che agivano per il conte? Il piano non era di facile attuazione, perché il compromesso sarebbe stato perfetto se stipulato con entrambe, ma sarebbe risultato inutile con una soltanto. Il giovane conte non poteva di certo permettersi di mettere a tacere l’italiana per diecimila sterline, se l’effetto di tale messa a tacere si sarebbe risolto nel porre l’intera ricchezza del defunto lord nelle mani della figlia di lui e della madre della figlia.
L’italiana accettò. Dichiarò con energia italiana che il suo tenero amico scomparso non era mai stato pazzo, nemmeno per un giorno; ma non sapeva nulla delle leggi inglesi e ben poco del denaro inglese. Avrebbe accettato le diecimila sterline – essendosi fatta calcolare il numero di lire a cui ammontavano. Il numero era enorme ed avrebbe accettato l’offerta. Ma quando la proposta fu menzionata alla contessa e le fu spiegata dal suo vecchio amico, Thomas Thwaite, che era ormai diventato povero per difendere la sua causa, lei la respinse con amaro disprezzo – con un disprezzo in cui quasi includeva l’anziano che gliel’aveva rivolta. «È per questo, che ho continuato a lottare?» chiese.
«Per questo in parte», disse il vecchio.
«No, signor Thwaite, assolutamente non per questo; ma perché la mia figliola veda riconosciuti la sua nascita e il suo nome».
«Il suo nome e la sua nascita saranno riconosciuti» disse il sarto, che non aveva nulla di meschino nel cuore. «Lei sarà Lady Anna e voi sarete la Contessa Lovel». La contessa doveva al sarto circa cinque o seimila sterline del suo patrimonio, ammesso che avesse avuto un patrimonio, e il compromesso offerto non solo avrebbe ripagato il sarto fino all’ultimo scellino, ma ne sarebbe avanzata una rendita adeguata per le due donne.
«Mi importa ben poco di me» disse la madre, prendendo tra le sue la mano del sarto e baciandola. «Mia figlia è Lady Anna e non ho il coraggio di mettere in vendita i suoi diritti». Ciò avvenne nel cottage nel Cumberland e il sarto andò subito a Londra a rendere nota la decisione della contessa – come invariabilmente la chiamava.
A quel punto i legali si misero al lavoro. Poiché era impossibile realizzare il doppio compromesso, il singolo compromesso non poteva reggersi. L’italiana si infuriò e pestò i piedi e giurò di dover avere il suo mezzo milione di lire. Ma naturalmente non le era stato garantito il diritto a una simile indennità e gli avvocati del giovane conte proseguirono con il loro lavoro. La simpatia pubblica naturalmente era dalla parte del giovane conte. Contro l’italiana egli aveva dalla sua ogni uomo e donna inglese. Era orribile per le menti degli uomini e delle donne inglesi che un conte inglese di antico lignaggio dovesse venir ridotto sul lastrico perché una meretrice italiana potesse gozzovigliare nuotando in incalcolabili ricchezze. La maggior parte degli uomini credeva, e tutte le donne lo proclamavano, che qualsivoglia segno di pazzia, qualunque potesse essere – per quanto insignificante – fosse da ritenersi sufficiente contro i reclami di una simile donna. Il fatto che l’uomo avesse stilato un tale testamento non era di per sé una prova sufficiente della sua pazzia? Non erano in pochi ad affermare che non era necessaria nessuna ulteriore prova. Da noi però la legge è uguale per una meretrice italiana e per una vedova inglese ed è probabile che nelle sue sottigliezze la si scopra più clemente verso la prima che non nei confronti della seconda. Ma il conte era matto e la legge dichiarò che non era più nelle sue facoltà mentali quando aveva fatto testamento, e l’italiana scomparve, furibonda, nell’oscurità.
L’italiana era stata sconfitta e ora la battaglia era aperta e dichiarata tra il giovane conte e la contessa reclamante. Furono avanzate delle richieste a nome della contessa per ottenere dal patrimonio dei fondi, con i quali dimostrare la fondatezza delle pretese rivendicate, e una certa somma limitata venne concessa. La vita del defunto conte era stata tale da far ritenere che i costi di tutte le controversie risultanti dalle di lui malefatte dovessero venir pagati con i suoi beni – ma serviva denaro contante, denaro contante pronta cassa, a disposizione della contessa per qualsiasi cifra fosse necessaria al suo agente, e ciò era praticamente impossibile da ottenersi. Ormai le simpatie pubbliche erano quasi completamente per il conte. Sebbene venisse riconosciuto che il defunto conte era matto e sebbene fosse divenuto motivo di esultanza che la donna italiana fosse stata mandata via, a gemere nell’ombra senza un penny, grazie alla pazzia del vecchio, tuttavia si credeva che egli avesse scritto la verità dichiarando che il matrimonio era stato un finto matrimonio. Il mondo inglese avrebbe preferito che il giovane conte fosse ricco, in grado di far onore alla propria posizione, in grado di sposare la figlia di un duca, in grado di perpetrare la gloria dell’aristocrazia, piuttosto che una donna, che agli occhi del mondo godeva di cattiva fama, fosse riconosciuta contessa, con una figlia provvista di decine di migliaia di sterline, di cui già si diceva che fosse innamorata del figlio di un sarto. Nulla avrebbe potuto essere più toccante, più adatto a suscitare simpatia, del modo in cui Josephine Murray era stata portata via da casa con il matrimonio e poi brutalmente informata dall’uomo che avrebbe dovuto proteggerla di essere stata ingannata e che lei non ne era la moglie. Nessun maltrattamento mai subito da donna, come è già stato detto, era più adatto a suscitare compassione ed energico aiuto. Ma ormai erano trascorsi diciannove anni da quando era accaduto. Un amico energico c’era ancora – o potremmo dire due, il sarto e suo figlio Daniel. Ma l’opinione pubblica era contro la contessa e nessuno che contasse qualcosa in società era disposto a concederle il titolo. Si facevano scommesse, dandola perdente per due o tre a uno, ed era reputata una truffatrice. Il conte aveva tutta la gloria del successo contro la prima rivale e le roboanti vanterie di legali sicuri di sé ne sostenevano la causa.
Ma i legali dalle roboanti vanterie possono tuttavia essere accorti avvocati e la questione del compromesso fu di nuovo sollevata. Se la dama avesse accettato trentamila sterline e fosse svanita, avrebbe avuto il denaro senza detrazioni e tutte le spese sarebbero state pagate. La somma offerta era ritenuta molto generosa, ma non ammontava alla rendita annuale che era in gioco. Fu respinta con sprezzo. Se fosse stata quadruplicata, sarebbe stata respinta con eguale sprezzo. I legali dalle roboanti vanterie erano ancora ottimisti; ma… Sebbene non venisse mai ammesso a parole, tuttavia si riteneva che potesse esserci un dubbio. E se le parti contendenti avessero unito le forze, se il titolo di contessa fosse stato riconosciuto alla contessa, insieme alla condizione di erede di Lady Anna, e se il conte e Lady Anna si fossero legati nel vincolo sacro del matrimonio? Non si poteva in tal modo arrivare a una soluzione risolutiva di tutte le difficoltà?